FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 146 - Gennaio 2007
SOMMARIO:
1) 17 gennaio: trent’anni di pena di morte americana
2) Dopo Saddam, impiccati due coimputati
3) L’esecuzione di Saddam rilancia l’iniziativa per la moratoria
4) Il caso di Gerald Marshall
5) Di nuovo in Corte suprema la pena di morte per i malati di mente
6) Scrivetemi qui nel braccio della morte della Virginia
7) Due ragazze venute da lontano
8) “Innocente”
9) Notiziario: Florida, Iraq, Nazioni Unite, Usa
1) 17 GENNAIO: TRENT’ANNI DI PENA DI MORTE AMERICANA di Claudio Giusti
In occasione di un lugubre compleanno, quello della pena di morte che ricominciò a far vittime negli Stati Uniti d’America esattamente trent’anni fa, Claudio Giusti ha scritto il seguente articolo in cui, da un crescendo di cifre, emerge l’assurdità dell’elefantiaco sistema della pena capitale americana
Il 17 gennaio 1977 lo Utah fucilava Gary Gilmore. (*)
In questi trent’anni di esperimento americano ci sono state più di 1.000 esecuzioni. Per ottenerle si sono tenuti decine di migliaia di processi che hanno prodotto 7.000 condanne a morte, che hanno causato centinaia di migliaia di appelli statali e federali e infiniti pronunciamenti di corti superiori, che a loro volta hanno prodotto migliaia di sentenze delle Corti Supreme statali e almeno 200 sentenze della Corte Suprema federale. Ognuna di queste sentenze è stata accompagnata da dissenting e concurring opinions e commentata da centinaia di articoli e saggi, mentre migliaia di giuristi hanno perso il sonno nel cercare di penetrare gli arcani meandri del loro esoterico linguaggio.
In questi trent’anni ci sono stati milioni di udienze preliminari, di mozioni pre-trial, di testimonianze, di analisi di laboratorio e di arringhe, mentre centinaia di migliaia di giudici, giurati, impiegati, testimoni, poliziotti, esperti, medici, psichiatri, avvocati e procuratori vi hanno speso miliardi di ore di lavoro.
In questi trent’anni sono stati scritti infiniti articoli di giornale, innumerevoli saggi di riviste giuridiche e pubblicati centinaia di libri e rapporti. Ci sono state dozzine di commissioni e di studi scientifici e si sono tenuti innumerevoli dibattiti, seminari, congressi e conferenze in cui due generazioni di abolizionisti hanno fatto i capelli bianchi.
Il costo economico di tutto questo immenso casino è enorme, gigantesco, mostruoso, incalcolabile. In Florida ogni cottura sulla sedia elettrica, alla fiamma o al sangue, è costata 24 milioni di dollari. In California ogni esecuzione è costata 250 milioni. Ognuna delle 1.000 e passa esecuzioni è costata al contribuente americano non meno di dieci milioni di dollari.
Questa immane catastrofe non ha prodotto alcun risultato (a parte il migliaio di disgraziati uccisi a sangue freddo). Gli stati con la pena di morte non sono più sicuri di quelli senza. Anzi! Di norma succede il contrario e lo stato che ha abolito la pena capitale ha un tasso di omicidi più basso di quelli vicini che non l’hanno fatto.
Se gli Stati Uniti fossero il paese pragmatico di cui si favoleggia avrebbero abolito la pena di morte da molto tempo.
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(*) Mentre in Europa occidentale si discuteva se abolire la pena di morte, tra gli anni sessanta e settanta gli Stati Uniti d’America l’avevano di fatto abolita. Si era arrivati ad avere una maggioranza di Americani contrari alla pena capitale. Nel 1972 con la sentenza “Furman v. Georgia” la Corte Suprema federale – dichiarando incostituzionale la prassi della pena capitale - aveva svuotato i bracci della morte. Per un decennio, tra il 1967 e il 1977, non vi fu nessuna esecuzione. Per un complesso di fattori politici e sociali sfavorevoli vi fu poi un’inversione di tendenza e le esecuzioni ripresero all’inizio del 1977. Da meno di un’esecuzione all’anno si arrivò alle 98 esecuzioni del 1999. In trent’anni, dal 17 gennaio 1977 al 16 gennaio 2007, negli Stati Uniti si sono registrate 1059 esecuzioni capitali (n. d. r.)
2) DOPO SADDAM, IMPICCATI DUE COIMPUTATI
Il 15 gennaio il fratellastro di Saddam Hussein, Barzan Ibrahim al-Tikriti, già capo della polizia segreta irachena, e Awad Hamad al-Bandar, presidente del tribunale rivoluzionario che operò sotto il regime di Saddam, sono stati impiccati nello stesso luogo in cui quindici giorni prima è stato ferocemente ucciso il loro ex presidente. In febbraio potrebbe esserci una quarta impiccagione eccellente: quella dell’ex vice presidente iracheno Taha Yassin Ramadhan
Secondo il programma, altri due uomini avrebbero dovuto essere impiccati insieme a Saddam Hussein il 30 dicembre scorso, infatti all’alba di quel giorno anche il suo fratellastro Barzan Ibrahim al-Tikriti, ex capo dei servizi segreti, e Awad Hamad al-Bandar, ex presidente del Tribunale rivoluzionario erano stati prelevati dalle loro celle e condotti nell’edificio dell’esecuzione. Tuttavia dopo nove ore erano stati riportati in carcere senza che venisse fornita loro alcuna spiegazione. Secondo gli osservatori, il motivo del cambiamento di programma era il particolare risalto che il governo iracheno voleva dare all’esecuzione di Saddam: il suo ruolo di “protagonista” sarebbe stato altrimenti offuscato dalla contemporanea uccisione degli ex collaboratori.
Dopo alcuni rinvii, quando già speravano che le forti pressioni internazionali sul governo iracheno potessero salvarli, i due meschini sono stati avvisati all’improvviso e all’ultimo momento che sarebbero stai impiccati. A nulla sono valse la loro disperazione, la dichiarazione del loro pentimento e le preghiere accorate di essere risparmiati.
Nel frattempo la scia mediatica dell’esecuzione di Saddam aveva provocato un grande effetto, ma non esattamente quello auspicato dall’amministrazione irachena, spalleggiata da quella americana (un duro colpo ai sostenitori di Saddam ancora molto numerosi). Infatti la trasmissione del video del condannato insultato e vilipeso dai funzionari, dai boia e dai testimoni, ha sollevato un’ondata di proteste non solo delle organizzazioni e delle nazioni che abitualmente si oppongono alla pena capitale e difendono i diritti umani, ma anche di coloro che hanno visto, nella brutale e umiliante impiccagione di Saddam, l’esaltazione del coraggio e della dignità dell’ex dittatore (che aveva vietato ai suoi avvocati di perorare una qualsiasi forma di clemenza) e la trasformazione del ‘giustiziato’ in un martire.
Considerato quanto era successo e soprattutto viste le reazioni internazionali, gli Americani avevano imposto agli Iracheni di seguire un rigido protocollo che evitasse il ripetersi di ‘errori’ analoghi durante l’esecuzione dei due correi di Saddam. Si sono pertanto prese misure cautelari: sono stati vietati e sequestrati ai presenti sul luogo dell’esecuzione i telefoni cellulari, il numero dei testimoni è stato dimezzato e a tutti i presenti è stato rigorosamente vietato di esprimere commenti o di comportarsi in modo oltraggioso verso i condannati. Tutto sarebbe perciò dovuto andare liscio, e queste due nuove esecuzioni avrebbero dovuto contribuire a far dimenticare l’orrore dell’infamante esecuzione di Saddam, mostrando il “nuovo” Iraq come un “faro” di civiltà e rispetto della dignità umana, anche nello svolgimento di un penoso dovere, come l'esecuzione di terribili criminali… peccato che le cose siano andate storte anche questa volta.
