FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 188 - Febbraio / Marzo 2011
Noureddine che si è dato fuoco
SOMMARIO:
1) Convocazione dell'Assemblea ordinaria dei soci
2) Il governatore Quinn firma: abolita la pena di morte in Illinois!
3) In tv il governatore è apparso consapevole e sincero
4) In fondo all’incredibile iter giudiziario di Troy Davis: disco rosso
5) Sentenza favorevole per Hank Skinner, ancora vivo per miracolo
6) Tra Pentotal e Pentobarbitale, confusione sui farmaci letali
7) Sotto osservazione la situazione dei diritti umani in Iran
8) Un altro assassinio eccellente nel Pakistan fondamentalista
9) Per i diritti umani, il ‘nuovo’ Egitto peggiore del precedente ?
10) George W. Bush, reo confesso di tortura, sarà processato?
11) I dati di Amnesty sulla pena di morte nel 2010
12) Guerra, e violazioni dei diritti umani, dopo un decennio di orrori
13) Persecuzione e sterminio dei deboli
14) Amici di penna in prigione: una controversa storia d’amore
15) Notiziario: Connecticut, Iran, Usa
1) CONVOCAZIONE DELL'ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI
L'Assemblea ordinaria dei Soci del Comitato Paul Rougeau è convocata per domenica 22 maggio 2011 alle ore 10:00. L'Assemblea si terrà in Firenze presso l’abitazione di Loredana Giannini, Via Francesco Crispi, 14. L’assemblea è aperta a simpatizzanti non soci che dovranno preannunciare la propria partecipazione e che non avranno diritto di voto. L'ordine del giorno è il seguente:
1. Relazioni sulle attività svolte dal Comitato Paul Rougeau dopo l’Assemblea del 6 giugno 2010;
2. situazione iscritti al Comitato Paul Rougeau, gestione dei soci;
3. illustrazione ed approvazione del bilancio per il 2010;
4. ratifica di eventuali dimissioni dal Consiglio direttivo; elezione di membri del Consiglio direttivo.
Eventuale breve sospensione dei lavori dell’Assemblea per consentire una riunione del nuovo Consiglio direttivo con il rinnovo delle cariche sociali.
5. programmazione di un eventuale tour in Italia di Dale e Susan Recinella nell’anno 2012 per una serie di conferenze;
6. redazione del Foglio di Collegamento;
7. discussione delle strategie abolizioniste;
8. discussione, programmazione e approvazione del prosieguo delle attività in corso; proposte di nuove attività da parte dei soci, programmazione ed approvazione delle stesse;
9. proposte rivolte ai soci che non fanno parte dello staff del Comitato di collaborare attivamente in iniziative consone alle loro rispettive possibilità ed esperienze;
10. raccolta fondi e allargamento della base associativa;
11. ricerca di adesioni ideali di personalità al Comitato Paul Rougeau; varie ed eventuali.
Firmato: Giuseppe Lodoli, Presidente del Comitato Paul Rougeau
AVVERTENZE: La fine dei lavori dell’assemblea è prevista per le ore 16 circa. Il luogo dell'Assemblea è raggiungibile dalla Stazione di Santa Maria Novella anche a piedi in 20’. Percorso: Stazione, Via Nazionale, P.zza Indipendenza, Via S. Caterina d’Alessandria. Arrivati all’incrocio col Viale S. Lavagnini lo si attraversa al semaforo e si prosegue lungo Via A. Poliziano che si percorre interamente, fino a sboccare in Viale Milton, in corrispondenza di un ponte sul Mugnone. Si attraversa il ponte e si giunge in Via XX Settembre; si gira a sn costeggiando il Mugnone fino ad incrociare, sulla ds, Via Crispi. Si gira dunque a ds e si percorre Via Crispi fino al n°14. Per chi preferisce l’autobus, dalla stazione le linee utili sono: 4 (direzione Poggetto, scendere in Via dello Statuto, parallela alla vicina Via Crispi ); 13 (dir. Piazzale Michelangelo, scendere in Via XX Settembre); 28 (dir. Sesto), scendere in Via dello Statuto. Tutti questi autobus si prendono alla fermata che si trova all'uscita della stazione dal lato sinistro, lato dove si trova la farmacia della stazione. Pernottamento: Coloro che vogliono pernottare a Firenze ci devono informare quanto prima della propria venuta in maniera da riservare per tempo le camere necessarie. Per una migliore organizzazione, vi preghiamo di avvertirci in ogni caso delle vostra partecipazione anche se non intendete pernottare a Firenze. Per tutte le informazioni organizzative e per prenotare il pernottamento a Firenze contattate subito Loredana Giannini: tel. 055 485059
2) IL GOVERNATORE QUINN FIRMA: ABOLITA LA PENA DI MORTE IN ILLINOIS!
Con la firma apposta dal governatore Pat Quinn sulla legge abolizionista, l’Illinois diventa il sedicesimo stato Usa libero dalla pena capitale. Si conclude così il cammino iniziato dal governatore George Ryan a fine anni Novanta, con l’imposizione di una moratoria che è durata fino ad oggi.
Il 9 marzo il governatore Pat Quinn ha firmato la legge che abolisce la pena di morte. Legge che era stata approvata in via definitiva dal Parlamento dell’Illinois l’11 gennaio (v. n. 187). Quinn ha lasciato passare quasi per intero il periodo di tempo concessogli per decidere, prima di firmare e rendere efficace la legge. Avrebbe potuto vanificarla con il suo veto.
Nell’arco di due mesi Pat Quinn, - mantenendo col fiato sospeso gli abolizionisti - ha consultato le autorità del suo stato e un gran numero di personalità, di gruppi, di individui favorevoli e contrari all’abolizione. Ha infine prestato particolare attenzione alle istanze delle famiglie delle vittime del crimine, alcune delle quali sono favorevoli alla pena di morte, alcune contrarie.
Quinn ha sottolineato di aver ascoltato, tra gli altri, il mitico arcivescovo anglicano del Sud Africa Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, ed Helen Prejean, la suora cattolica della Louisiana autrice di “Dead Man Walking”, instancabile attivista itinerante contro la pena di morte.
L’Attorney General (Ministro della Giustizia) dell’Illinois, signora Lisa Madigan, aveva sollecitato il veto governatoriale; si era invece chiaramente espressa per l’abolizione la vice governatrice Sheila Simon, una ex accusatrice.
Premessa essenziale dell’abolizione della pena di morte in Illinois è certamente la decisione di 11 anni fa del governatore George Ryan di imporre una moratoria delle esecuzioni a causa dei numerosissimi errori verificatisi nei casi capitali, moratoria dalla quale è conseguito il progressivo diradamento delle condanne a morte (v. n. 187). Ryan, che si trova ora in un carcere federale dell’Indiana a scontare una condanna per corruzione, non è stato consultato esplicitamente da Quinn, forse per opportunità politica.
Pat Quinn ha apposto la sua firma circondato da un gruppo di parlamentari, facendo una dichiarazione orale (v. articolo seguente) e diffondendone una scritta.
Ha confessato che per lui si è trattato “di una decisione difficile, di una scelta, pressoché alla lettera, tra la vita e la morte”.
“Riconosco che alcuni possono essere in forte disaccordo con questa decisione,” ha scritto Pat Quinn avviandosi a concludere la sua dichiarazione. In effetti l’abolizione della pena di morte è stata accolta astiosamente dagli ambienti più conservatori dell’Illinois. L’avvocato accusatore Robert Berlin, l’ha definita addirittura “una vittoria per gli assassini.”
Per un politico che in campagna elettorale si era detto favorevole alla pena di morte, il motivo dichiarato per l’abolizione non poteva che essere l’impossibilità pratica di applicare equamente la pena capitale. Quinn ha infatti scritto: “Dal momento che la nostra esperienza ha mostrato che non c’è modo di disegnare un sistema perfetto per la pena di morte, libero dalle numerose pecche che possono portare a condanne errate o a trattamenti discriminatori, ho concluso che l’azione più appropriata era di abolirla.”
Ma certamente Pat Quinn si è reso conto di venir a far parte di un movimento storico, carico di motivazioni più ampie, la cui portata supera le posizioni dei singoli attori e viene man mano chiarita nel corso dello sviluppo dei diritti umani (v. articolo seguente).
Rendendo operativa la legge abolizionista, il governatore Quinn ha contestualmente deciso di commutare tutte e 15 le sentenze capitali pendenti in Illinois, nonché di agire nello stesso modo se vi dovessero essere altre condanne a morte prima del 1° luglio, data di entrata in vigore della legge abolizionista. In tal modo ha prevenuto il verificarsi di una situazione paradossale come quella del New Mexico, stato in cui è stata abolita la pena di morte lasciando aperta una finestra temporale nella quale, in teoria, vi potrebbero essere ancora delle esecuzioni capitali (v. n. 186, Notiziario).
La legge firmata da Quinn prevede che i fondi risparmiati in conseguenza dell’abolizione della pena di morte siano utilizzati per assistere le famiglie delle vittime del crimine e per l’addestramento delle forze di polizia. “L’Illinois è il primo stato che fa qualcosa di positivo per le famiglie delle vittime e per la sicurezza con in fondi precedentemente sperperati per la pena di morte” ha osservato Shari Silberstein, leader di Equal Justice, un noto gruppo abolizionista.
