FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 167 – Febbraio 2009
SOMMARIO:
1) Diritti umani: vieppiù deludente la ‘svolta’ impressa da Obama
2) Inchieste senatoriali sull’operato della Cia
3) Intensa attività legislativa sulla pena capitale negli Usa
4) Cronaca straordinaria di un’ordinaria esecuzione
5) Clemenza in Ohio per non addolorare la famiglia della vittima
6) Il lungo viaggio di Paul House verso la libertà
7) Fernando ci scrive
8) Spariti i boia della Politkovskaya nella notte dei diritti umani
9) L’odissea del ceceno Israilov, ucciso a Vienna da un commando
10) Partecipiamo al finanziamento di un ottimo progetto in Zambia!
11) Notiziario: Iran, Texas, Usa
1) DIRITTI UMANI: VIEPPIÙ DELUDENTE LA ‘SVOLTA’ IMPRESSA DA OBAMA
Le riforme di Barak Obama in materia di diritti umani, implementate subito dopo l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, se sottoposte ad un’attenta analisi mostrano insidiose crepe, le quali, insieme ai primi atti compiuti dal nuovo governo, delineano un’inquietante continuità tra l’attuale e la precedente amministrazione. In questo articolo proseguiamo l’analisi iniziata nel numero 166.
Al di là di alcuni appariscenti immediati miglioramenti, man mano che si analizzano le iniziative, e le omissioni, del presidente Barak Obama nell’ambito della cosiddetta ‘guerra al terrore’, si scoprono inquietanti segnali di continuità con quanto avveniva sotto l’amministrazione Bush.
Ormai perplessità, delusione e malessere suscitati dall’amministrazione di Obama serpeggiano tra le organizzazioni per i diritti umani, mentre si ridimensionano gli entusiasmi suscitati dall’elezione di un presidente che, almeno nelle apparenze, si differenziava nettamente dal cliché dei suoi predecessori.
Barak Obama, che è stato salutato da molti come l’antitesi di Abu Ghraib e di Guantanamo, puntualmente si presentò con l’annuncio, emblematico e di grande effetto, della chiusura del centro di detenzione di Guantanamo.
Ed egli fu lodato perché ordinò subito di chiudere anche le prigioni segrete della CIA.
Ma già questo ulteriore provvedimento ha prodotto delle delusioni quando, leggendo con attenzione l’ordine esecutivo firmato da Obama, si è scoperto che la CIA mantiene la facoltà di detenere le persone in segreto (sia pure per periodi limitati). E non potrebbe essere altrimenti, data la conferma della pratica dei rapimenti, degli interrogatori segreti e della ‘rendition’.
Come abbiamo detto nel numero 166, la CIA conserva intatta la facoltà di praticare la extraordinary rendition, cioè di rapire in tutto il mondo ‘sospetti terroristi’ e di trasferirli in paesi che collaborano con gli USA nella ‘guerra al terrore’ (1). Anzi secondo alcuni commentatori il programma della rendition, intrinsecamente lesivo della legalità internazionale, sta per essere addirittura incrementato.
La proibizione di Obama di trasferire i prigionieri in paesi che praticano la tortura è certo un dato positivo, ma sarà difficile verificare se, e in che modo, questa direttiva verrà rispettata. Tanto per cominciare, il nuovo direttore della CIA, Leon E. Panetta, ha dichiarato che continuerà a trasferire detenuti in paesi terzi accontentandosi di ‘assicurazioni diplomatiche’ sul rispetto dei diritti umani. Si tratta del medesimo ridicolo standard prudenziale osservato dalla CIA sotto l’amministrazione Bush!
Il nuovo governo si sta dimostrando altrettanto restio del precedente a rispettare le regole dello stato di diritto, per esempio rifiutando di riconosce i limiti del potere esecutivo nei confronti del potere giudiziario.
L’amministrazione Obama il 20 febbraio ha argomentato presso una corte federale che i detenuti nella base USA di Bagram in Afghanistan non hanno la facoltà di contestare legalmente la propria detenzione (facoltà che è stata acquisita in qualche misura, con grande fatica, dagli ottimi avvocati che difendono alcuni detenuti di Guantanamo). Michael F. Hertz, assistente del nuovo Ministro della Giustizia, ha dichiarato: “Dopo aver considerato la questione, il governo si conforma alla posizione precedentemente argomentata [dall’amministrazione Bush].” Gli oltre 600 prigionieri che – notoriamente - soffrono condizioni di detenzione terribili, peggiori di quelle di Guantanamo, non possono dunque esigere di essere giudicati e magari un giorno rilasciati.