L’impiccagione di Barzan Ibrahim al-Tikriti, fratellastro di Saddam, nonché ex capo della sua polizia segreta, accusato di aver torturato e ucciso sommariamente centinaia di persone, si è infatti trasformata in una decapitazione: mentre il corpo dell’uomo precipitava in fondo alla botola, la sua testa si staccava e andava a cadere ad una certa distanza. L’esecuzione è ‘mal riuscita’ perché è stata calcolata male la lunghezza della corda che consentisse una caduta del condannato abbastanza lunga da rompere l’osso del collo senza però provocare il distacco della testa.
Questo incidente sembra aver scosso i nervi del governo di al-Maliki: tanto per cominciare i media hanno potuto comunicare la notizia in modo molto velato e solo dopo sette ore dall’evento, trasmettendo il video dell’esecuzione senza inserire l’audio, per cui non si sono sentite eventuali imprecazioni o urla. E’ stata letta una lunga dichiarazione ufficiale che si è diffusa ampiamente sulla descrizione dei crimini dei due imputati dando la notizia della decapitazione, impossibile da nascondere, “fra le righe” e in modo molto rapido. I media si sono inoltre dovuti impegnare a non trasmettere più volte il video dell’esecuzione. E’ bastata comunque quell’unica volta a destare orrore e raccapriccio nel mondo: nel filmato, che dura in tutto tre minuti, si vede chiaramente la testa di Ibrahim staccarsi di netto e, rimanendo rinchiusa nel cappuccio arancione in cui era stata infilata prima dell’impiccagione, andare a cadere a circa un metro e mezzo dal corpo decapitato, da cui il sangue usciva a fiotti e si allargava a formare una pozza tutto intorno.
Ovviamente questa ulteriore conseguenza del mancato rispetto della dignità umana, verificatasi al termine di una serie di gravissime violazioni dei diritti personali e processuali degli imputati, ha rinnovato un profondo sdegno in tutto il mondo.
Amnesty International ha condannato le esecuzioni come una brutale violazione del diritto alla vita definendole un’ulteriore occasione persa per far luce e giustizia sui crimini commessi durante il governo di Saddam Hussein.
Il macabro ‘incidente’ verificatosi il 15 gennaio non è stato il primo del genere occorso sotto il nuovo governo: altre tre decapitazioni erano state causate in precedenza dal nodo scorsoio. Anche per Saddam si è rischiato un simile esito: sul suo collo piegato ad angolo retto dopo l’impiccagione, era evidente uno squarcio sanguinolento.
Da quando gli Americani hanno imposto la “democrazia” e da quando, secondo il concetto americano di democrazia, la pena di morte è stata reintrodotta in Iraq nell’agosto 2004, la tutela dei diritti umani non è certo progredita rispetto ai tempi della dittatura di Saddam. Tortura, maltrattamenti, terrorismo psicologico, carcerazione massiva in condizioni intollerabili, si sono aggiunti alle decine di migliaia di uccisioni di militari e civili in scontri ed attentati. Inoltre, secondo una stima prudenziale, si sono già verificate nel nuovo Iraq almeno 67 esecuzioni, per non parlare di tutte le uccisioni extragiudiziali compiute dagli squadroni della morte e dagli aguzzini dei prigionieri di Abu Ghraib e delle altre numerose prigioni disseminate nel paese martoriato.
E’ molto probabile che la serie dei video shock e delle notizie raccapriccianti in prima pagina non sia terminata: ci si aspetta che entro il mese di febbraio venga commutata in pena capitale la condanna all’ergastolo ‘troppo mite’ inflitta all’ex vice presidente iracheno Taha Yassin Ramadhan. Ricordiamo che Ramadhan è stato processato con Saddam per le 148 esecuzioni di Dujail, condannato al carcere a vita il 5 novembre, la sua sentenza è stata respinta dalla corte d’appello il 26 dicembre (v. n. 144). Il Tribunale Speciale iracheno doveva riunirsi per decidere su di lui il 25 gennaio, così non è accaduto e una nuova scadenza è stata fissata per il 12 febbraio. Se commutata, si presume che la sentenza verrà eseguita nel giro di qualche giorno. Il tutto sotto un profluvio di proteste provenienti da tutto il mondo e con l’esplicita approvazione del governo americano.
Mentre le autorità di una decina di stati nordamericani (tra cui i governatori della Florida e della California, v. n. 144), hanno, almeno temporaneamente, sospeso le esecuzioni delle condanne a morte per salvare la faccia davanti al pubblico dando l’impressione di impensierirsi della possibile sofferenza provocata dall’iniezione letale, l’amministrazione Bush non sembra avere altrettante preoccupazioni per quanto avviene nell’ultimo paese “salvato”, l’Iraq. (Grazia)
3) L’ESECUZIONE DI SADDAM RILANCIA L’INIZIATIVA PER LA MORATORIA
La barbara esecuzione di Saddam Hussein ha provocato forti emozioni nel mondo creando il clima propizio per il rilancio dell’iniziativa per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. L’Italia – con Prodi e D’Alema - si è schierata in prima fila per ottenere una risoluzione in tal senso dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La risoluzione per la moratoria – sulla cui opportunità nel momento attuale le organizzazioni abolizioniste hanno pareri piuttosto differenziati - dovrebbe essere presentata in primo luogo dai paesi dell’Unione Europea. Si temono resistenze da parte dell’Inghilterra (seguita da alcuni paesi minori dell’Unione) che, secondo indiscrezioni, ancora una volta non vorrebbe urtare l’alleato americano su una questione considerata di portata ‘strategica’ sullo scenario internazionale.
Quello della ‘moratoria universale’ cioè della sospensione delle esecuzioni capitali nel mondo intero, intesa come propedeutica ad una riflessione approfondita sulla pena di morte che porti alla cancellazione di questa istituzione crudele e non necessaria dai codici di tutti i paesi, è un movimento nato negli anni novanta e consolidatosi alla fine del secolo scorso. Ne è scaturita una iniziativa in seno al Consiglio (*) per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che ha prodotto una risoluzione in tal senso nel 1997, ripetutasi di anno in anno nella sessione ordinaria del Consiglio che si tiene in primavera.
Un assai più importante tentativo fu fatto nell’ambito della 54-esima Assemblea Generale dell’ONU alla vigilia dell’anno 2000, anno di enorme portata simbolica (v. nn. 72, 73).
L’Unione Europea, allora composta da 15 membri, nell’ottobre del 1999 presentò una nobile e forte risoluzione per la moratoria co-sponsorizzata da 72 paesi.
L’iniziativa in cui l’Italia assunse un ruolo predominante era stata preparata da un vigoroso impegno dei soggetti abolizionisti. Oltre ad Amnesty International, si erano spesi per la moratoria Nessuno Tocchi Caino, che svolse azioni di lobbying in Italia e ambito internazionale, la Comunità di Sant’Egidio, che formulò un appello firmato da quasi due milioni di persone in tutto il mondo, e suor Helen Prejean, che si batté allo stremo in decine e decine di conferenze sia negli Stati Uniti che in Europa.