Ora tra gli Stati Uniti d’America, 16 su 50 sono esenti dalla pena capitale. L’Illinois segue il New Jersey che ha abolito la pena di morte nel 2007 e il New Mexico che l’ha abolita nel 2009. E’ abbastanza probabile che seguano presto le abolizioni in uno o più dei seguenti stati: Colorado, Connecticut, Kansas, Maryland, Montana, South Dakota, Wyoming …
L’abolizione della pena di morte in Illinois contribuisce in modo significativo alla tendenza abolizionista in atto negli Stati Uniti e nel mondo e ci aiuta a sperare in un futuro più rispettoso della dignità della persona e dei diritti umani.
Sì, possiamo rallegrarci. Tuttavia in questo momento di gioia non dobbiamo dimenticare un lato oscuro della tendenza in atto: l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti va di pari passo con l’estensione delle leggi e delle sentenze che comportano la pena dell’ergastolo senza alcuna possibilità di liberazione. L’Illinois non fa eccezione e il governatore Quinn è stato molto chiaro scrivendo di aver deciso di “commutare le sentenze di coloro che si trovano attualmente nel bracco della morte in detenzione per tutta la vita naturale, senza possibilità di parola o di rilascio.”
Certamente l’abolizione dell’ergastolo - pena di morte al rallentatore - sarà la prossima tappa del cammino abolizionista. Non è prematuro per noi discuterne per chiarirci le idee in proposito (v. nn. 177, 179, 180, 182)
3) IN TV IL GOVERNATORE È APPARSO CONSAPEVOLE E SINCERO
Il governatore dell’Illinois, Pat Quinn, cosciente dell’importanza del proprio gesto, ha rilasciato una coinvolgente dichiarazione orale, nel momento in cui firmava la legge abolizionista.
La dichiarazione orale rilasciata dal governatore dell’Illinois Pat Quinn all’atto della firma della legge abolizionista è stata molto coinvolgente. Egli è apparso pienamente consapevole dell’importanza del gesto compiuto. In cinque minuti ha saputo sintetizzare le motivazioni più valide per giustificare la sua decisione. Anche tenendo conto che i personaggi politici di successo sono quasi sempre degli ottimi attori, ci è sembrato sincero, (*)
Ecco in sintesi i punti salienti del discorso del governatore:
- Non possiamo sfuggire al corso della storia;
- è stata la decisione più difficile della mia carriera;
- ho trascorso giorni e notti riflettendo;
- ho ricevuto montagne di messaggi da oppositori e da sostenitori della pena di morte;
- ho seguito la mia coscienza;
- in questo momento, in questo luogo, in quest’epoca storica, secondo me è la cosa più giusta;
- ho commutato la condanna a morte di 15 persone;
- ho osservato che negli ultimi anni 20 persone sono state scagionate per vari motivi e hanno lasciato il braccio della morte, e ne ho dedotto che è impossibile creare un sistema perfetto e scevro di errori, legati alla razza, alla zona geografica e ad altri fattori;
- l’ergastolo senza possibilità di uscita sulla parola è una valida alternativa;
- ho istituito un fondo di solidarietà per i familiari delle vittime dei crimini, nulla può essere umanamente fatto per alleviare il loro dolore, ma questo fondo potrà almeno aiutarli nelle loro difficoltà economiche. (Grazia)
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(*) vedi: www.illinois.gov/PressReleases/ShowPressRelease.cfm?SubjectID=1&RecNum=9265
4) IN FONDO ALL’INCREDIBILE ITER GIUDIZIARIO DI TROY DAVIS:DISCO ROSSO
Salvatosi più volte in extremis dall’iniezione letale, per l’impegno dei suoi avvocati difensori e il sostegno di Amnesty International Usa, Troy Davis, condannato a morte in Georgia, il 28 marzo ha subito una sconfitta legale che lo lascia senza scampo… a meno di un provvedimento di grazia in suo favore che vi invitiamo a sollecitare partecipando alla petizione di cui al link riportato qui sotto.
E’ arrivata come una doccia fredda per gli abolizionisti la decisione del 28 marzo della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha rigettato in blocco, senza commento, gli ultimi cinque ricorsi basati sull’innocenza avanzati da Troy Davis, condannato a morte in Georgia.
La massima corte ha posto temine ad una battaglia legale durata un ventennio (*) - che è riuscita per tre volte, in extremis, ad evitare l’esecuzione del condannato - pubblicando tre documenti, nessuno dei quali contiene una qualche spiegazione,
Eppure la Corte Suprema intervenne in modo assolutamente eccezionale in favore di Troy Davis il 17 agosto 2009, quando ordinò ad un giudice federale di esaminare, in una pubblica udienza con contraddittorio, le prove di innocenza di Davis emerse dopo il processo (dandogli così un’opportunità che non era stata concessa a nessuno negli ultimi cinquant’anni).
Ricordiamo che la difesa rivendicava il riconoscimento dell’innocenza del condannato perché 7 dei 9 testimoni d’accusa hanno ritrattato le testimonianze a carico rese al processo contro Davis svoltosi nel 1991 e uno dei due testimoni che non hanno ritrattato, il probabile colpevole, ha detto chiaro e tondo in privato di aver commesso lui il delitto attribuito a Davis. Tutto ciò in assenza di prove fisiche che leghino Troy Davis all’uccisione del poliziotto fuori servizio Mark Allen MacPhail che avvenne a Savannah in Georgia il 19 agosto 1989.
Tuttavia il giudice distrettuale William T. Moore, Jr., dopo aver tenuto nel giugno scorso una puntigliosa ma non esaustiva udienza, mantenendo per tutto il tempo un atteggiamento palesemente ostile nei riguardi di Troy Davis e dei suoi difensori, sentenziò che non ce n’era abbastanza per dichiarare l’innocenza del condannato e che quindi lui “non è innocente” (v. dettagliati articoli sull’udienza e sulla sentenza nei nn. 181, 182).
Dopo di ciò gli avvocati di Davis sono stati costretti a ritornare direttamente alla Corte Suprema che aveva ordinato l’udienza presso il giudice Moore (v. nn. 184, Notiziario, 185, Notiziario) anziché ricorrere presso la Corte d’appello competente.
Anche se la Corte Suprema ha rigettato gli ultimi ricorsi di Davis senza fornire spiegazioni, possiamo ritenere che tale corte non abbia ritenuto di aprire a Davis la possibilità di ricorre alla Corte federale d’Appello dell’Undicesimo Circuito, come richiesto, e non abbia trovato essa stessa sufficienti difetti nella sentenza di 172 pagine stilata da Moore, per inficiarla.
Respingendo i ricorsi di Davis senza pronunciarsi su di essi, la Corte Suprema ha lasciato ancora aperte due fondamentali questioni riguardanti la pena di morte statunitense: 1) se la Costituzione proibisce l’esecuzione di un individuo che sia effettivamente innocente (actually innocent) del crimine ascrittogli e 2) a quale standard di prove si debbano riferire i giudici federali per stabilire che un individuo è effettivamente innocente.
Comunque sia, il diniego della Corte Suprema pone fine alla sospensione dell’esecuzione di Troy Davis, in essere dal 24 ottobre 2008 (v. n. 164), e autorizza lo stato della Georgia ad ucciderlo. La Georgia potrebbe farlo nel giro di qualche settimana.
Le speranze del condannato, dei suoi sostenitori e degli abolizionisti ora risiedono unicamente nella ‘clemenza esecutiva’ che deve essere decisa dall’apposita Commissione per le grazie (Georgia State Board of Pardons and Paroles) e adottata dal governatore Nathan Deal. Le premesse non sono incoraggianti perché la medesima Commissione in precedenza ha già ripetutamente rifiutato di proporre la grazia per Troy Davis (v. n. 163). Tuttavia gli avvocati difensori e le organizzazioni abolizioniste, prima fra tutte Amnesty International USA, che hanno finora sostenuto con un tremendo sforzo il caso di Troy Davis non si danno per vinte e invitano ancora una volta i cittadini della Georgia, degli Stati Uniti e di tutto il modo a mandare richieste di clemenza alla Commissione per le grazie e al governatore della Georgia.
Anche noi vogliamo esprimerci ancora una volta in favore di Troy Davis sottoscrivendo la petizione proposta da Amnesty International al link:
http://www.amnesty.it/pena_di_morte_usa_troy_davis_22_giugno.html
Basta cliccare su ‘Firma l’appello’, inserire i propri dati (perlomeno quelli contrassegnati da asterisco), scegliere ‘No’ all’ultima domanda se non si vuole ricevere posta da Amnesty e, infine, ciccare su INVIA.
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(*) V. nn. 151, 152, Notiziario, 154, Notiziario, 155, 158,163, 164, 165, Notiziario, 169, 170, 171, 181, 182, 184, Notiziario, 185, Notiziario.