In effetti, nel clima di euforia suscitato dalla vittoria di Obama, non si è dedicata la dovuta attenzione al mantenimento di un istituto fondamentale della ‘guerra al terrore’, così come teorizzata e praticata dall’amministrazione Bush, quello della detenzione illimitata senza accusa e senza processo, estesa, a totale discrezione dell’esecutivo, anche a prigionieri catturati lontano dai campi di battaglia.
E veniamo ai trattamenti inflitti ai prigionieri nella ‘guerra al terrore’.
Il presidente Obama il 22 novembre, due giorni dopo il suo insediamento, disponendo la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo entro un anno, aveva ordinato che si rispettassero le Convenzioni di Ginevra nei riguardi dei prigionieri. Il 21 febbraio si è appreso di un rapporto che verrà presto presentato dal Dipartimento della Difesa al presidente USA secondo cui le condizioni di detenzione nel campo di Guantanamo corrispondono agli standard previsti dalla Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, in particolare dall’art. 3 che riguarda conflitti che non si combattono tra stati.
Jeffrey D. Gordon, portavoce del Pentagono, ha sottolineato con soddisfazione che: “In definitiva il rapporto ha dimostrato che Guantanamo rispetta le Convenzioni di Ginevra, cosa che noi abbiamo sostenuto per anni. Così il rapporto non fa che convalidare i nostri metodi e i nostri trattamenti.”
Se è così, si deve ritenere che va tutto bene a Guantanamo, ora come sempre. Dunque secondo il Pentagono anche su tale questione non occorre operare alcuna discontinuità con quanto avveniva sotto la presidenza Bush.
Rispetto alla situazione precedente ad Obama, vi è la proibizione della tortura (per la verità, anche l’amministrazione Bush ha sempre condannato, a parole, la tortura) e vi è l’obbligo esteso alla CIA di limitarsi alle ‘tecniche di interrogazione’ previste nel manuale delle forze armate (2). Tuttavia, come abbiamo osservato nel numero 166, il fatto che sia stata istituita una task force per studiare tecniche di interrogazione adatte per le varie ‘agenzie’ e il fatto che le tecniche proposte in futuro potranno essere mantenute segrete, suscitano legittime perplessità. E’ inquietante che qualcuno abbia potuto scorgere - tra le nobili espressioni con cui è redatto l’ordine esecutivo di Obama che “assicura interrogazioni rispettose della legalità” - l’escamotage per un ritorno alla ‘tecniche’ del passato caso mai venisse catturato Osama bin-Laden o qualche altro esponente di spicco di al-Qaeda.
La nuova amministrazione, contraria allo svolgimento di un’inchiesta indipendente sulle violazioni dei diritti umani compiute sotto l’amministrazione uscente, continua ad opporsi, come la precedente, alle citazioni in giudizio della CIA davanti alle corti civili da parte di ex detenuti oggetto di abusi: si sostiene che tali citazioni non sono ammissibili in base della dottrina del “segreto di stato”.
Il 27 febbraio l’amministrazione Obama ha tentato di bloccare una causa civile intentata dalla Fondazione Islamica Al-Haramain, un’organizzazione caritativa ora non più operante, nei confronti dell’amministrazione Bush per essere stata spiata senza ordine della magistratura e in violazione alle norme contenute nel pacchetto legislativo FISA sulle comunicazioni (v. n. 162, “Spiare tutti…” ).
La Corte federale d’Appello del Nono Circuito ha respinto, almeno per ora, la richiesta in tal senso del Dipartimento di Giustizia. Il fallito tentativo costituisce la seconda iniziativa nell’arco di un mese in cui la nuova amministrazione – esattamente come la precedente - sostiene che il “segreto di stato” prevale sulla legge federale in materie attinenti la sicurezza della Nazione.