La risoluzione dell’ U. E. - che chiedeva la sospensione di tutte le esecuzioni a partire dall’anno 2000 e una riflessione triennale sulla pena di morte in vista di una sua abolizione universale – incontrò un imprevisto fuoco di sbarramento da parte di una settantina di paesi poveri, e in particolare di Singapore e dell’Egitto, i quali – in sostanza - dissero che la risoluzione violava il principio della sovranità nazionale.
A New York i delegati di Amnesty e i rappresentanti di alcuni paesi all’ONU - tra cui l’Italia, la Finlandia, che teneva la presidenza dell’U. E., e il Messico - si impegnarono freneticamente per giungere ad un compromesso che consentisse il passaggio della risoluzione pur preservandola da emendamenti inaccettabili che subordinassero la difesa dei diritti umani all’esercizio della sovranità nazionale.
Quando già si profilava una possibile svolta positiva con un emendamento formulato dal Messico, a sorpresa, i ministri dell’Unione Europea, riuniti a Bruxelles il 16 ottobre 1999, faxarono ai loro ambasciatori alle Nazioni Unite l’ordine di ritirare la risoluzione per la moratoria.
Grandissima fu la delusione della maggioranza degli abolizionisti, alcuni dei quali accusarono apertamente i ministri europei, e in particolare il nostro Ministro degli Esteri Lamberto Dini, di opportunismo e di codardia.
In effetti con grandissima probabilità il principale motivo dell’improvviso voltafaccia non fu – come si dichiarò ufficialmente - il rischio di veder respinta a maggioranza la risoluzione o di vederne approvata una variante snaturata da emendamenti inaccettabili. Si parlò invece di pressioni sotterranee su alcuni paesi europei, a cominciare dall’Inghilterra, di grandi potenze mondiali, o almeno di una grande potenza (gli Stati Uniti) che percepiva come uno scacco umiliante l’affermazione solenne di un principio in contrasto con la propria posizione ufficialmente dichiarata e sostenuta ai massimi livelli.
Si cercò di consolare i delusi dicendo che l’operazione moratoria in Assemblea Generale era solo rimandata, alla prossima congiuntura favorevole e prevedibilmente di soli due anni.
Solo quest’anno, mentre il biennio si avviava silenziosamente a diventare un decennio, è successo qualcosa.
In Italia lo scalpore suscitato dall’esecuzione di Saddam Hussein e poi dei due ex collaboratori – che ha accentuato l’effetto prodotto da uno sciopero della fame di Marco Pannella contro l’uccisione di Saddam - ha indotto il governo a tirar fuori dal cassetto e a rendere esplicita ai massimi livelli europei l’iniziativa per la moratoria che compariva tra i temi riguardanti i diritti umani messi in agenda dal governo di centro sinistra.
La ripartenza, in questo momento, dell’iniziativa nei riguardi dell’Assemblea Generale non è stata accolta con lo stesso favore da tutti i soggetti abolizionisti. Sappiamo che sulla moratoria le posizioni sono parecchio diversificate. Ci sono tra i massimi esperti, anche in ambito internazione e anche in Amnesty International, forti timori che un eventuale esito negativo dell’operazione, anziché lasciare la situazione immutata, possa far fare un passo indietro al processo abolizionista. E’ inutile rischiare – alcuni dicono – tanto più che l’effetto pratico della risoluzione potrebbe essere molto limitato. Infatti è impensabile che il rispetto di una direttiva del genere dell’Assemblea Generale possa essere imposto con provvedimenti coercitivi.
Noi siamo tra quelli che pensano che il passaggio della risoluzione sulla moratoria in Assemblea Generale ONU non sarebbe di scarsa importanza per il movimento abolizionista. E’ chiaro infatti che da quel momento in poi una specie di anatema internazionale peserebbe su ogni esecuzione capitale e il paese che la compisse sarebbe costretto a soppesarne i rischi derivanti per la sua immagine.
La nostra convinzione è supportata per lo meno dal fatto che chi più fa della pena di morte una questione strategica si impegna seriamente e in anticipo per evitare che si arrivi alla discussione della risoluzione in Assemblea Generale.
Occorre tuttavia fare bene i calcoli e muoversi con decisione, questo sì, per evitare che, una volta presentata in Assemblea Generale, la risoluzione per la moratoria venga respinta a maggioranza.
Tornando agli avvenimenti attuali, come dicevamo, dopo la barbara impiccagione di Saddam Hussein, sia il nostro presidente del consiglio Prodi che il vice presidente e Ministro degli Esteri D’Alema hanno dichiarato apertamente la posizione dell’Italia a sostengo della moratoria. Poi, il 16 gennaio, il giorno dopo la sanguinosa impiccagione del fratellastro di Saddam Hussein, il nostro Guardasigilli Clemente Mastella, nella riunione informale di Dresda dei ministri della giustizia e degli interni europei, è riuscito ad ottenere un’adesione ufficiosa dei 27 paesi dell’U. E. all’iniziativa per la moratoria. "La posta in gioco è altissima, la nostra è una battaglia irrinunciabile per il progresso dell'umanità", ha dichiarato Mastella.
Lo stesso giorno sette degli otto presidenti dei gruppi del Parlamento europeo hanno sottoscritto la proposta di moratoria da far approvare in sede ONU, prefigurando una votazione in aula praticamente all’unanimità dei circa 800 parlamentari europei.
Purtroppo, alla riunione dei ministri degli esteri del 22 gennaio a Bruxelles si sono avuti i primi effetti della prevedibile controffensiva USA. Il giornale britannico The Independent in un articolo del 31 gennaio afferma che quando il ministro degli esteri italiano D’Alema ha chiesto di esplicitare un appoggio unanime dell’Unione alla battaglia sulla moratoria, l’Inghilterra si è messa di traverso; i diplomatici inglesi hanno detto privatamente di non voler creare difficoltà per gli Stati Uniti in tempi delicati; l’Olanda, la Danimarca e l’Ungheria si sono accodate all’Inghilterra.
Questo fatto non implica che l’iniziativa per la moratoria venga di nuovo congelata come accadde nel 1999 ma certo non è un segnale incoraggiante: l’altra volta, almeno, i paesi dell’Unione Europea partirono compatti.
Staremo a vedere che cosa accadrà. Per ora consoliamoci col fatto che il Parlamento Europeo è schierato quasi all’unanimità a favore dell’iniziativa di portare la moratoria all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Staremo a vedere quale sarà il reale comportamento dei vertici del nostro governo, in particolare di Massimo D’Alema che subito dopo l’esecuzione di Saddam ha dichiarato: “Ritengo che questo debba costituire uno dei principali impegni nei nostri sforzi internazionali perché è urgente un’iniziativa per mettere fine alla barbarie della pena di morte."
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(*) Tale organismo ha assunto un carattere elettivo e un nuovo nome nel 2006 (v. n. 139, notiziario). Prima si chiamava Commissione per i Diritti umani
4) IL CASO DI GERALD MARSHALL
Un mese fa la Corte Criminale d’Appello del Texas ha ritenuto, respingendo il ‘direct appeal’ di Gerald Marshall, che la polizia e l’accusa hanno fatto un buon lavoro per ottenere da una giuria la condanna a morte di Gerald. Tuttavia le testimonianze usate contro di lui nel processo del 2004 sono talmente scadenti da lasciare sostanziali dubbi sulla sua colpevolezza o quanto meno sul grado della sua colpevolezza. Soprattutto in un sistema che prevede la pena di morte non è accettabile che quanto manca alle prove venga colmato dalla brama di fare comunque ‘giustizia’ su un qualsiasi capro espiatorio. Abbiamo approfondito la situazione legale di Gerald Marshall perché la riteniamo particolarmente ingiusta e meritevole di una correzione nel corso degli appelli. Esponiamo qui il risultato del nostro studio basato soprattutto sulla lettura della sentenza con cui la Corte Criminale d’Appello del Texas ha respinto il primo appello del condannato dopo il processo.