5) SENTENZA FAVOREVOLE PER HANK SKINNER, ANCORA VIVO PER MIRACOLO
Un’azione legale assolutamente straordinaria ha aperto ad Hank Skinner, condannato a morte in Texas, un tenue spiraglio verso la salvezza. Corte Suprema federale, accogliendo un ricorso dei suoi bravissimi avvocati, lo ha infatti autorizzato ad intraprendere una causa civile contro lo stato del Texas che fino ad ora si è rifiutato di consentire dei test del DNA che potrebbero scagionalo.
Il 7 marzo la Corte Suprema degli Stati Uniti ha risposto positivamente, con 6 voti a favore e 3 contrari, al ricorso di Henry “Hank” Skinner, condannato a morte in Texas, facendo seguito all’udienza del 13 ottobre 2010 (v. n. 184 e nn. ivi citati)
Il ricorso, dai risvolti legali assi sottili, concepito da abilissimi avvocati difensori, rappresenta l’ultima sponda per Hank Skinner che ha da tempo esaurito il suo normale iter giudiziario, giungendo ad un’ora dall’esecuzione un anno fa.
La sentenza favorevole del 7 marzo allontana di parecchi mesi o di anni l’esecuzione della sentenza di morte per Skinner, anche se lascia al condannato e ai suoi difensori una strada assai difficile da percorre.
Hank Skinner potrà dunque perseguire in sede civile il procuratore distrettuale che fino ad ora gli ha impedito di far eseguire dei test del DNA che potrebbero scagionarlo dell’omicidio della sua compagna Twila Busby e dei due figli di lei.
Però la sentenza scritta dalla giudice Ruth Bader Ginsburg abilita Skinner – e gli altri prigionieri che si trovino nella medesima situazione – a reclamare i test del DNA in sede civile, quando la strada penale sia ormai preclusa, ma non dà garanzie che i test vengano poi concessi al detenuto.
La Bader Ginzburg ha notato esplicitamente che lo stato del Texas ha fornito diverse ragioni per cui il ricorso di Skinner debba fallire per mancanza di merito, avvertendo che la Corte non si è occupata di queste ragioni.
Dall’opinione di maggioranza si è dissociato il giudice ultraconservatore Clarence Thomas, cui si sono uniti i colleghi Anthony Kennedy e Samuel Alito. Thomas ha obiettato che la decisione della maggioranza aumenterà il numero dei ricorsi dei condannati a morte e ritarderà la giustizia. “Quale prigioniero non vorrà concedersi questo addizionale morso alla mela?”, ha scritto.
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(*) Ricordiamo che Hank Skinner sostiene di essere stato troppo ubriaco la sera del’ultimo giorno dell’anno 1993 per riuscire ad uccidere qualcuno, o a fare qualsiasi cosa, e che il probabile omicida fu uno zio della Busby, che aveva precedenti di violenza e abusi sessuali.
6) TRA PENTOTAL E PENTOBARBITALE, CONFUSIONE SUI FARMACI LETALI
E’ diventato pressoché impossibile seguire lo svolgimento della diatriba senza fine innescata negli Usa dalla progressiva penuria di Pentotal, una delle tre sostanze usate per le iniezioni letali. I ricorsi dei condannati a morte che si oppongono all’acquisto del farmaco all’estero e alla sua sostituzione con Pentobarbitale hanno prodotto un modesto rallentamento delle esecuzioni.
Non si intravede la fine delle intricatissime conseguenze delle penuria di Pentotal - uno dei tre farmaci usati per le iniezioni letali negli Stati Uniti - verificatasi fin dallo scorso anno (v. nn. 183, Notiziario, 184, 185,186, 187).
Gli stati in procinto di compiere esecuzioni hanno difficoltà a reperire il farmaco negli USA e i più intraprendenti se lo procurano in modo più o meno clandestino all’estero. Un numero crescente di paesi e di aziende farmaceutiche si rifiutano di fornire il farmaco per le esecuzioni. Gli avvocati dei condannati a morte continuano ad avanzare ricorsi contro l’utilizzo di quantità di Pentotal che non siano state autorizzate per l’uso umano all’interno degli USA. Tre stati stanno sostituendo il Pentotal con il Pentobarbitale, un anestetico di più facile reperimento, non senza andare incontro ad ulteriori ricorsi da parte dei condannati a morte. In conseguenza di tutto ciò le esecuzioni negli USA subiscono un certo rallentamento (se ne sono avute 11nel primo trimestre del 2011, corrispondenti a 44 su base annua, meno delle 50 circa aspettate in un anno).
Per dare un’idea della situazione senza inoltrarci in una noiosa e quasi impossibile analisi della diatriba in atto, accenniamo all’appello inviato in gennaio da Colorado, Delaware, Florida, Idaho, Mississippi, Missouri, Nevada, Oregon, Tennessee, Utah, Washington e Wyoming ad Eric Holder, Attorney General (Ministro della Giustizia) degli Stati Uniti.
Il 9 febbraio la portavoce del Dipartimento di Giustizia, Alisa Finelli, ha assicurato i 13 stati che avevano chiesto l’indicazione di una fonte sicura da cui si potesse ottenere il Pentotal o, in alternativa, la fornitura del farmaco direttamente dall’amministrazione federale, che il Dipartimento stava valutando il problema.
Il Dipartimento di Giustizia ci ha pensato su per un altro mese e il 4 marzo lo stesso Holder ha scritto in una lettera di risposta: “Al momento il governo federale non ha alcuna riserva di Pentotal per le iniezioni letali e pertanto si trova di fronte allo stesso dilemma di molti stati.” Holder ha ammesso che la mancanza di rifornimenti di Pentotal costituisce “una grave preoccupazione”.
Successivi tentativi giornalistici di ottenere risposte dal Dipartimento di Giustizia federale non hanno avuto esito.
Nel frattempo le esecuzioni sono avvenute ad un ritmo non molto inferiore al ‘normale’ perché le corti, nella confusione del momento, tendono a prendere per buone le rassicurazioni degli stati sulla provenienza, sulla regolarità e sulla qualità del Pentotal utilizzato.
L’Oklahoma e l’Ohio hanno abbandonato il Pentotal e sono passati all’uso del Pentobarbitale senza incontrare significativi ostacoli nelle corti di giustizia.
Il Texas, che si appresta a fare altrettanto, è oggetto dei ricorsi dei condannati che contestano il cambiamento del farmaco.
7) SOTTO OSSERVAZIONE LA SITUAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN IRAN
Il 24 marzo la nomina di un Relatore Ufficiale delle Nazioni Unite sulla disastrosa situazione dei diritti umani in Iran, è stata accolta astiosamente dai governanti di Tehran che accusano gli Stati Uniti di essere all’origine una campagna denigratoria nei riguardi del loro paese.
Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha approvato il 24 marzo a larga maggioranza una risoluzione che istituisce un Relatore Ufficiale sulla situazione dei diritti umani in Iran, situazione precipitata negli ultimi anni e soprattutto a partire dalle contestate elezioni presidenziali del giugno 2009, con la feroce repressione del dissenso e il drammatico incremento del già elevatissimo uso della pena di morte (v. ad es. n. 187).
“Anche se la decisione era da tempo dovuta, ci fa piacere che il Consiglio dei Diritti Umani abbia risposto alla situazione dei diritti umani in Iran e abbia preso in considerazione le richieste di molte organizzazioni, inclusa Amnesty International, di creare questa figura,” ha commentato Hassiba Hadj Sahraoui esponente di Amnesty International.
Amnesty ricorda che in Iran si sono verificati arresti e detenzioni senza processo, o in seguito a processi irregolari e torture, di centinaia di difensori dei diritti umani, studenti, avvocati, giornalisti, oppositori politici.
Molte centinaia di esecuzioni capitali si sono verificate lo scorso anno; secondo le stime ufficiali almeno 116 persone sono già state messe a morte quest’anno. Per di più vi sono credibili informazioni su altre decine di esecuzioni portate a termine in segreto. Migliaia di condannati sono rinchiusi nei bracci della morte iraniani. Tra le persone messe a morte figurano due oppositori politici arrestati in occasione delle manifestazioni che contestavano le elezioni presidenziali del 2009: Ja'far Kazemi e Mohammad Ali Haj Aghaei.
L’ultima ondate di arresti di oppositori c’è stata in occasione della manifestazione del 14 febbraio convocata dagli influenti leader politici Mehdi Karroubi and Mir Hossein Mousavi, ora all’opposizione, finiti anch’essi agli arresti domiciliari e minacciati di morte dagli integralisti. Karroubi e Mousavi avevano stigmatizzato il furioso ricorso alla pena di morte.
L’iniziativa del Comitato per i Diritti Umani è stata rigettata dal governo iraniano che non ha nessuna intenzione di cooperarvi e accusa gli Stati Uniti di essere “i principali organizzatori di questa campagna.” L’Iran stigmatizza il “ruolo distruttivo” degli USA nel Consiglio per i Diritti Umani e contrattacca ricordando le violazioni dei diritti umani compiute dagli Americani dentro e fuori il territorio statunitense.