“Tutti noi rimaniamo increduli di fronte al fatto che l’amministrazione Obama assuma le stesse identiche posizioni estreme dell’amministrazione Bush”, ha dichiarato Jon Eisemberg, avvocato di Al-Haramain.
All’inizio di febbraio il governo americano ha ringraziato il governo inglese per “il suo costante impegno nel proteggere informazioni sensibili riguardanti la sicurezza nazionale”: erano appena state negate ad un corte di giustizia britannica informazioni sulle torture inflitte dagli Americani ad un prigioniero.
Anthony D. Romero, direttore esecutivo dell’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili) ha dichiarato che una sequenza di fatti ‘deludenti’ ha aumentato il timore che Obama finisca col mantenere “alcune delle più problematiche politiche dell’amministrazione Bush.”
Anche l’importante quotidiano conservatore Wall Street Journal in un editoriale rileva che “l’architettura dell’amministrazione Bush riguardo al terrorismo sta guadagnandosi una nuova legittimazione”.
Ovviamente noi, pur se delusi, come tutti coloro che si impegnano per i diritti umani, non dobbiamo stancarci di discernere ed incoraggiare ciò che di positivo fa la nuova amministrazione. Intanto perché se non fosse stato eletto Obama probabilmente cose si sarebbero messe anche peggio. Poi perché il nuovo presidente degli Stati Uniti è il soggetto che, più di ogni altro, è in grado di esercitare una qualche resistenza nei confronti dei ‘poteri reali’ che intendono imporre una sostanziale continuità nella ‘guerra globale al terrore’ concepita e messa in atto durante gli otto anni del mandato di George W. Bush.
Infine dobbiamo tener presente la nostra situazione di assoluto privilegio: le violazioni dei diritti umani compiute dai Paesi occidentali sono sempre sotto osservazione e possono essere discusse e contestate. Non così avviene in buona parte dell’Africa e dell’Asia, in Europa Orientale, nella Federazione Russa e nel Medio Oriente. Ed anche alle porte di casa nostra, nei Balcani.
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(1) E’ difficile, se non impossibile, valutare la reale consistenza del fenomeno, certamente non trascurabile, della rendition su cui le persone e le istituzioni coinvolte mantengono il più stretto riserbo. I dati conosciuti risultano da un rapporto del Parlamento Europeo, secondo cui tra il 2001 e il 2005 vi sarebbero stati oltre 1200 voli segreti operati dalla CIA solo nello spazio aereo europeo. Per l’ex direttore della CIA Michael Hayden il numero delle persone rapite e trasferite in tutto il mondo a partire dall’11 settembre 2001 non supererebbe il centinaio.
(2) La restrizione è un fatto positivo, indipendentemente dalle riserve che si possono legittimamente avanzare sul complesso delle norme riguardanti l’Human Intelligence Collector Operations e su alcune sue parti specifiche. V. il testo di circa 400 pagine all’indirizzo:
http://www.army.mil/institution/armypublicaffairs/pdf/fm2-22-3.pdf
2) INCHIESTE SENATORIALI SULL’OPERATO DELLA CIA
E’ notorio che l’amministrazione di Barak Obama è nettamente contraria a qualsiasi approfondita indagine indipendente sull’operato della precedente amministrazione. Può darsi che l’avvio di due inchieste senatoriali sull’operato della CIA e sulle operazioni antiterrorismo negli otto anni della presidenza Bush, possa rappresentare una soluzione di compromesso tra un rigoroso accertamento delle responsabilità e la tacita archiviazione di gravissime violazioni dei diritti umani avvenute in tutto il mondo dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.
A fine febbraio si è appreso che la Commissione del Senato USA sull’Intelligence si sta preparando a lanciare un’investigazione sui programmi di detenzione e di investigazione della CIA durante l’amministrazione Bush.
Si vogliono acquisire informazioni sulle motivazioni e sulle origini di tali programmi e verificare come sono stati applicati. L’investigazione dovrebbe estendersi alle condizioni di detenzione nelle prigioni segrete della CIA. Si vuole anche accertare se determinate ‘tecniche’, quali la deprivazione dal sonno e l’esposizione a temperature estreme, siano state veramente utili a raccogliere informazioni.