Alle 4 di notte dell’11 maggio 2003 nel corso di una rapina in un ristorante What-a-burger di Houston fu ucciso con un colpo di pistola nell’occhio sinistro l’impiegato Christopher Martin Dean.
Nel delitto furono coinvolti Gerald Marshall, Ronald Worthy e Kenny Earl Calliham. Questi, amici fra loro, secondo l’accusa si avvicinarono alla finestra da cui venivano serviti gli automobilisti (drive-through window) a bordo di un’auto condotta da Calliham e appartenente al boyfriend di Julia, sorella di Gerald Marshall.
Secondo la testimonianza di tale Wilbert Marsh, un commesso che si era nascosto dietro ad alcune casse all’arrivo dei rapinatori, solo il passeggero che sedeva sul sedile posteriore dell’auto sarebbe sceso armato e avrebbe inseguito e messo sotto pressione la vittima, infine avrebbe minacciato tre volte di ucciderla se non avesse consegnato le chiavi della cassaforte e poi l’avrebbe uccisa.
Un altro commesso, tale Tony Ketchum, nascostosi in un frigorifero, ha descritto l’assalitore in modo assai diverso da Marsh, ma entrambi i commessi hanno asserito che questi impugnava una pistola chiara.
La girlfriend di Marshall, tale Woods, ha testimoniato di aver visto una pistola argentea nelle mani di Marshall circa tre ore dopo l’omicidio.
Secondo la polizia la rapina sarebbe stata concordata in anticipo tra Marshall e tale Gregory O'Neil Love, direttore di notte del ristorante (suo ex collega di lavoro). Love però non fu presente al momento della rapina perché era andato via dal ristorante alcune ore prima.
Marsh che non conosceva l’imputato e che in precedenza non era stato capace di identificare il rapinatore dal lui visto la notte del delitto, al processo testimoniò invece di riconoscere in Marshall l’aggressore. Da notare: tra le foto segnaletiche che erano state mostrate inutilmente a Marsh, c’era quella di Gerald Marshall. Allora Marsh non lo riconobbe bensì riconobbe immediatamente un altro sospetto, tale Robinson (che, tra parentesi, rassomiglia molto a Worthy)
Calliham patteggiò con l’accusa un’incriminazione per rapina aggravata senza andare al processo, con una condanna a 10 anni ‘in prova’ (cioè in libertà), in cambio di una sua testimonianza contro Marshall.
Calliham al processo testimoniò che: non sapeva nulla della progettata rapina, Worthy sedeva davanti in macchina mentre Marshall sedeva sul sedile posteriore, Marshall uscì dall’auto impugnando una pistola argentea. Calliham testimoniò anche di non sapere dove fosse andato Worthy ma di aver avuto l’impressione che gli corresse dietro mentre proseguiva in auto per recarsi in un parcheggio lì vicino e che Worthy stava comunque dietro alla macchina al momento in cui si udì lo sparo.
Nel contro-interrogatorio fatto dalla difesa, Calliham ha ammesso che in precedenza aveva dato alla polizia tutt’altra versione: che Marshall aveva una pistola scura, che sia Worthy che Marshall uscirono con le pistole in pugno dal ristorante dopo lo sparo correndo verso la macchina.
Un detenuto della prigione di stato, tale Clarence Green, in procinto di ricevere una condanna per reati che comportavano una pena minima di 25 anni, patteggiò con l’accusa una condanna ad un solo anno di reclusione in cambio di una testimonianza contro Gerald Marshall. Green al processo affermò che Marshall gli aveva confessato in carcere di essere stato lui l’assassino.
Marshall inizialmente dichiarò alla polizia di essere del tutto estraneo alla rapina ma in seguito – rinunciando al diritto di rimanere in silenzio e di essere assistito da un avvocato – ammise di esservi stato coinvolto insieme a Worthy e a Calliham, sia pure in maniera marginale: avrebbe semplicemente fatto la guardia alla porta posteriore del ristorante, munito di una pistola scura priva di munizioni, mentre Worthy entrava e commetteva l’omicidio.
L’accusa chiese alla giuria di decidere sulla condanna a morte di Marshall basandosi unicamente sul presupposto che egli uccise materialmente la vittima (non essendo stata invocata l’applicazione della legge sulle complicità, la famosa ‘law of parties’)
La Corte Criminale d’Appello del Texas, nel respingere il ‘direct appeal’ di Marshall, il 20 dicembre 2006 ha affermato che le testimonianze di Calliham e di Green, integrate da quella di Marsh, sono sufficienti a supportare la tesi accusatoria che Marshall, da solo, entrò nel ristorante e uccise la vittima.
La madre di Marshall, in divisa carceraria perché detenuta, testimoniò a favore del figlio nella fase di punishment del processo (in cui, dopo la sentenza di colpevolezza, si doveva decidere se infliggere al reo la pena di morte o il carcere a vita in ragione delle eventuali attenuanti).
La signora Johni Marshall, di 48 anni, che stava scontando una pena di 2 anni per possesso di droga, testimoniò di essere stata dipendente da crack di cocaina per anni e di essere stata incapace di occuparsi del figlio. Gerald crebbe in una serie di istituti e soffrì abusi, ma l’accusatore Vic Wisner asserì che ciò non poteva essere ritenuto motivo sufficiente per risparmiargli la vita. “Gli è toccata una coppia di cattivi genitori,” disse Wisner alla giuria. “Penso che ritengano che egli si sia guadagnata vita natural durante un’etichetta del tipo ‘Posso-commettere-un-omicidio-capitale-senza-prendermi-la-pena-di-morte’. Questo è ciò che essi hanno voluto farvi credere.”
In conclusione, Gerald Marshall è stato condannato a morte in base alle testimonianze di due criminali, che in cambio delle loro deposizioni hanno avuto enormi sconti di pena, corroborate dalla testimonianza di Wilbert Marsh che, probabilmente in buona fede, è stato manipolato dalla polizia e dall’accusa. I suoi contraddittori ‘riconoscimenti’ non possono che confermare la regola generale che le testimonianze oculari sono inattendibili se il testimone non conosce l’imputato in precedenza. L’affermazione di Marsh che l’assassino aveva una pistola chiara è troppo debole per poter attribuire a Marshall l’omicidio, specie se - come è evidente - la polizia e l’accusa hanno influenzato gli altri testimoni per far coincidere la testimonianza di Marsh su questo aspetto con le altre testimonianze. Dalla lettura delle carte legali, si può ricavare l’opinione che ad uccidere Christopher Martin Dean potrebbe essere stato, con altrettanta probabilità, il coimputato Ronald Worthy (che lo stesso Marshall accusa esplicitamente).
Informiamo del caso di Gerald Marshall tutti i soci e i simpatizzanti del Comitato nella speranza che si aprano possibilità e strade verso una mobilitazione intelligente ed efficace in favore di Gerald.
5) DI NUOVO IN CORTE SUPREMA LA PENA DI MORTE PER I MALATI DI MENTE
Il 5 gennaio la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di utilizzare il caso di Scott Panetti, affetto da schizofrenia e condannato a morte in Texas, per stabilire quando una malattia mentale è così grave al momento dell’esecuzione da rendere anticostituzionale l’esecuzione stessa. Il passo successivo sarebbe il giudizio sulla liceità costituzionale di applicare la pena di morte a coloro che siano affetti da una malattia mentale grave già al momento del crimine.