L’Iran vanta il suo “inflessibile impegno per i diritti umani,” sostiene che la pena di morte è essenziale per assicurare il rispetto della legge e l’ordine e ricorda di avere invitato la sudafricana Navi Pillay, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, a visitare il paese quest’anno.
La stessa Pillay aveva peraltro espresso “profonda preoccupazione per le violazioni dei diritti umani in corso e ricorrenti” in Iran , come “la tortura e i trattamenti e le punizioni crudeli inumani e degradanti, tra i quali la fustigazione e le amputazioni” e si era detta sgomenta per l’incremento delle esecuzioni capitali reiterando la richiesta di una moratoria.
8) UN ALTRO ASSASSINIO ECCELLENTE NEL PAKISTAN FONDAMENTALISTA
Se non fosse per la nostra insuperabile riluttanza ad usare parole quali ‘eroe’ o ‘martire’, forse potremmo usarle per Shahbaz Bhatti, ministro pakistano per le minoranze, che ha rischiato coscientemente la sua vita pur di rimanere coerente con le proprie idee e di portare avanti la sua missione. Bhatti è stato crivellato di colpi il 2 marzo per essersi opposto all’esecuzione di Aasia Bibi, cristiana condannata a morte per blasfemia, e per essersi adoperato per la cancellazione della legge che prevede la pena capitale per i rei di blasfemia, in vigore in Pakistan dagli anni Ottanta.
Nel Pakistan vieppiù oscurantista e incapace di contrastare la discriminazione e la violenza contro l’esigua minoranza cristiana, il 2 marzo è stato ucciso un altro uomo politico che si era opposto all’esecuzione di Aasia Noreen, la cristiana nota come Aasia Bibi, condannata a morte per blasfemia l’8 novembre scorso nel Punjab pakistano.
Ad essere crivellato di colpi questa volta è stato Shahbaz Bhatti, Ministro per le minoranze. Questi ha seguito nell’aldilà, con due mesi di ritardo, Salman Taseer, governatore della provincia del Punjab, che aveva chiesto la liberazione di Aasia e l’abrogazione della legge che prevede la pena di morte per i rei di blasfemia (v. nn. 187).
Bhatti era un 41-enne totalmente dedito al proprio lavoro che aveva rinunciato a mettere su famiglia. Il 2 marzo, sedutosi sul sedile posteriore della propria auto per recarsi nel suo ufficio, è stato affrontato da almeno tre sicari, che vestivano abiti tradizionali pakistani. Raggiunto da 20 colpi di arma da fuoco è spirato mente veniva trasportato in ospedale dal suo autista rimasto illeso. Sul luogo dell’attentato sono stati lasciati dei volantini che motivano l’uccisione del ministro con la sua opposizione alla legge sulla blasfemia. Un’analoga rivendicazione è stata successivamente fatta arrivare ai media da una fonte talebana.
Shahbaz Bhatti aveva chiesto invano che gli venisse concessa un’auto blindata ed una scorta commisurata alle minacce ricevute.
In un video mostrato dalla TV pakistana il giorno della sua morte, vediamo il cattolico Shahbaz Bhatti dichiarare in modo calmo e deciso la sua intenzione di battersi ad ogni costo per i diritti dei Cristiani e delle altre minoranze. “Quando conduco questa campagna per l’abolizione della legge sulla blasfemia, e parlo in favore dei Cristiani e delle altre minoranze oppresse, emarginate e perseguitate, i Talebani mi minacciano”, dichiara Bhatti. “Queste minacce e questi avvertimenti non possono cambiare le mie opinioni e i miei principi. Preferisco morire per i miei principi e per la giustizia per la mia comunità piuttosto che arrivare a compromessi.”
Anche se può sembrare paradossale, fino ad ora nessuno è stato regolarmente messo a morte in Pakistan in base alla legge sulla blasfemia in vigore dagli anni Ottanta, pur se tale legge è servita per perseguitare le minoranze non musulmane ed ha fatto indirettamente numerose vittime: oltre a Salman Taseer e a Shahbaz Bhatti, molte persone incriminate per blasfemia sono state aggredite, torturate o assassinate in carcere o in libertà.
Tuttavia, per come è evoluta la situazione in Pakistan, non possiamo più essere ottimisti sul fatto che Aasia Bibi possa evitare il cappio, così come lo eravamo a novembre subito dopo la sua condanna a morte (v. n. 185).
Nel giro di quattro mesi alle minacce di morte degli integralisti contro i politici che avevano avviato un sia pur prudente e timido processo tendente all’abrogazione della legge sulla blasfemia, si sono aggiunte le fanatiche manifestazioni di solidarietà nei riguardi dell’assassino del governatore Taseer, il poliziotto scelto Mumtaz Hussain Qadri, una delle sue guardie del corpo (v. 187).
Nel contempo sono aumentate le prese di posizione di esponenti governativi contro l’abrogazione o la modifica della legge sulla blasfemia. Il Primo ministro Yousuf Raza Gilani ha infine rassicurato gli integralisti dichiarando in Parlamento il 2 febbraio che “ il governo non ha avviato alcuna azione legislativa né ha formato una commissione tendente a cambiare la legge sulla blasfemia e tanto il Tesoro quanto l’opposizione sono dalla stessa parte e unanimi su tale delicatissima questione.”
In effetti la promessa commissione non è stata mai formata e la deputata Sherry Rehman incaricata di mettere a punto un disegno di legge per eliminare la pena di morte per blasfemia aveva già desistito dopo essere stata oggetto di minacce.
Anche il presidente del Pakistan Asif Ali Zardari, all’inizio apertamente schierato in favore di Aasia Bibi, ha successivamente ritenuto prudente assumere un basso profilo sul caso di Aasia e sulla questione della blasfemia.
9) PER I DIRITTI UMANI, IL ‘NUOVO’ EGITTO PEGGIORE DEL PRECEDENTE ?
Il forte sostegno per la pena di morte e la drastica repressione delle manifestazioni di piazza, con speciale violenza nei riguardi delle donne, deludono coloro che speravano nell’avvento della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti umani dopo il trentennale regime del presidente Mubarak.
La comunità internazionale ha assistito con sostanziale disinteresse alla rivoluzione che l’11 febbraio, in Egitto, ha spazzato via il trentennale potere del presidente Hosni Mubarak. Nessuno si è preoccupato mentre la guida del paese veniva assunta dai militari ed anzi non sono mancati retorici auspici e apprezzamenti per l’avvento di un nuovo assetto istituzionale basato sulla libertà, la democrazia e il rispetto dei diritti umani.
E’ sicuramente prematura ogni seria verifica della qualità del nuovo regime egiziano, peraltro in divenire, e certo noi non abbiamo gli strumenti conoscitivi per farlo. Tuttavia dobbiamo rilevare preoccupanti segnali per quanto riguarda il mancato rispetto dei diritti umani nel ‘nuovo’ Egitto.
Tanto per cominciare è stato confermato un plateale sostegno per la pena di morte prevedendone addirittura l’espansione. Il 9 marzo il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha approvato un disegno di legge per la repressione dei reati di intimidazione, delinquenza e disturbo della quiete pubblica. La nuova legge prevede la pena di morte quando atti di teppismo provocano il morto. Alla seduta del Consiglio, presieduto dal Primo Ministro Essam Sharaf, hanno partecipato l’Aiutante di campo Mohamed Hussein Tantawi e i ministri dell’Interno, delle Finanze, dell’Educazione, dell’Educazione superiore, degli Esteri e della Produzione militare.
Il 23 marzo si è saputo che il deposto Ministro degli Interni Habib El-Hadly rischia la pena di morte per l’uccisione di manifestanti e per la distruzione di proprietà pubbliche e private.
Sullo scenario internazionale, il ‘nuovo’ Egitto, come ha fatto negli anni scorsi il vecchio, ha capeggiato la ormai rituale protesta contro la risoluzione per la moratoria della pena capitale approvata dall’Assemblea Generale delle Nazione Unite. Il documento con cui 53 paesi ritenzionisti si dissociano dalla risoluzione approvata per la terza volta il 18 dicembre scorso (v. n. 186), è stato consegnato l’11 marzo dalla rappresentanza dell’Egitto al Segretario Generale delle Nazioni Unite.
Per quanto riguarda il diritto di partecipare al dibattito politico e di manifestare, emblematico è il trattamento riservato alle donne che osano scendere in piazza.
Il 23 marzo Amnesty International ha inviato una vibrata protesta al governo egiziano per le torture inflitte a 18 donne arrestate dai militari il 9 marzo nel corso di una manifestazione nella mitica piazza Tahrir. Malmenate, spogliate, umiliate, fotografate nude, sono state infine sottoposte ad un ‘test di verginità’. Sono state minacciate di essere incriminate per prostituzione se non fossero state trovate vergini. Secondo informazioni raccolte da Amnesty, una donna che aveva dichiarato di essere vergine ma non è risultata tale alla visita a cui è stata costretta, sarebbe stata picchiata e sottoposta a scariche elettriche… Tutto questo soltanto perché le donne avevano osato manifestare.