Si è precisato, in via ufficiosa, che l’inchiesta, i cui connotati sono ancora in discussione e da definire, non avrà in ogni caso lo scopo di accertare se singoli membri della CIA abbiano violato le leggi ma piuttosto di accertare i fatti accaduti in modo da trarne una lezione per il futuro. Nonostante ciò si sono levate immediatamente proteste negli ambienti della CIA.
L’inchiesta, una volta avviata, potrebbe durare un anno o anche più e potrebbe comprendere un gran numero di audizioni, anche aperte al pubblico. Non si sa ancora se il rapporto finale potrà essere, in tutto o in parte, di pubblico dominio.
Sembra che anche la Commissione Giustizia del Senato federale voglia condurre un’inchiesta sulle operazioni antiterrorismo effettuate nell’era di George W. Bush. Tale inchiesta dovrebbe essere analoga a quella compiuta sugli eventi dell’11 settembre 2001 (inchiesta quest’ultima fortemente criticata da più parti perché poco incisiva).
E’ notorio che Barak Obama è nettamente contrario a qualsiasi approfondita indagine indipendente sull’operato della precedente amministrazione. Può darsi che l’avvio di tali inchieste senatoriali, le cui esatte caratteristiche verranno concordate alla fine di una lungo dibattito, possa rappresentare una soluzione di compromesso tra un rigoroso accertamento delle responsabilità individuali e collettive e la tacita archiviazione di gravissime violazioni dei diritti umani verificatesi in tutto il Pianeta durante gli otto anni dell’amministrazione Bush.
3) INTENSA ATTIVITÀ LEGISLATIVA SULLA PENA CAPITALE NEGLI USA
In questo periodo molte leggi riguardanti la pena di morte sono in discussione nei parlamenti degli stati USA. La maggioranza di queste leggi tendono ad abolire o restringere l’uso della pena capitale. Non è escluso che si arrivi a breve all’abolizione della pena di morte in uno o più stati, tra i 36 che ancora conservano la pena di morte nei loro ordinamenti.
Negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno si sono intensificate le iniziative parlamentari in materia di pena capitale. Prevalgono le proposte di legge di segno positivo: in otto stati (Colorado, Kansas, Maryland, Montana, Nebraska, New Hampshire, New Mexico e Texas) sono state presentate leggi per abolire la pena di morte. In Texas un disegno di legge tende ad abrogare la ‘law of parties’ (legge sulla complicità) che dà la possibilità di infliggere la pena capitale a coloro che non compiono e non intendono compiere un omicidio che venga comunque commesso da complici nel corso di un’attività criminosa.
Un momento così favorevole non si verificava dal 2001, anno in cui fiorì un grandissimo numero di leggi che tendevano ad abolire o a rendere più garantista ed equo il sistema della pena capitale. Quell’anno la tendenza positiva fu in buona parte congelata dagli attacchi terroristici dell’11 settembre (v. ad es. nn. 86, 89, “Attentati e abolizione…”)
Anche se la maggioranza delle norme che modificano la pena di morte non arriverà all’approvazione, c’è la fondata speranza che dalle iniziative in atto conseguano risultati positivi.
Almeno in Montana e New Mexico c’è una buona probabilità che si arrivi all’abolizione della pena di morte nel giro di un mese o due.
In Maryland, pur non essendoci in partenza una maggioranza parlamentare favorevole all’abolizione, il forte impegno personale del governatore Martin O'Malley, un convinto abolizionista, poterebbe portare, se non all’abolizione, quanto meno ad una forte restrizione dell’ambito di applicabilità della pena capitale.
Dobbiamo tuttavia registrare alcune iniziative di segno contrario: in Alaska, Georgia, Nebraska, New Hampshire, Utah e Virginia. In tali stati è cominciato l’iter di leggi che tendono a reintrodurre od espandere l’uso delle pena capitale o ad accelerare le esecuzioni.
Escludendo che possa essere realmente reintrodotta la pena di morte in Alaska, la proposta di legge più preoccupante riguarda lo stato della Georgia in cui si vorrebbe consentire l’inflizione di sentenze capitali anche in mancanza dell’unanimità nella giuria.