Un numero enorme di malati di mente viene rinchiusa nelle prigioni americane (*), più di quanti ne siano ospitati dagli ospedali psichiatrici, liberando così le strade da persone che recano disturbo e che in alcuni casi sono aggressive e pericolose. Anche le famiglie ne traggono un sollievo, alleggerite del peso di assistere e sopportare i loro membri più deboli in una situazione in cui i servizi pubblici di salute mentale sono assolutamente insufficienti.
La percentuale di malati mentali non si abbassa certo nei bracci della morte, in cui le condizioni di detenzione sono durissime e in cui circa il 12% degli individui sono così sofferenti da chiedere di por termine agli appelli e di essere uccisi quanto prima.
I malati di mente che compiono delitti assurdi, molto spesso perché in preda ad allucinazioni, a percezione paranoica od a pulsioni irrefrenabili – che da noi verrebbero definiti ‘incapaci di intendere e volere’ – negli Stati Uniti non godono di protezioni costituzionali contro l’inflizione delle sentenze capitali e vengono condannati a morte con grande frequenza e non meno degli altri criminali.
Questo fatto, che costituisce un aspetto particolarmente perverso del sistema della pena capitale, secondo gli osservatori potrebbe essere oggetto di una prossima decisione storica della Corte Suprema federale che in questi anni ha già dichiarato incostituzionale la pena di morte inflitta ai ritardati mentali (a fine giugno del 2002) e ai minorenni al momento del crimine (il 1° marzo 2005).
E’ fin troppo evidente infatti che se la pena di morte è proibita per i minorenni e ai ritardati mentali in quando persone non pienamente consapevoli e padrone dei propri comportamenti, la stessa cosa dovrebbe valere per i malati mentali.
Per ora, solo quando gli accusati di reato capitale sono così abbrutiti da non essere in grado di comprendere i passi essenziali di un processo e di collaborare con gli avvocati difensori, le leggi prevedono che non si possa procedere in giudizio, almeno fin a che l’accusato non riacquisti il minimo di capacità necessarie.
Del pari in un certo numero di casi non si procede all’esecuzione di un condannato fin tanto che egli non si renda conto di essere messo a morte e del motivo per cui viene ucciso (accade a volte che un condannato venga sottoposto ad una cura farmacologia forzata e, non appena riacquistata un po’ di lucidità, venga ‘giustiziato’).
La Corte Suprema degli Stati Uniti - in attesa del giorno in cui troverà il coraggio di affrontare il problema della liceità dell’inflizione della pena di morte ai criminali che soffrono di una malattia mentale grave già al momento del crimine - ha deciso per ora di esaminare più a fondo la questione collaterale di coloro che siano affetti da una malattia mentale che li renda inconsapevoli al momento dell’esecuzione.
I problemi causati dalla malattia mentale già investono ripetutamente il sistema giudiziario criminale, ma la situazione potrebbe subire una svolta con una nuova decisione in merito della massima corte statunitense.
Nel 1986 la Corte Suprema aveva affermato che l’Ottavo Emendamento della Costituzione, che vieta di applicare punizioni crudeli ed inusuali, proibiva l’esecuzione dei malati di mente (sentenza Ford v. Wainwright). I giudici che deliberarono sul caso di allora, non riuscirono tuttavia a stabilire una definizione univoca di malattia mentale. Le corti inferiori hanno pertanto adottato il criterio scritto separatamente dal giudice Lewis F. Powell Jr., che affermò che “Il fine retributivo della legge criminale” è soddisfatto fino a quando gli imputati si rendono conto “del tipo di punizione che stanno per subire” e “del motivo per cui la subiranno”.
La Corte federale di Appello del Quinto Circuito, che si occupa dei ricorsi dei condannati in Texas, ha ridotto all’osso questo concetto, affidandosi, per i casi dubbi, a dei test di “consapevolezza”.
Il caso particolare sul quale si baserà la Corte Suprema è quello di Scott L. Panetti, il cui appello è stato recentemente respinto dalla Corte del Quinto Circuito.
Panetti, condannato a morte nel 1992 per aver ucciso i suoi suoceri di fronte alla moglie e al loro figlioletto di tre anni, è un veterano della Marina di 48 anni. Negli anni precedenti il crimine, Panetti era stato ricoverato per episodi di schizofrenia 14 volte (per esempio nel 1986 aveva ammassato tutti i suoi mobili in giardino, e aveva successivamente sferrato violente coltellate alle pareti interne della sua casa, affermando di voler distruggere gli spiriti maligni che infestavano la sua abitazione).
Al processo Panetti scelse di difendersi da solo (e la cosa gli fu concessa!) e si presentò in aula vestito con un costume rosso da cow-boy. Durante le udienze cercò di chiamare a testimoniare in suo favore Gesù, John Kennedy e Ann Bancroft. Nonostante questi evidenti segni di follia, egli fu condannato a morte.
La Corte d’Appello del Quinto Circuito, attenendosi al suo abituale ridottissimo standard di consapevolezza necessaria per un’esecuzione, ha respinto l’appello di Panetti, affermando che, dal test a cui è stato sottoposto da alcuni psichiatri, risulta che egli si rende conto che verrà ucciso per il crimine che ha commesso. Il fatto che egli sia convinto che la sua esecuzione è determinata però da una cospirazione messa in atto da forze maligne, per impedirgli di predicare il Vangelo, è, secondo la corte, un dettaglio che non inficia la possibilità di uccidere Panetti.
Gli avvocati difensori del condannato hanno subito reagito, appellandosi alla Corte Suprema, obiettando che la Corte d’appello ha distorto il significato dell’affermazione del giudice Powell, perché non tiene tenere conto del fattore allucinazione: “La forza morale della retribuzione è persa se un detenuto ritiene che la sua esecuzione viene messa in atto a causa di una cospirazione di forze demoniache piuttosto che in forza di una punizione legalmente stabilita per i suoi orrendi crimini”.
In una relazione che invita i giudici della Corte suprema a prendere in considerazione l’appello di Panetti, la National Alliance on Mental Illness (Alleanza Nazionale per le Malattie Mentali) ha dichiarato “questo caso rappresenta l’esempio tipico del fatto che la mera ‘consapevolezza’, così come determinata dal test effettuato dal Quinto Circuito, non è un requisito significativo per determinare se si possono giustiziare prigionieri gravemente malati di mente”.
Ritenendo meritevole di attenzione l’appello della difesa, il 5 gennaio la Corte Suprema ha deciso di esaminare il caso di Panetti e di tenere delle udienze a partire da una data che cadrà tra marzo e aprile.
Non è facile prevedere quale sarà la decisione dell’attuale Corte Suprema degli Stati Uniti, estremamente divisa al suo interno e la cui ala più conservatrice è stata di recente rafforzata dal presidente Bush con la nomina dei giudici Roberts ed Alito, ma ci auguriamo che questa rinata sensibilità alla spaventosa ingiustizia costituita dall’esecuzione di malati mentali gravi, possa far compiere alla grande democrazia americana, in rapida successione, i passaggi che portino all’abolizione della pena di morte per un’altra importante categoria di persone particolarmente deboli, quella dei malati mentali, sulla strada dell’abolizione totale della pena di morte. (Grazia)
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(*) Secondo uno studio del Dipartimento di Giustizia del settembre scorso, i detenuti con problemi mentali nel 2005 erano il 64% del totale
6) SCRIVETEMI QUI NEL BRACCIO DELLA MORTE DELLA VIRGINIA
La nostra amica Giulia Marengo ci ha inviato la seguente richiesta di corrispondenza di Jerry Jackson, un suo pen pal in cerca di altri amici. Nel messaggio di Jerry troviamo alcune interessanti notizie sulle condizioni di detenzione nel braccio della morte della Virginia.