Si è poi saputo che 17 delle 18 donne sono state liberate dopo qualche giorno, alcune condannate ad un anno di carcere con la condizionale, mentre Salwa Husseini, la ventenne che, coraggiosamente, ha fornito dettagliate informazioni ad Amnesty, è stata incriminata per condotta disordinata, distruzione di proprietà pubblica e privata, ostacolo alla circolazione e possesso d’armi.
10) GEORGE W. BUSH, REO CONFESSO DI TORTURA, SARÀ PROCESSATO?
Occorre dar atto all’ex presidente Bush di non aver nascosto ipocritamante le violazioni dei diritti umani compiute dagli Stati Uniti nell’ambito della ‘guerra al terrore, anzi egli ha riconosciuto e messo per iscritto di aver autorizzato la tortura del ‘sottomarino’ e altre pratiche coercitive nei riguardi di ‘sospetti terroristi’. Ma per questo potrebbe essere arrestato e processato non appena mette piede al di fuori degli Usa, cosa che poteva capitargli in febbraio se si fosse recato in Svizzera
Si è sempre saputo che George W. Bush quando era presidente degli Stati Uniti autorizzò l’uso del “waterboarding” (tecnica di affogamento simulato, nota anche come “sottomarino”) e di altre forme di tortura (privazione del sonno, esposizione al caldo e al freddo eccessivi, prolungata costrizione in posizioni stressanti) per gli interrogatori di alcuni prigionieri ritenuti responsabili di atti di terrorismo (v. ad es. nn. 159, 181 e nn. ivi citati). Bush lo ha ammesso perfino per iscritto, in un libro di memorie (*).
Ciò che invece si è saputo solo ora, è che George W. Bush aveva in programma un viaggio in Svizzera per promuovere un gala di beneficenza a Ginevra il 12 febbraio scorso. E questo viaggio è stato precipitosamente cancellato con una settimana di anticipo quando si è saputo che l’ex presidente rischiava in Svizzera un processo per aver praticato la tortura.
Secondo la Convenzione contro la Tortura e altri Trattamenti o Punizioni crudeli, disumani o degradanti - alla quale aderiscono sia la Svizzera che gli Stati Uniti - i paesi sono obbligati a perseguire i casi di sospetta tortura ogni volta che una persona sospettata di tali crimini sia presente sul loro territorio, o di estradare il sospetto in un’altra giurisdizione dove venga processato. Un evento di questo tipo accadde negli Stati Uniti quando nel 2009 fu processato e condannato da una corte federale USA Charles Taylor junior, figlio dell’ex presidente della Liberia Charles Taylor, con l’accusa di tortura.
Ginevra si apprestava quindi ad accogliere Bush con un bel processo pronto per lui. I gruppi per i diritti umani che hanno predisposto la documentazione per denunciarlo, e che hanno dovuto rinunciare al proposito a causa dell’annullamento del viaggio di Bush, hanno dichiarato che ripeteranno il tentativo ad ogni altra possibile occasione.
La cosa vergognosa, che è stata sottolineata dall’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch, è la sostanziale continuità tra l’amministrazione di George Bush e quella del suo successore Barack Obama, dimostrata anche dal fatto che in America l’amministrazione Obama ometta rigorosamente di indagare il comportamento di Bush e dei suoi collaboratori, e di portarli davanti ad una corte di giustizia per i crimini da loro commessi. Anzi, Obama ha espressamente scagionato gli agenti della CIA accusati di aver commesso violazioni dei diritti umani nell’ambito della cosiddetta ‘guerra al terrore’.
Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha dichiarato: “Il processo minacciato a Bush in Svizzera dimostra che gli altri paesi reagiranno alla tortura anche se gli Stati Uniti non lo faranno. Il governo USA deve dimostrare che nessun pubblico ufficiale, neppure un ex-presidente, è al di sopra della legge. Deve autorizzare l’accusa a investigare e a perseguire questo grave crimine. L’ammissione spudorata e sfacciata del presidente Bush di aver ordinato il ‘waterboarding’ dà ovviamente luogo a procedere con un’investigazione criminale”. (Grazia)
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V. www.statesman.com/news/nation/bush-admits-he-approved-waterboarding-1019060.html1
11) I DATI DI AMNESTY SULLA PENA DI MORTE NEL 2010
I dati contenuti nell’ultimo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte uscito il 28 u. s. confermano, con qualche eccezione locale, il declino della pena capitale nel mondo in atto da anni.
L’ultimo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte è stato presentato il 28 marzo (1). Segue quello uscito nel marzo dello scorso anno (v. n. 178) e riguarda in particolare gli sviluppi verificatisi nel 2010.
“La minoranza di stati che continuano a usare sistematicamente la pena di morte sono responsabili di migliaia di esecuzioni nel 2010, sfidando la tendenza globale contro la pena capitale’ – ha dichiarato in questa occasione Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International. “Mentre le esecuzioni appaiono diminuire, un certo numero di paesi continua a emettere condanne a morte per reati di droga, reati economici, per relazioni sessuali tra adulti consenzienti e per blasfemia, violando il diritto internazionale dei diritti umani che vieta l’uso della pena capitale salvo che per i crimini più gravi.”
Con l’abolizione della pena di morte in Gabon, i paesi abolizionisti per tutti i reati sono passati da 95 a 96, e quelli ‘abolizionisti di fatto’ (non compiono esecuzioni da almeno 10 anni) sono scesi da 35 a 34. Rimangono gli stessi del 2009 i paesi abolizionisti per i reati ordinari (sono 9) e i paesi mantenitori dalla pena capitale (sono 58)
Come per il 2009 Amnesty si rifiuta di quantificare le esecuzioni portate a termine in Cina nel 2010, per protesta contro il rifiuto del governo di Pechino di rendere noti dati ufficiali sulla pena di morte. (Si ritiene che le esecuzioni in Cina nel 2010 siano state dell’ordine delle migliaia, come negli anni precedenti).
Amnesty International sfida le autorità cinesi a pubblicare i dati concernenti il numero di persone condannate a morte e il numero delle esecuzioni anche per confermare l’effettiva riduzione, da loro dichiarata, dell’uso della pena di morte nel paese a partire dal 2008.
Ponendo uguale a 0 il numero di esecuzioni della Cina, Amnesty fornisce il dato di ‘almeno’ 527 esecuzioni portate a termine nel 2010 in 23 paesi avvertendo che il dato reale è sicuramente più alto. Per il 2009 Amnesty, sempre azzerando il contributo della Cina, denunciò almeno 714 esecuzioni in 18 paesi (numero di paesi più basso di tutti i tempi).
A nostro parere l’incertezza che rimane rispetto ai dati reali non consente di confrontare i dati di anno in anno e di affermare con sicurezza che le esecuzioni siano andate effettivamente diminuendo negli ultimi due anni. Tuttavia sono del tutto compatibili con la tendenza globale all’abolizione della pena di morte in atto da molti anni: la pena capitale viene sempre meno usata nella pratica, sempre più espulsa dalle legislazioni nazionali e sempre più avversata nelle sedi sovranazionali. A fine 2010 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato a larga maggioranza, per la terza volta a partire dal 2007, una risoluzione che invita tutti i paesi del mondo ad istituire una moratoria della pena di morte in vista della sua abolizione (v. n. 186).
Da quanto rende noto Amnesty, ricaviamo che l’Iran è certamente il paese che ha compiuto più esecuzioni pro capite nel 2010 (anche più della Cina, come nel 2009): almeno 252 esecuzioni rese note, alle quali vanno aggiunte almeno 300 esecuzioni che le autorità si sono sforzate di tenere nascoste ma di cui si è avuta contezza, in una popolazione di 70 milioni di persone.
Dopo l’Iran e la Cina, vengono la Corea del Nord, che ha effettuato almeno 60 esecuzioni, lo Yemen (almeno 53), gli Stati Uniti d’America (46), l’Arabia Saudita (almeno 27), la Libia (almeno 18), la Siria (almeno 17). Rispetto all’anno precedente risultano in calo le esecuzioni in Arabia Saudita (che furono almeno 69 nel 2009) e in Iraq (almeno 120 nel 2009).
Amnesty rende noto che a fine 2010 vi erano nel mondo almeno 17.833 condannati a morte e che nell’anno sono state emesse almeno 2.024 condanne capitali in 67 paesi.
Quest’ultimo dato appare in contrasto col dato relativo al numero di paesi che mantengono la pena di morte (58). Osserviamo però che i paesi ‘abolizionisti di fatto’ vengono contati da Amnesty guardando alle esecuzioni e non alle condanne a morte. (Rimane comunque opinabile il criterio di considerare ‘abolizionista di fatto’ un paese che non fa esecuzioni da 10 anni se questo continua ad emettere sentenze di morte).
Secondo Amnesty i metodi di esecuzione sono stati: decapitazione (in Arabia Saudita), sedia elettrica (USA), impiccagione (Corea del Nord, Bangladesh, Botswana, Egitto, Giappone, Iran, Iraq, Malesia, Singapore, Siria e Sudan), iniezione letale (Cina e USA), fucilazione (Autorità Palestinese, Bahrain, Bielorussia, Cina, Corea del Nord, Guinea Equatoriale, Somalia, Taiwan, USA, Vietnam e Yemen). Mancano notizie di esecuzioni eseguite tramite lapidazione (2), anche se sono state emesse nuove condanne alla lapidazione in quattro paesi islamici.