In Virginia, pure essendo scontata l’estensione della pena di morte agli assassini di alcune categorie di pubblici ufficiali, il veto del governatore Timothy Kaine, dovrebbe, per la quarta volta consecutiva, rendere vano il tentativo di eliminare al ‘triggerman rule’ cioè la legge che limita l’applicabilità della pena capitale a coloro che compiono materialmente un omicidio.
In un momento di crisi economica, in molti stati si è citato l’elevato costo dell’iter giudiziario nei casi capitali come un motivo per abolire la massima sanzione.
Tale argomento costituisce un escamotage per i conservatori che si sentono in dovere di sostenere la pena di morte in via di principio ma che cominciano a vergognarsi del proprio atteggiamento. Ciò avviene negli stati - con pochissime esecuzioni e pochissimi condannati a morte - che pensano seriamente all’abolizione. Ma, paradossalmente, questi stati, in cui avvengono raramente processi capitali, non risparmierebbero molto con l’abolizione.
Un grande risparmio lo realizzerebbero invece gli stati in cui si svolgono molti processi capitali, quali il Texas e la California, che non si sognano di abolirla. Questi stati – come osserva il professore di legge Douglas Berman - preferiscono di gran lunga perdere posti di lavoro nelle aziende che inquilini nei bracci della morte!
4) CRONACA STRAORDINARIA DI UN’ORDINARIA ESECUZIONE
Il reportage scritto da Kate Howard sull’esecuzione di Steve Henley in Tennessee presenta accenti di umanità che lo distinguono dalle cronache del genere che leggiamo sui giornali americani in media una volta alla settimana. Riportiamo i passi salienti di tale reportage perché riteniamo che la Howard ci aiuti, meglio degli altri cronisti, a capire che cos’è la pena di morte nella sua tragica routine.
Stamattina sono rimasta a guardare mentre le sostanze letali scendevano nelle vene di un uomo.
Steve Henley era un omicida, o almeno questo fu scritto nella sentenza della corte che lo condannò per aver sparato ad una coppia di anziani agricoltori e aver bruciato la loro casa insieme con i loro corpi. Ha vissuto sotto una sentenza di morte per 23 anni.
“Sono innocente”
E’ stata l’ultima cosa che ha detto prima che il direttore del carcere ordinasse “Proceed” (procediamo) e lo spedisse a morire con due sole potenti sillabe.
Avevo passato le ore precedenti in una varietà di posti: ad una veglia di preghiera per Steve […]. Sono rimasta al freddo con una manciata di dimostranti […] Sono stata nella tenda ben riscaldata per la stampa dove i reporter mi davano pietose occhiate sapendo che ero una testimone dell’esecuzione […]
Ho passato un’ora, un’ora estremamente difficile e imbarazzante, trascinandomi con la famiglia di Steve da una stanza del tutto spoglia ad un’altra mentre loro facevano il conto alla rovescia. Il direttore del carcere di massima sicurezza di Riverbend ci aveva condotto nella stanza personalmente avvertendoci che non erano consentite interviste in quelle circostanze. C’erano sei intrusi nel gruppo in quei momenti sacrali: testimoni dei media ai quali era stato detto di rimanere in silenzio.
Ma abbiamo ascoltato mentre loro parlavano dell’automobile del padre, una veloce Chevelle che fu venduta; un’auto per la quale il figlio Greg darebbe qualsiasi cosa, pur di poterla guidare di nuovo […] Loro parlavano della sua innocenza. Di come non potevano capacitarsi che lo stato stesse per uccidere un uomo buono, non colpevole. Noi scribacchiavamo il più silenziosamente possibile con le matite sui block notes che ci erano stati dati, cercando di fissare i momenti in cui i familiari di Steve chinavano il capo, si tenevano per mano e pregavano un’ultima volta per lui.
La consigliera spirituale di Steve, una convinta abolizionista, diceva di non poter credere che ciò potesse realmente accadere, dopo tutti questi anni. Il figlio Greg, affermando di non saperla leggere molto bene, ripeteva in continuazione per impararla a memoria la dichiarazione che aveva deciso di rilasciare alla stampa. “Perdono lo stato del Tennessee che uccide il mio papà. Perdono lo stato del Tennessee che uccide il mio amorevole papà, e voglio che sappiate che è un uomo innocente”.