Mi chiamo Jerry Terrel Jackson. Ho 25 anni, ed il mio compleanno è il 22 luglio. Ho tre fratelli e due sorelle, e molti nipoti. Mi piace scrivere nonostante la mia calligrafia non sia buona. Quando la luna mi ispira scrivo piccole poesie. Amo la musica ed aiutare gli altri. Spero di riuscire a trovare qualche amico di penna che possa scrivermi spesso, anche se ho pochi soldi, ed a volte può capitare che io non possa comperare i francobolli e rispondere subito alle lettere, ma per favore rimanete con me, e magari potremmo diventare amici.
Aggiungo alcune informazioni sul braccio della morte in Virginia, che mi ospita.
Programma della settimana: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato abbiamo l’intervallo, che consiste nell’andare all’aperto in celle individuali, che sono all’incirca della stessa dimensione di quelle all’interno, solo un poco più piccole. Possiamo vederci l’un l’altro, ma senza contatto tra noi. Abbiamo la doccia la domenica, il martedì ed il venerdì. I nostri pasti sono serviti nelle celle. Alle 7:30, colazione, alle 11:30, pranzo, ed alle 16:30, cena.
Abbiamo un lavandino ed un gabinetto in cella, che sono a poca distanza dal letto.
Ci sono permessi sia la televisione, che lettori di CD ed audiocassette, che possono essere comperati con i nostri denari.
Dunque, se non hai qualche soldo, sei lasciato a te stesso, e puoi dormire o rimanere seduto, leggendo ad esempio. Il cibo è cattivo e scarso, quindi è molto importante avere dei soldi sul proprio conto in tutti i momenti, così da poter comperare cibo, prodotti igienici, musica da ascoltare, e altre cose per passare il tempo.
Le visite sono al sabato ed alla domenica. Di norma sono visite senza contatto fisico ma il contatto ci può essere una volta ogni sessanta giorni.
Per quanto riguarda le guardie, esse sono buone per la maggior parte, ma ve ne sono alcune che non dovrebbero lavorare né con noi, né in qualunque altra prigione. Il comandante del nostro settore è poco riguardoso nonostante non vi sia alcun motivo per esserlo. Qui alcuni pensano che sia razzista. Invece rispetto il Direttore, che è una persona educata, nonostante il fatto che quando falliscono i nostri appelli la sua firma compaia sull’ordine di esecuzione. Ma lui ha lavorato perché vi sia un maggior rispetto tra guardie e carcerati.
Ovunque andiamo veniamo ammanettati. Quando usciamo dal nostro settore abbiamo anche delle catene intorno alla vita, ed un sergente o un ufficiale deve scortarci. A volte succede che le nostre famiglie in visita debbano aspettare mezz’ora ed oltre, perché manca la scorta.
Mr. Jerry Jackson
319080 - Sussex I State prison
24414 Musselwhite Drive
Waverly, VA 23891 - USA
7) DUE RAGAZZE VENUTE DA LONTANO
Cecilia Negri, giovane attivista modenese, è una delle fondatrici dell’associazione “SenzaVoce” che si batte contro la pena di morte. All’inizio dell’anno è andata a trovare il suo amico Roger, fortunatamente ‘in uscita’ dal braccio della morte del Nevada. Pubblichiamo lo spontaneo diario della visita a Roger, inviatoci dall’amica Cecilia appena rientrata dagli Stati Uniti.
Eccomi qui, di ritorno di nuovo dagli Stati Uniti.
E’ stato stupendo, meraviglioso. Come due anni fa, sono stata nel braccio due giorni, come due anni fa ho abbracciato Roger. Al contrario dell’altra volta, l’ho abbracciato senza il terrore che quelli sarebbero potuti essere i nostri ultimi momenti insieme.
Il carcere è sempre quello; la Ely State Prison è sempre un casermone grigio, a righe blu, sperduto in un campo, recintato dal filo spinato. Ma stavolta, quasi come se anche il cielo conoscesse il mio stato d’animo, non c’è stata nessuna tempesta di neve. Al contrario, un sole primaverile, caldo, mi ha accompagnato in quei giorni. Solo dei corvi neri nel cortile interno mi hanno dato i brividi; si aggiravano quasi ci stessero aspettando, gracchiando. Dicono ci siano sempre i corvi sulla casa della morte in Texas quando stanno giustiziando qualcuno...
Quando siamo arrivate, la mia amica in visita al suo amico Billy ed io, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. La guardia di turno alla sala visite, Ms. D., era davvero come Roger me l’aveva descritta. Una persona, non una guardia, che ti chiede com’è stato il viaggio, e cerca di perquisirti il minimo indispensabile, per non metterti maggiormente sotto stress. Una donna che quando ti vede piangere durante il colloquio, si alza e ti porta la carta per asciugarti le lacrime. Stavolta ho realizzato che alcune guardie hanno una coscienza, e cercano di fare del loro meglio per alleviare le sofferenze dei detenuti.
Due anni fa vi ho detto di come avessi avuto la sensazione di entrare in un luogo di non ritorno, di avere avuto la sensazione di perdere la mia libertà. Stavolta no. Non so se dipenda dalla grandiosa adattabilità umana, che ci consente di abituarci ad ogni ambiente. Stavolta sapevo esattamente dove andare, cosa fare, ero già talmente pronta da non fare neppure caso allo squadrone di guardie armate che sono entrate nella sala alla fine delle visite per portare via i detenuti.
Rivedere Roger è stato stupendo, abbracciarlo di nuovo, con la consapevolezza che non morirà, meraviglioso. E quando siamo rimasti da soli ci siamo trovati nel nostro mondo. Solo io e lui, a parlare, ridere, tenerci la mano. Solo io e lui, a guardarci e dirci che l’incubo è finito, a pensare a quando uscirà, al suo prossimo trasferimento dal braccio al carcere. Abbiamo parlato e parlato. Sono stati due giorni stupendi, due giorni in cui ancora l’ho osservato, ed è stato bello scoprire che è sempre lui, con qualche capello bianco in più, e qualcuno in meno, ma sempre un uomo di 41 anni che ha passato 20 anni nel braccio ma che mi tranquillizza, perché, lui dice, se segui le regole, nel braccio di Ely non ti picchiano. Mi ha fatto sorridere, quando mi ha detto che anche lì è rimasta un po’ di umanità e hai le guardie che si siedono con te nella cella e invece che perquisirla si guardano con te il super bowl e se la mattina della visita non ti spetta l’ora di libertà, ti fanno comunque uscire dalla cella alle 6 e ti portano a fare una doccia, perché sanno quanto ci tieni a presentarti rasato e profumato.
Roger mi ha detto che quando uscirà potrà ricominciare a costruire case come faceva un tempo, perché ha degli amici che possono aiutarlo… mi ha fatto sorridere perché la sua speranza gli dice che dopo vent’anni niente è cambiato e avrà tutta la sua vita indietro. Io so che non sarà così… ma è bello pensare che vivrà.