Si sono verificate esecuzioni in pubblico almeno in Arabia Saudita, Iran e Corea del Nord.
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(1) Vedi: http://www.amnesty.it/dati_pena_di_morte_nel_2010 (e relativi allegati in PDF)
(2) Evidentemente Amnesty International si riferisce ad esecuzioni che abbiano avuto un minimo di regolarità, perché sappiamo di alcune lapidazioni nel 2010: per esempio è certo che in Afghanistan sono stati lapidati in pubblico due amanti condannati a morte per adulterio da una corte religiosa (v. n. 182).
12) GUERRA, E VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI, DOPO UN DECENNIO DI ORRORI
L’impegno per i diritti umani che rientra nella scopo statutario del Comitato Paul Rougeau, ci fa di nuovo interrogare sulla liceità di una guerra “umanitaria” cui partecipiamo in quanto Italiani.
La furiosa ed irrazionale risposta agli attacchi terroristici portati nel cuore degli Stati Uniti dai piloti suicidi l’11 settembre 2001, aprì una serie ‘infinita’ di guerre e di massicce violazioni dei diritti umani che hanno prodotto cento o mille volte più vittime degli attacchi iniziali e danni incalcolabili ai beni e alle coscienze. Incapaci di riflettere su un decennio di orrori e di agire di conseguenza, aggiungiamo ora alle guerre in atto una nuova guerra. In Libia.
L’incapacità, il disimpegno e il sostanziale disinteresse dei paesi più ricchi - che detengono gran parte del potere mondiale – di fronte alle rivoluzioni in atto in Africa e nel Medio Oriente, ha caratterizzano la prima parte di questo anno 2011.
In Italia non ci si è preoccupati delle persone a rischio nei paesi in rivolta, ma solo di coloro che emigrano dal Nord Africa ed approdano sulle nostre coste.
Un’eccezione è stata fatta per la rivoluzione libica. In Libia alcuni paesi occidentali hanno prima infiltrato ‘professionisti’ della destabilizzazione e poi scatenato una guerra altamente tecnologica a sostegno del tentativo di rovesciare il regime del ‘dittatore senza incarichi ufficiali’ Muammar Gheddafi. L’entrata in guerra di paesi particolarmente ‘volenterosi’, tra cui l’Italia, è stata definita un “intervento umanitario” teso a salvaguardare la “popolazione civile”.
Il fatto che alle guerre combattute dai paesi più evoluti venga ora attribuito, sia pure con una certa dose di ipocrisia, un carattere “umanitario” dimostra un progresso dei diritti umani rispetto all’epoca in cui la guerra veniva definita semplicemente come il diritto dei popoli più forti di aggredire gli altri popoli. Però è giustificato – anzi doveroso – chiedersi se l’intervento in Libia abbia realmente lo scopo primario di proteggere la popolazione e se tale scopo possa essere perseguito senza violare pesantemente e su larga scala i diritti umani di combattenti e non combattenti.
Occorre riconoscere che non si è ancora mai vista una guerra che non abbia causato pesanti violazioni dei diritti umani.
Abbiamo scritto in occasione della prima guerra “umanitaria” cui ha partecipato l’Italia, quella del Kosovo, e ripetuto in occasione della successiva, quella scatenata contro l’Afghanistan: “La guerra – violenza decisa e pianificata al massimo livello di consapevolezza, e poi sparsa sulla Terra in maniera sostanzialmente indiscriminata – offende radicalmente i diritti umani individuali e collettivi. Infatti essa distrugge i beni, la storia e la memoria, l’equilibrio mentale e la vita stessa, di esseri umani, combattenti e non, cui non è stato neanche contestato un reato, se si esclude la ‘colpa’ di trovarsi nel luogo e nel tempo maledetto in cui viene scatenata la guerra.” (v. nn. 67, 89)
13) PERSECUZIONE E STERMINIO DEI DEBOLI
Nuovi fatti luttuosi ci costringono a ritornare sulle persistenti violazioni dei diritti umani degli immigrati e dei Rom in Italia (v. ad es. nn. 161,165,173, 176, 183). Lo facciamo (pur dissociandoci nettamente dalle frange violente del movimento anarchico) riportando tre brani diffusi da siti anarchici italiani, nei quali abbiamo trovato una grande umanità ed una puntigliosa, scarna cronaca dei fatti.
Noureddine che si è dato fuoco (*)
Noureddine Adnane ha 27 anni ed è nato in Marocco. Vive in Italia dal 2002 e si guadagna da vivere facendo l’ambulante. Lo conoscono tutti nel quartiere, e tutti gli vogliono bene, al punto che i palermitani lo chiamano “Franco”. Noureddine riesce a portare a casa una ventina di euro al giorno. Mette i soldi da parte, con ostinazione e speranza, perché vuol far venire in Italia sua moglie e la loro bambina di due anni. Ma a Palermo i venditori ambulanti, specialmente immigrati, devono fare i conti con la polizia municipale: retate nei mercatini, ispezioni, multe, sequestri della merce, intimidazioni. Noureddine non è un abusivo, ma riceve la visita dei vigili urbani per cinque volte in una settimana: davvero troppo per chi deve sbarcare il lunario tra mille difficoltà. Così [l’11 febbraio] di fronte all’ennesimo controllo, alla minaccia di sequestro della merce, Noureddine si è sentito solo e in preda al panico, ha preso la benzina, se l’è versata addosso, e s’è dato fuoco. Il vigile urbano che stava redigendo il verbale cerca di coprire le fiamme col giubbotto, mentre gli avventori di un bar tentano di spegnere con l’acqua delle bottiglie quella torcia umana. Il corpo di Noureddine è tutto ustionato, e viene ricoverato d’urgenza all’ospedale civico dove sta lottando contro la morte. Questo è il prodotto dell’esasperazione che nasce dalla repressione dilagante nei confronti degli immigrati, dei poveri, dei senza-carte, anche a Palermo. L’anno scorso le forze dell’ordine si sono scatenate più volte a piazzale Giotto: pistole spianate ed elicottero che volteggiava sul mercatino settimanale. Un incredibile spiegamento di uomini e mezzi per dar la caccia a chi vende cinture o borse a buon mercato. Per non parlare della persecuzione nei confronti dei lavavetri ai semafori, con retate in grande stile contro “pericolosi clandestini” armati di secchio e tergicristallo. […] Noureddine voleva solo lavorare in pace e il suo gesto è un urlo assordante contro l’ingiustizia e la criminalità del potere.
P. S. Sabato 19 febbraio. Noureddine non ce l’ha fatta: è spirato questa mattina. Un altro morto, un’altra vita macinata da leggi, regolamenti, soprusi.
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(*) V. http://senzafrontiere.noblogs.org/
Quando muoiono i bambini (*)
Roma, 6 febbraio. Quattro bambini bruciano vivi in una baracca ai margini del nulla metropolitano.
Siamo a Tor Fiscale. Assi, plastica, poche povere cose. Basta una scintilla, un braciere acceso per tenere lontano l’inverno, e il fuoco si mangia tutto.
Il resto è copione già visto. La disperazione dei parenti, l’indignazione del sindaco post fascista della capitale, che strilla che servono poteri speciali per fare campi sicuri, che si infuria contro la burocrazia. Un alibi traballante ma poco importa. In fondo sono solo zingari. La mattina dopo arrivano le ruspe e tirano giù tutte la baracche. L’ordine è ripristinato.
Arriva anche la magistratura, che mette sotto inchiesta il padre e le due madri: abbandono di minore. La madre di tre dei bambini e nonna del quarto non crede all’incidente: il braciere era lontano, le fiamme sono divampate troppo in fretta.
Una vicenda che ne ricorda un’altra di quattro anni fa.
Quattro bambini rom morirono nell’incendio di una baracca di legno sotto ad un cavalcavia, vicino alla raffineria di Stagno, a Livorno, l’11 agosto del 2007. I genitori vennero arrestati con l’accusa di abbandono di minore e di incendio doloso, nonostante avessero detto di essere stati aggrediti. Prosciolti dall’accusa di incendio doloso, patteggiarono e vennero scarcerati perché incensurati. Sulla vicenda calò il silenzio nonostante il rogo fosse stato rivendicato dal GAPE - Gruppo Armato di Pulizia Etnica.
Quando ci sono di mezzo i rom viene sfogliato l’intero florilegio di pregiudizi razzisti nei loro confronti. Se i bimbi muoiono è colpa loro, che non ci badano, che vanno in giro a rubare, che li fanno vivere in roulotte e baracche.
Come se qualcuno - davvero - potesse scegliere di vivere di elemosina in una baracca senza nulla. […] Nel luglio 2008 una bambina rom, appena sgomberata da una ex fabbrica abbandonata in via Pisa a Torino, disse “almeno per un po’ ho vissuto in una casa vera”. Una casa con il gabinetto. E porte, finestre, luce... Dopo lo sgombero la riportarono lungo il fiume in una baracca piena di topi.