[…] La guardia con la faccia di pietra che stava sulla porta ci fece cenno che era giunto il momento. Passammo in fila indiana attraverso la sala delle visite – in un angolo della sala c’era un castello per giocare, alcune bambole e altri giochi – per entrare in una piccola stanza spoglia. Davanti ad una finestra, file di sedie scricchiolanti. Le tende alla finestra erano abbassate. Al di là c’era Steve, o Henley per quelli che stavano seduti dietro.
Rimanemmo in attesa per 12 minuti udendo i rumori che venivano fatti durante la preparazione dell’iniezione letale. Il microfono venne acceso. Greg, che si stava dondolando avanti e indietro, si bloccò. La figlia di Steve chiese un secchio.
Le tende vennero sollevate, Henley fu legato al lettino. Un microfono scese dal soffitto per consentirgli di fare l’ultima dichiarazione. Egli alzò la testa e la girò per vedere i suoi familiari, e tirò fuori la lingua. Con le mani legate, atteggiò le labbra a lanciare un bacio. Fece la sua dichiarazione. Disse di essere addolorato per ciò che Fred ed Edna avevano passato, ma che lui non era stato la causa di tutto ciò. Sperava che il rituale in atto desse pace a loro e alla loro famiglia, anche se non riteneva che la morte potesse portare null’altro, eccetto il dolore. Disse di essere innocente.
La famiglia di Steve cominciò a singhiozzare. In pedi davanti alla finestra, gridavano verso di lui. Lui disse loro di smettere di piangere, chiamandoli un branco commovente. Disse loro – forse rivolgendosi in particolare alla consigliera spirituale – di non mollare.
“Sento che sta cominciando”, gridò a gran voce dalla camera della morte. […]
Nella stanza dei testimoni regnava il caos. Strillavano e piangevano. La figlia di Steve vomitò. […]
Mi morsi le labbra e continuai a scrivere furiosamente, ben spendo che le mie righe non avrebbero mai potuto corrispondere ai miei ricordi o descrivere fedelmente ciò che stava accadendo. […]
La sorella di Henley si girò, guardò me e gli altri dritto in faccia. “Non una lacrima negli occhi di quelli che stanno seduti qui dietro? – disse senza rivolgersi a nessuno in particolare - una vita umana non significa niente per voi? Siete come un branco di cani.” […]
Sono rimasta sempre coinvolta emotivamente nel mio lavoro e sempre, durante una buona intervista, mi sono ritrovata a condividere le emozioni del soggetto che intervistavo. Sarebbe una bugia dire che non mi sono mai asciugata una lacrima durante le mie interviste. […]
In quelle occasioni non avevo mai assistito all’avvenimento. Ero arrivata immediatamente dopo sentendo le lacrime salire calde mentre ascoltavo il racconto delle sofferenze che erano state disseminate.
Questa mattina ho assistito al fatto mentre accadeva, una rarità per qualsiasi reporter specializzatosi a scrivere sui crimini.
Ed oggi, chissà perché, le lacrime hanno aspettato che io ritornassi a casa.
(Traduzione libera di alcuni passi dall’articolo di Kate Howard su “The Tennesseean” dell’8 febbraio)
5) CLEMENZA IN OHIO PER NON ADDOLORARE LA FAMIGLIA DELLA VITTIMA
Con un provvedimento molto raro, il 12 febbraio il Governatore dell’Ohio ha concesso la grazia a Jeffrey Hill, un condannato a morte che doveva essere ucciso il 3 marzo. A pesare sul piatto della bilancia a favore di Jeffrey è stata soprattutto la richiesta unanime della famiglia della sua vittima, che è anche la sua famiglia, di risparmiarlo. I sostenitori della pena di morte dovrebbero rendersi conto che ogni esecuzione arreca un tremendo dolore ad una famiglia innocente: quella del condannato.
Jeffrey Hill, imbottito di droga, perdendo il lume della ragione, uccise a coltellate la madre Emma, alla quale peraltro voleva molto bene, il 23 marzo del 1991 a Cincinnati in Ohio. Lo sventurato Hill fu condannato a morte nel 1992 e sarebbe stato ucciso il 3 marzo se il lavoro dei suoi avvocati e dei suoi sostenitori, l’impegno di Amnesty International e soprattutto la dedizione di suoi familiari, che sono anche i familiari della sua vittima, non avessero indotto la Commissione per le Grazie e il Governatore di uno stato molto attaccato alla pena di morte ad optare per un rarissimo provvedimento di clemenza: dal 1999 in Ohio sono state fatte 28 esecuzioni e concesse solo due grazie prima d’ora.