E’ stato diverso questo viaggio, felice, ma si è trattato comunque di entrare in un braccio della morte. Il primo giorno ho guardato le mani di Roger. Erano viola. Ho pensato che avesse dei problemi di circolazione. Poi ho guardato i suoi polsi. E ho visto dei segni rossi, profondi. Gli ho detto: “Stai invecchiando… o cosa?” sorridendo e guardandogli le mani, che dopo due ore erano sempre violacee. Lui mi ha guardato e mi ha risposto: “Ma no, lo sai che sono un ragazzino… sono le manette, mi hanno tenuto tre quarti d’ora ammanettato dietro la schiena prima di entrare, mi si è bloccata la circolazione.”
Ho provato una stretta allo stomaco quando a metà mattina l’ho vista entrare, la stessa donna orientale, con la stessa bambina, la stessa coppia di cui parlo nelle mie conferenze da quando sono stata nel braccio nel 2004. Ed era sempre lui il condannato, lo stesso papà. Dentro di me mi sono detta: almeno sei ancora vivo. E ho tremato pensando di rivedere quella scena di nuovo. Di nuovo lui che si abbassa e la bambina che gli salta al collo. Di nuovo quei baci, quella tenerezza infinita. Di nuovo lui che le dice che deve scendere. Di nuovo lei che fa il muso imbronciato e gli dice di no e intreccia le sue piccole gambe a quelle del papà. Ma quella figlia è cresciuta, sono passati due anni. Ora non piange più. Lui le sussurra qualcosa e lei si rassegna. La mette giù e le fa il solletico. Lei si mette a ridere. Anche lei si è abituata alle regole del braccio.
Roger è salvo, il boia non lo ucciderà. Ma lì dentro rimangono tante vite appese ad un filo. Ho visto di nuovo i bambini, i figli degli uomini morti che camminano… Ho visto i genitori anziani, costretti a guardare i propri figli mentre trascorrono gli anni senza vivere. E ho visto i ragazzini detenuti. Diciottenni con l’aria da duri, che sono entrati rompendo quel silenzio irreale, ridendo e provando a intrufolarsi nella stanza delle perquisizioni. Ragazzi che era meglio salvare prima, nelle strade.
Billy, che fino a quel momento non conoscevo se non tramite la mia amica, è ancora un ragazzo.
Resta lui, e restano tanti altri, ad aspettare e sperare.
Ho pianto durante la visita, ho pianto per tutto l’amore che stavo respirando, troppo tutto insieme. L’amore per cui noi lottiamo ogni giorno e che lì trovi senza muovere un muscolo. L’amore di un uomo che ti è grato, che ti dice che non sa come sarebbe sopravissuto se non ci fossi stata.
E tu rifletti: ho solo preso carta e penna mentre tu aspettavi di morire…. Pensi come sarebbe facile per noi persone libere, amare senza fare del male, se solo imparassimo il rispetto per gli altri.
Ho pianto, di gioia e di sollievo, ho pianto per le parole dette, così meravigliose da sembrare irreali, e ho pianto perché stavolta mi sono trovata a dirgli arrivederci. Arrivederci perché stavolta abbracciandolo l’ultima volta non ho avuto paura che fosse l’ultima, ma ho dovuto comunque lasciarlo lì, pronto per la perquisizione corporale, per le manette, per quella cella più piccola del mio bagno, per il cibo freddo, per il sole che vede ogni tanto per due ore al giorno... ho dovuto lasciarlo lì dentro, con quelle parole che mi ronzavano nelle orecchie; “ Sono stanco, voglio solo andare a casa”.
L’ho visto di nuovo sparire dietro alla stessa porta di acciaio di due anni fa, ancora con gli occhi pieni di lacrime. Ha pianto lui, come ha pianto Billy, perché quelle visite sono aria per i loro cuori, sono una felicità non provata da tanto, sono la fiamma della speranza che si riaccende. Sono la consapevolezza di essere amati nonostante il mondo li consideri non uomini. Sono il ritrovare la propria umanità attraverso due ragazze venute da lontano.
8) “INNOCENTE” recensione di Antonio Landino
E’ stato pubblicato in italiano dalla Casa editrice Mondadori “Innocente” di John Grisham, un libro che sembra un romanzo ma che è invece la storia vera di Ron Williamson, condannato a morte in Oklahoma. Del libro di Grisham Antonio Landino ha scritto la seguente recensione, che volentieri pubblichiamo per invogliare i lettori ad avvicinarsi ad un’opera istruttiva e avvincente, che si addentra nel meccanismo perverso della ‘giustizia capitale’.
Dalla sonnacchiosa provincia del Midwest, l’origine di un sogno chiamato Major League (il massimo campionato di baseball) prende per mano Ron Williamson, un ragazzo qualsiasi che sta crescendo dentro la tiepida culla di una famiglia fervente nella pacata quotidianità fatta di torta di mele, speranza e sermoni domenicali nella cintura della cittadina di Ada in Oklahoma.
Alcuni infortuni nello sport, poi nella vita (un matrimonio precoce e dismesso come la tenuta agonistica dei suoi sogni), lo spingono lontano dalle coccole ovattate dei familiari, trovando rifugio in quelle dei vizi, senza riuscire ad accettare che nulla svanisce più in fretta di una tiepida certezza adolescenziale, incapace di adattarsi alla vita reale. Assolto da una falsa comprensione, ma col dito degli altri puntato contro - nel tipico moralismo di una piccola comunità dove tutti si arrogano il diritto di conoscere tutti - vaga alla ricerca di un posto dove non ritrovare il suo malessere interiore. Senza riuscirci, bensì precipitando nel baratro della droga e della depressione, alternando blandi tentativi di disintossicazione a sempre più lunghi stati di apatia esistenziale.
Il brutale assassinio di una giovane donna nell’orbita di questa sua traiettoria comportamentale lo rende un candidato perfetto per una Giustizia imperfetta come a volte sa essere quella di una certa parte degli States.
Da qui a risvegliarsi nell’abisso dell’espiazione carceraria il passo è breve e frettoloso, così come lo è la ricerca di prove e di un movente della sua colpevolezza da parte di inquirenti prevenuti, perché a volte può bastare l'etichetta di "diverso" per incasellare nel braccio della morte chi è già prigioniero di legami che tessono un filo invisibile di corrispondenze tra il proprio passato e l'interpretazione di un presente lacunoso.
La vita di Ron Williamson si trasforma in un incubo. Arrabbiato con se stesso ed il mondo, chiede soltanto che gli venga riconosciuto il sacrosanto diritto di essere uguale agli altri almeno sotto gli occhi della Legge, battendosi ad armi impari contro lo strapotere che deriva dalla poitica del già deciso.
La sua sconvolgente odissea giudiziaria si confronta, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, con l’imponente e semovente struttura accusatoria che attinge a piene mani dalla logica del taglione e si staglia sullo sfondo del bigottismo e del pregiudizio, impassibile e fredda come le facce scolpite sul monte Rushmore. Fino a portarlo ad un passo dall’esecuzione.
La mano ferma dell'Autore, maestro indiscusso del legal-thriller, fruga con decisione nei meandri umani e tecnici di un procedimento accusatoriotutt’altro che al di sopra delle parti, ricostruendo e raccontando lo specchio oscuro di una realtà spesso misconosciuta e ancor più scomoda da ricordare.
L’analisi del meccanismo e l'introspezione morale vanno oltre l’accurata esposizione dei fatti.