A Torino, il 14 ottobre del 2008 andò a fuoco un campo rom in via Vistrorio. Tre molotov in punti diversi e l’insediamento sulle rive del torrente Stura dove vivevano 60 persone andò in fumo.
Non andò peggio perché un ragazzo diede l’allarme. I giornali allusero alla possibilità che il campo l’avessero bruciato gli stessi rom, per forzare la mano al comune ed ottenere posto nell’area allestita per l’emergenza freddo. Le prove? Non era morto nessuno!
Qualche mese dopo, la magistratura, dopo decine di aggressioni a immigrati e tossici, mise gli occhi sul gruppo fascista “Barriera Domina”: nei telefonini di alcuni di loro trovarono le scansioni dei giornali che parlavano del rogo di via Vistrorio. Due righe in cronaca e poi l’oblio. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto.
Sulla vicenda il sito Ojak, oggi purtroppo non più attivo, fece una controinchiesta.
Quelli come Alemanno vogliono i campi. Altri vorrebbero cacciare tutti. I più chiudono gli occhi e non guardano, magari si commuovono anche un po’. I bambini fanno sempre tenerezza.
Il rogo di Tor Fiscale, come già quello di Stagno, ha fatto notizia perché i bambini erano quattro, altrimenti sarebbero bastate poche note in cronaca, ordinaria amministrazione. Un bambino muore di freddo, un altro bruciato, un altro se lo porta via una banale influenza.
Infinito l’elenco dei campi rom andati in fumo. A volte distrutti da bravi cittadini, decisi a fare pulizia. Etnica. Altre volte bruciati dalla povertà che non concede sicurezza.
Resta il fatto che quei quattro bambini sono stati ammazzati. Resta il fatto che ogni giorno, in qualche dove, c’è qualcuno che muore. Muore di povertà.
La povertà non è un destino.
I responsabili siedono sui banchi dei governi e nei consigli di amministrazione delle aziende.
Nessuno si creda assolto, perché l’indifferenza è complicità.
Leggete [qui sotto] su Aranea “Dai forni nazisti ai roghi democratici”, un interessante approfondimento sullo strisciante sterminio dei rom e sulle politiche di sgomberi e filo spinato dell’amministrazione capitolina.
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(*) V. http://senzafrontiere.noblogs.org/post/2011/02/09/quando-muoiono-i-bambini
Dai forni nazisti ai roghi democratici - Il continuo sterminio dei rom (*)
9 febbraio 2011 […] Ci sono […] genocidi tragicamente noti ed altri sommersi nella storia: sicuramente, tra questi ultimi, quello degli “zingari” si distingue per durata e accanimento, continuando ad essere perpetrato sino ad oggi con argomentazioni pressoché identiche nei secoli.
La storia conosciuta da questi bambini rom o sinti è quella di una normalità fatta di miseria ai margini della sopravvivenza, freddo, sgomberi in serie, soprusi polizieschi, attentati incendiari, ruspe, ratti e insulti razzisti. A due passi dai palazzi del potere, dalle vetrine ricolme, dalle case riscaldate e con l’acqua, dal finto pietismo per i bambini del Terzo Mondo .
Di fronte a questo abisso, per ogni parola di ipocrita commozione istituzionale se ne devono ascoltare cento che confermano una logica di discriminazione che accomuna regimi totalitari e governi democratici.
Il sindaco […] Alemanno che, fin dalla campagna elettorale, aveva promesso l’espulsione di “20 mila immigrati più o meno clandestini che hanno violato la legge” e la prosecuzione dello sgombero dei campi nomadi, non ha perso un attimo per chiedere poteri speciali al fine di “chiudere questi maledetti accampamenti abusivi”. Non casualmente ha rivendicato la sua politica con orgoglio degno di miglior causa: “Abbiamo fatto tutto il possibile. Abbiamo chiuso 5 campi tollerati e sgomberato 310 micro-insediamenti abusivi”.
Per lui l’unica soluzione è la deportazione in altri campi “regolari” già sovraffollati oppure in caserme dismesse e tendopoli vigilate, anche se per il nucleo familiare dei quattro bambini sgomberato già due volte non era stata offerta neppure questa alternativa.
Opinione analoga quella del Ministro degli interni, il leghista Maroni, favorevole al concentramento in campi, eufemisticamente chiamati villaggi della solidarietà, al fine di garantire “la sicurezza di chi vive dentro e di chi vive fuori”. In aggiunta, ha rilanciata la “sua” ordinanza per la schedatura di massa di tutti quelli che vivono nei campi.
Il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, ha da parte sua precisato che nelle nuove strutture, oltre ad acqua, luce e gas, sarà assicurato un altro genere di servizi: recinzioni, polizia e vigilanza.
E la giustizia, inesorabilmente, sta facendo il suo corso incriminando i poverissimi genitori dei quattro bambini per “abbandono di minorenni” […]
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(*) v. http://www.autistici.org/aranea/wordpress/?p=244
14) AMICI DI PENNA IN PRIGIONE: UNA CONTROVERSA STORIA D’AMORE (*)
Riportiamo, a cura di Piera Di Stefano, un estratto di un articolo di Douglas Quan, pubblicato nel quotidiano canadese The Vancouver Sun il 20 febbraio 2011. Quan ci parla con garbo della relazione sentimentale tra una canadese e un condannato a morte del Texas. Si tratta di una storia tipica, tra le tante del genere, nell’ambito del fenomeno molto ampio dei ‘pen pal dal braccio della morte’, non ancora esaurientemente indagato e compreso, dal quale – è bene ricordarlo - ha avuto origine anche il Comitato Paul Rougeau. Una minoranza di corrispondenti, soprattutto di sesso femminile, a partire da Internet stabiliscono un rapporto abnorme e pericoloso con i detenuti, come Rebecca Thornton che morì col fucile in pugno nel 1997 nel tentativo far evadere il coniuge, condannato a morte, mentre lavorava nell’orto della prigione. Lo riferì il Dipartimento Carcerario dell’Arizona nel 2000 insieme al caso di A. D. che si era spostata in Arizona per poter visitare M. C. il marito condannato a morte. La polizia scoprì che il suo appartamento era una specie di santuario del condannato: ‘Aveva attaccato fotografie, pitture e disegni di lui praticamente su tutte le pareti. Sotto alle sue foto aveva disposto candele e teneva perfino un suo nudo vicino al capezzale’ (v. n. 75). Nonostante i tentativi dell’Arizona e di diversi altri stati di mettere in cattiva luce i corrispondenti esterni e soprattutto i condannati a morte, accusati di manipolare le persone del mondo libero che entrano in contatto con loro (v. ad es. nn. 98, 103, 108), sappiamo che in maggioranza le relazioni e i messaggi sono normali e positivi, carichi di una straordinaria umanità. Molto spesso queste relazioni si chiudono tragicamente, al culmine di un percorso di riabilitazione del condannato in cui ha avuto un peso determinante l’apporto dei pen pal dal mondo libero, con l’inesorabile esecuzione delle sentenze di morte (v. ad es. nn. 148, 162, 174, 179, 180, 182).
Nell’Aprile del 1999, Justin Wiley Dickens, condannato per omicidio, si trovava nel braccio della morte del Texas quando ricevette una lettera da una straniera del Canada che esordiva così: “Salve Justin! Non ho mai scritto ad un detenuto prima d’ora, per cui se parlo a vanvera, perdonami.”
La nuova corrispondente del detenuto 22-enne era Michelle Sauve che viveva a Lisle nello stato dell’Ontario a più di 2.400 chilometri di distanza. Sauve, allora 28-enne, aveva trovato per caso la biografia di Dickens su un sito web e si era commossa per ciò che aveva letto.
Sette anni dopo - e dopo centinaia di lettere- si sposarono. In questa primavera cadrà il loro quinto anniversario di matrimonio.
“Lo amo moltissimo. E’ maturato come uomo”, dice.
Michelle Sauve fa parte di un piccolo gruppo di canadesi che hanno stretto legami singolari – c’è chi li definisce discutibili - con alcuni dei più violenti criminali statunitensi scambiando con loro lettere che hanno il tono e lo stile di altri tempi.
Alcune relazioni sono puramente platoniche, cominciate da oppositori della pena di morte che credono che questi detenuti meritino un po’ di compassione. Altre relazioni hanno un’evoluzione sentimentale.
Coloro che cercano corrispondenti nel braccio della morte di solito incominciano col visitare i siti web che offrono ai detenuti la possibilità di pubblicare pagine personali con i loro scritti, materiale illustrativo, foto, e tutte le informazioni per entrare in contatto con loro.
Tracy Lamourie e Dave Parkinson, co-fondatori della Coalizione Canadese Contro la Pena di Morte con sede a Toronto, costruirono un sito del genere più di dieci anni fa. Oggi, il sito presenta pagine web per centinaia di detenuti del braccio della morte.
Lamourie afferma: “come risultato del nostro sito web… i detenuti del braccio della morte di tutti gli stati hanno trovato contatti, aiuto legale, amicizie e persino uno o più matrimoni.”