La Commissione per le Grazie è stata impressionata da quella che ha chiamato “una pressante e unanime opinione” della famiglia della vittima e, nonostante la resistenza adamantina dell’accusa che voleva morto il condannato a tutti i costi, ha raccomandato all’unanimità la grazia al Governatore Ted Strickland: “Hanno sofferto una tremenda perdita, e l’esecuzione aggiungerebbe altra sofferenza per loro.”
La Commissione per le Grazie ha raccomandato clemenza per Jeffrey Hill il 6 febbraio e il giorno 12 il Governatore Ted Strickland ha accolto tale raccomandazione. Strickland ha rilasciato contestualmente una dichiarazione in cui si legge:
“Il 6 febbraio la Commissione per le grazie dell’Ohio ha raccomandato all’unanimità di commutare la sentenza di morte del sig. Hill in una sentenza variabile dai 25 anni al carcere a vita. La Commissione ha citato cinque motivi alla base della sua raccomandazione: il punto di vista della famiglia della vittima, la mancanza di un’adeguata difesa legale durante al fase processuale per l’inflizione della pena, il rimorso dimostrato dal sig. Hill per le proprie azioni, la mancanza di proporzionalità della sentenza di morte in questo caso, in paragone con altri casi di omicidio, e le opinioni di due giudici della Corte Suprema dell’Ohio che hanno rivisto il caso in appello. […]
“Per arrivare alla mia determinazione sulla petizione di clemenza del sig. Hill il mio staff ed io abbiamo esaminato […] [tutti i documenti e tutti gli argomenti pro e contro la concessione della grazia].
“Basandomi su tale revisione, concordo con il ragionamento e la raccomandazione fatta dalla Commissione per le Grazie dell’Ohio e, pertanto, decido di commutare la sentenza del sig. Hill in una condanna che va da 25 anni al carcere a vita.”
In seguito al provvedimento del governatore Strickland, Jeffrey Hill dunque scampa l’iniezione letale e potrà essere liberato sulla parola dopo aver scontato 25 anni di carcere, nel 2017.
Il fratello della vittima, Vernon Hill ha dichiarato: “Le preghiere della nostra famiglia sono state finalmente esaudite, e siamo molto grati al Governatore Strickland, alla Commissione per le Grazie e a tutti i sostenitori di Jeffrey per avergli dato una seconda possibilità di vita. L’iniziativa del Governatore di oggi non solo rispetta i nostri voleri ma anche onora la memoria della mia amata sorella, madre di Jeffrey, Emma Dee Hill, che credeva nella forza della redenzione e nel valore di ciascuna vita.”
Certamente, a salvare la vita di Jeffrey Hill ha contribuito soprattutto il fatto che non si volesse dare un ulteriore dolore alla sua famiglia, una famiglia innocente.
Sarebbe il caso che i sostenitori della pena di morte si rendessero conto che ogni esecuzione capitale arreca un tremendo dolore ad una famiglia innocente: quella del condannato.
6) IL LUNGO VIAGGIO DI PAUL HOUSE VERSO LA LIBERTÀ
Paul House, ora invalido, ha passato 22 anni nel braccio della morte del Tennessee. Il suo caso è uno di quelli in cui l’accusa non vuole mollare la presa, anche in mancanza di prove a carico. Dopo l’annullamento della condanna capitale di House decretata nel 2006, il suo avvocato si sta battendo perché il proprio cliente non venga sottoposto ad un nuovo processo, bensì definitivamente esonerato.
Paul House ha 47 anni e si muove su una sedia a rotelle perché affetto da sclerosi multipla. E’ uscito nel luglio scorso dal braccio della morte del Tennessee in cui è rimasto per 22 anni, anche dopo il 12 giugno del 2006, giorno in cui la Corte Suprema federale annullò la sua condanna a morte per lo stupro e l’uccisione di Carolyn Muncey avvenuti nel 1985.