Più cronaca che romanzo, il libro fornisce vari spunti per meditare intorno al potere ingiustamente esercitato che produce l’assenza di quell’indispensabile equità processuale che garantirebbe la nitida imparzialità del giudizio... e sulla correttezza dell’azione penale americana viene posto un grosso, scomodo, inquietante ed attualissimo punto di domanda.
9) NOTIZIARIO
Florida. Jeb Bush non è più governatore. All’inizio di gennaio Jeb Bush, fratello minore del presidente degli Stati Uniti George Bush, ha lasciato la carica di governatore della Florida dopo averla ricoperta per otto anni. Gli succede l’ex Attorney general (Ministro della Giustizia) Charlie Crist eletto governatore nelle elezioni di medio termine di novembre. In un articolo di commiato il New York Times definisce Jeb Bush uno dei più popolari ed importanti governatori nella storia della Florida. Il giovane Bush, che si schernisce decisamente quando gli chiedono se si candiderà alla presidenza degli USA, sembra sia intenzionato a diventare vice presidente. Noi non lo rimpiangeremo come governatore ricordando il modo ottuso in cui ha ritenuto di conciliare la sua etica di cattolico praticante con il sostegno spietato alle esecuzioni capitali. Speriamo che Charlie Crist si dimostri migliore di Bush, anche se ciò che ha fatto come ministro della giustizia e la sua ideologia di repubblicano conservatore non sono le migliori premesse.
Iraq. Almeno tre vittime collaterali dell’impiccagione di Saddam Hussein. L’ossessiva ripetizione del video dell’esecuzione di Saddam Hussein ha influito negativamente sulla persone psicologicamente più deboli e in particolare sui bambini – come sempre avviene in casi del genere. Si sono avute le notizie di tre auto-impiccagioni di fanciulli che volevano imitare l’esecuzione di Baghdad. Si tratta di Mubashar Ali, che aveva 9 anni, impiccatosi in Pakistan, di Sergio Pelico di 10 anni impiccatosi in Texas e della 15-enne Prateeksha Patel uccisasi in India.
Iraq. Continua il secondo processo contro Saddam senza il principale protagonista. L’8 gennaio è ripreso il processo iniziato il 21 agosto contro Saddam Hussein e sei coimputati accusati di genocidio e crimini contro l’umanità. Tale processo riguarda la campagna militare Anfal sferrata dall’esercito iracheno contro i villaggi curdi in rivolta nel 1988 durante la guerra contro l’Iran (v. nn. 141, 142, 144 notiziario). Dopo che un cancelliere ha letto i nomi dei sei imputati ancora in vita, costoro sono entrati silenziosamente in aula uno dopo l’altro. Il giudice presidente Mohammed Oreibi al-Khalifa ha poi dichiarato estinta ogni azione legale contro Saddam Hussein dal momento che “la morte dell’accusato Saddam è stata confermata”. L’accusa, nel corso della stessa seduta e nelle sedute successive, ha poi prodotto video, documenti audio e scritti per provare che i principali esponenti del regime iracheno ordinarono sia gli attacchi contro i villaggi curdi che la loro evacuazione e sottoposero poi ad esecuzione sommaria coloro che, contravvenendo gli ordini emanati dagli Iracheni, vi ritornavano. Nel corso di questo processo, il secondo cominciato in presenza di Saddam Hussein, si prevede la richiesta della pena morte per i rimanenti accusati e sicuramente contro il cugino di Saddam Ali Hassan al-Majid, detto ‘Ali il Chimico’, che aveva il comando della campagna Anfal e a cui si attribuisce l’uso di gas venefici contro le popolazioni curde.
Nazioni Unite. La gaffe del nuovo enigmatico Segretario Generale. Subito dopo essere diventato Segretario Generale delle Nazioni Unite succedendo a Kofi Annan, il sud coreano Ban Ki-Moon la fatto una colossale gaffe in materia di diritti umani. Nel giorno stesso in cui ha assunto la carica, prendendo spunto dall’esecuzione di Saddam Hussein, ha rilasciato una dichiarazione che rappresentava una vera e propria ‘inversione ad U’ rispetto alla tradizionale posizione dell’ONU sulle pena di morte, rifiutando di condannare il suo uso e sottolineando il supposto diritto di ogni nazione ad adoperare questo tipo di punizione e di interpretare la sua rispondenza o meno alle norme internazionali. I suoi consiglieri devono avergli tirato fortemente le orecchie e, per fortuna, Ban Ki-Moon ha fatto una nuova conversione ad U riallineandosi con la posizione dell’ONU. L’11 gennaio, nella sua prima conferenza stampa, egli ha infatti dichiarato: “Riconosco la crescente tendenza nella legislazione internazionale e nella pratica delle nazioni alla cancellazione della pena di morte. Ed io la incoraggio.” Dopo di ciò non è facile capire come si comporterà negli anni questo scialbo personaggio che vuole dedicare la sua attenzione agli aspetti gestionali dell’ONU e che è stato scelto anche per le pressioni esercitate dagli Stati Uniti d’America sull’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Usa. Ulteriore diminuzione delle sentenze e delle esecuzioni capitali. Nel 2006 si sono avute 53 esecuzioni capitali negli USA con una netta diminuzione rispetto alle 60 registratesi nell’anno precedente e una forte diminuzione in confronto al picco di 98 esecuzioni che si ebbero nel 1999. Anche il numero delle sentenze capitali nel corso dell’anno è stato molto basso, il minimo da quando 30 anni fa fu ripristinata la pena di morte: non più di 114, secondo il Death Penalty Information Center. La costante tendenza alla diminuzione delle sentenze di morte continua senza eccezioni a partire dal 1996 anno in cui si ebbero 317 sentenze di morte. Secondo i commentatori le cause della diminuzione sarebbero da ricercare in primo luogo nella diminuita propensione delle giurie a scegliere la punizione estrema anche per il fatto che in 37 su 38 stati è stato ormai introdotto l’ergastolo senza possibilità di uscita sulla parola come opzione alternativa alla pena di morte. Un fattore importante che pone una remora a tutte le componenti del processo capitale è poi la maggiore consapevolezza del rischio di fatali errori giudiziari.
Usa. Pronta la bozza del manuale per i processi di Guantanamo. Il 18 gennaio l’agenzia Associated Press ha ottenuto la bozza del regolamento per processare stranieri sospetti terroristi o ‘nemici combattenti’ davanti alle famigerate Commissioni Militari di Guantanamo. Nella bozza, preparata dal Pentagono, sono previste abominevoli violazioni dei diritti umani, in conseguenza del Military Commissions Act scritto furbescamente dall’esecutivo e approvato con irresponsabile leggerezza dal Congresso in settembre (v. n. 142, “Consentite…” ). Oltre a severe limitazioni al lavoro degli avvocati difensori, nel regolamento è prevista l’ammissibilità di prove ‘per sentito dire’ e di prove estratte sotto coercizione (in pratica: sotto tortura). Drasticamente limitata è la possibilità di appello delle sentenze, che potranno essere sentenze di morte. Martin S. Pinales, presidente dell’Associazione Nazionale degli Avvocati Penalisti, ha commentato: “Il sentito dire, il sentito dire del sentito dire e le confessioni rilasciate sotto coercizione sono tutte cose previste come ammissibili, incluse le dichiarazioni fatte da testimoni messi sotto tortura.” Il colonnello Dwight H. Sullivan, capo degli avvocati difensori ha aggiunto: “Le regole sembrano accuratamente scritte in modo da assicurare che gli accusati possano essere condannati – e possibilmente ‘giustiziati’ – in base a nulla di più delle confessioni rese sotto coercizione.”
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 gennaio 2007