Un detenuto del braccio della morte che si era iscritto al servizio offerto gratuitamente dalla Coalizione Canadese è il serial killer Charles Ng, che fu condannato in California, alla fine degli anni Novanta, per aver violentato e ucciso 11 persone.
Nella sua pagina web, Ng definisce la sua condanna un “errore giudiziario.”
“Per questa ed altre ragioni, mi sono sentito tagliato fuori, triste e solo - come un delfino catturato dalla rete per i tonni”.
Fa l’elenco dei suoi interessi: origami, spiritualità, autodidattica, scrivere, leggere e disegnare. Dice di cercare amicizie sincere, significative “da questo oscuro buco dell’umanità”
Queste pubblicazioni nel Web hanno attirato tutta l’indignazione delle famiglie delle vittime, che non credono che certi detenuti meritino di avere tale forum. […]
Ma Lamourie si riferisce ai molti casi in cui persone condannate a morte furono in seguito prosciolte dai loro crimini. E, afferma, anche coloro che si sono dichiarati colpevoli meritano l’opportunità di essere ascoltati perché le loro storie servono a far luce sulla disumanità della pena capitale.
“E’ solo con l’educazione e consentendo alla gente di guardare dentro le mura, che si otterrà che il pubblico faccia pressione affinché lo stato metta fine al ciclo di morte e di vendetta in nome del popolo,” dice.
Michelle Sauve ammette che inizialmente sosteneva la pena di morte, ma il suo atteggiamento si ammorbidì dopo aver conosciuto Dickens.
Sauve afferma che trovò per caso la storia di Dickens in Internet nel 1999. Era nel braccio della morte del Texas da quattro anni dopo essere stato dichiarato colpevole di aver ferito a morte un insegnante durante una rapina finita male, in una gioielleria.
“Mi spezzò il cuore,” dice, leggere della travagliata infanzia di Dickens che crebbe in un camping per roulotte con genitori tossicomani. Dice che la turbò anche il fatto che da fuori dalle mura della prigione non ricevesse granché aiuto.
“Ti parlerò un po’ di me in modo che tu possa decidere se t’interessa corrispondere con me,” scrisse Michelle Sauve. Gli disse che era sposata (“ mio marito sa che ti sto scrivendo ed è bene”), precisò le sue misure (“86-60-86, torace-vita-fianchi; altezza 1metro e 70; peso 50 kg ”) ed elencò i suoi hobbies (“cavalli, calcio, lettura - ma non credo che tu voglia sapere che tipo di libri leggo – fare ricerche in Internet, animali, fare acquisti, specialmente di scarpe”).
Lei disse che era disposta a parlare di qualsiasi cosa con una sola eccezione: “NON MARTELLARMI CON ARGOMENTI BIBLICI. Ritengo che la religione sia una fatto personale e non mi piace discuterne.”
Nella sua risposta, Dickens spiegò come finì nel braccio della morte. Aveva 17 anni, era un tossicomane e doveva molto denaro ad uno spacciatore. Andò a rapinare una gioielleria ma fu aggredito da un uomo nel negozio. L’uomo fu “ucciso accidentalmente” nella lotta per afferrare la pistola. “Non ho mai avuto l’intenzione di ferire qualcuno,” scrisse. “Ero solo uno stupido ragazzino disperato e terrorizzato”
Ora aveva 22 anni ma diceva di sentirsene 32. Disse di apprezzare la sua offerta di amicizia - “una qualità rara” - e chiarì di non essere uno che faceva citazioni dalla Bibbia.
“Sono un peccatore! Così non ti preoccupare.”
Dopo svariate lettere, Michelle Sauve incominciò ad incontrare Dickens in prigione. Al suo primo incontro, ricorda di aver abbassato gli occhi quando le apparve, dietro ad un vetro, chiuso in una gabbia. Disse che non voleva imbarazzarlo dal momento che stava per essere liberato dalle catene.
Anni dopo, nel 2005, festeggiarono la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che dichiarò incostituzionale giustiziare qualcuno che ha commesso un crimine quando non aveva ancora 18 anni. A Dickens e a decine di altri detenuti la sentenza capitale fu commutata in ergastolo.
L’anno dopo, Sauve, che nel frattempo aveva divorziato, e Dickens, decisero di sposarsi.
Poiché Dickens non poteva lasciare la prigione, il patrigno lo sostituì davanti al giudice di pace. Il Texas è uno degli stati che permette i matrimoni per procura.
Quando Sauve incontrò Dickens in prigione, il giorno dopo, si abbracciarono per la prima volta. “Era vero. Aveva la pelle. Era caldo. Potevo sentirlo respirare,” ricorda.
Sauve è pronta ad ammettere che ci sono delle limitazioni nella loro relazione. “E’una relazione d’amore, ma non di amore tradizionale,” lei afferma. Il Texas non consente visite coniugali.
Anche se è sposata con Dickens, Michelle riferisce di avere pure un ragazzo nell’Ontario.
Sebbene abbia conosciuto solo il “Justin istituzionale” è certa che sia “una brava persona.”
Ma l’accusatore di Dickens sostiene che egli sia un “animale pericoloso, brutale,” e che agli attuali e ai precedenti detenuti del braccio della morte dovrebbero essere negati privilegi come quello di avere una pagina nel Web.
“Dal momento che siamo stati privati della giusta condanna a morte, qualche disagio per Dickens sarebbe gradito,” scrive in una mail James Farren, procuratore distrettuale della Contea di Randall.
Farren crede che Justin Dickens stia manipolando Michelle Sauve “per ottenere qualcosa che vuole” e predice che ella “si pentirà del giorno in cui prese la decisione di sposarlo”. […]
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(*) V. http://www.vancouversun.com/news/Prison+pals+controversial+love+story/4317770/story.html
15) NOTIZIARIO
Connecticut. Il governatore disposto a firmare una legge abolizionista. Una proposta di legge tendente all’abolizione della pena di morte in Connecticut ha cominciato il suo cammino. Non è escluso che vada in porto. Anche se i due terzi della popolazione vi si dichiara a favore, la pena capitale non viene praticamente usata in Connecticut, stato in cui a partire dal 1976 si è verificata una sola esecuzione: nel 2005 fu somministrata l’iniezione letale al serial killer Michael Ross, che si era rifiutato di proseguire gli appelli. Il governatore del Connecticut Dannel P. Malloy ha dichiarato senza mezzi termini di essere pronto a firmare la legge abolizionista.
Iran. Impiccato un uomo che si era proclamato Dio. Il 1° febbraio l’agenzia Fars ha reso noto che Abdolreza Gharabat è stato impiccato nella provincia del Khuzestan nel sud-ovest dell’Iran. Era stato condannato a morte per apostasia per essersi proclamato Dio facendo proseliti tra i giovani.
Usa. Manning e Assange rischiano la pena di morte per aver diffuso informazioni segrete. Il 23-enne soldato semplice Bradley Manning, analista dello spionaggio militare USA, è stato arrestato a maggio del 2010 con l’accusa di aver scaricato e passato al sito WikyLeaks oltre 260.000 messaggi diplomatici e oltre 90.000 rapporti dell’intelligence sulla guerra in Afganistan, nonché un tragico video di un elicottero che mitraglia alcuni passanti. Materiale per lo più coperto da segreto. Detenuto in isolamento in condizioni estreme, Manning è stato caricato di oltre 20 capi di imputazione tra cui quello di “aiuto al nemico” per cui rischia la pena di morte nonostante il fatto che gli accusatori si propongono di chiedere per lui ‘solo’ una condanna all’ergastolo. A maggior ragione rischia la pena di morte l’hacker 39-enne promotore di WikyLeaks, Julian Assange, che ha consentito, a partire dal mese di agosto, la pubblica diffusione del materiale procurato da Manning. Assange finora è riuscito ad evitare di finire nelle mani degli Americani, furiosi che siano venuti alla luce giudizi e fatti a per dir poco incresciosi, che screditano non solo il governo Usa ma anche i governi di molti paesi con cui gli Usa intrattengono relazioni.
Usa. Obama ordina la ripresa dei processi davanti alle Commissioni militari di Guantanamo. Barack Obama aveva dato motivo di speranza a milioni di persone nel mondo quando promise nel 2008, durante la sua campagna elettorale, di chiudere il campo di detenzione di Guantanamo Bay che aveva rappresentato per anni un’icona delle violazioni dei diritti umani nella ‘guerra al terrore’ scatenata dal presidente Bush. Il 7 marzo scorso quella speranza è andata virtualmente distrutta, quando il presidente Obama ha ordinato, come si prevedeva (v. n. 187, Notiziario), la ripresa dei processi da parte delle famigerate Commissioni militari a Guantanamo, dopo una sospensione di due anni. Obama ha deciso che rimarranno prigionieri a tempo indeterminato a Guantanamo 47 ‘sospetti terroristi’ il cui processo non verrà mai celebrato perché le ‘prove’ contro di loro sono state ottenute in modo irregolare, per esempio sotto tortura in luoghi segreti.
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 marzo 2011