La massima corte aveva riconosciuto, con una votazione 5 a 3, che nessuna giuria ragionevole avrebbe potuto condannarlo a morte se all’epoca del processo fossero stati disponibili i risultati dei test del DNA eseguiti successivamente (v. n. 140, “Ammissibili le prove del DNA a discarico…”).
Dunque il caso di House aveva superato lo strettissimo criterio previsto per il proscioglimento di un condannato a morte ma il meschino era rimasto ancora a lungo in carcere. Ciò perché l’accusatore Paul Phillips si era ostinato a ritenerlo colpevole chiedendo di sottoporlo ad un nuovo processo.
L’inizio del nuovo processo a carico di Paul House è stato programmato per il 1° giugno p. v. (questa volta l’accusa, bontà sua, non ha chiesto la pena di morte).
Tuttavia l’avvocato Stephen Kissinger si batte conto la ripetizione del processo sostenendo che non vi è nessuna prova a carico del proprio assistito e il 19 febbraio è ricorso alla Corte federale d’Appello del Sesto Circuito portando i risultati di nuovi test del DNA.
I test appena eseguiti dall’F. B. I. escludono che il sangue trovato sotto le unghie della vittima e la saliva trovata sui mozziconi di sigaretta rinvenuti sul luogo dell’omicidio siano di House. In precedenza test del DNA avevano attribuito tracce di sperma trovate sulla camicia da notte della signora Muncey a suo marito, mentre il DNA di un capello trovato in una mano della vittima era risultato appartenere ad una persona sconosciuta.
7) FERNANDO CI SCRIVE
Fernando E. Caro ci ha scritto alcune lettere che ci fa veramente piacere pubblicare affinché i lettori possano apprezzarle: anche se provengono dal braccio della morte della California contengono parole piene di entusiasmo, di incoraggiamento, di speranza e di aiuto per noi. Le lettere sono indirizzate a Grazia che fa da tramite fra lui e il Comitato Paul Rougeau ma interessano tutti.
Cara Grazia, spero che la mia lettera ti trovi in buona salute. Io sto bene. Il tempo qui è piovoso e questo ci fa piacere perché la California ha subito molti anni di siccità.
Desidero ringraziarti per avermi spedito una copia del bollettino del Comitato e per aver pubblicato il mio articolo.
[...]
Lo scorso 3 dicembre (il giorno del mio compleanno) sono stato spostato in un altro edificio della prigione. Qui sto molto meglio, godo di maggiore libertà anche al di fuori della mia cella, l’ambiente è più silenzioso, si avverte meno tensione tra i prigionieri e le celle sono più calde. Inoltre, posso fare la doccia tutti i giorni se lo desidero! Questa unità è molto migliore di quella in cui stavo prima. Nell’altro edificio c’è molto rumore, molta tensione tra i detenuti, e tra i detenuti e le guardie. Non è mai riscaldato a sufficienza d’inverno, possiamo fare solo tre docce alla settimana, veniamo ammanettati per andare e tornare dalla doccia, e c’è sempre un sacco di polvere in tutto l’edificio.
Come puoi immaginare, il trasferimento in quest’altro edificio ha costituito per me un regalo di compleanno! :-) Naturalmente non mi hanno portato qui perché era il mio compleanno. Si è liberata una cella, e io ero il primo della lista che doveva essere spostato.
Questa unità si chiama North Segregation. Si trova all’ultimo piano dell’edificio, chiamato North Block. Dal momento che ci troviamo in alto, il nostro cortile per fare la ricreazione è sul tetto. E’ circondato da filo spinato e grate. Da quando sono arrivato qui, ho avuto accesso al cortile un giorno sì e uno no, al mattino. Abbiamo due ore e mezzo per fare ricreazione nel cortile, e questo tempo mi basta per fare i miei esercizi. Ho sempre fatto esercizio da quando sono arrivato in carcere. Ho visto molti detenuti soccombere alle malattie e ai problemi di salute perché non hanno mai fatto esercizio fisico. Ho giurato a me stesso che questo non mi accadrà mai. E devo dire che finora sono stato sempre in salute.
Immagino che se devo vivere a lungo è meglio che abbia cura di me stesso. Si tratta solo di autodisciplina. A proposito, esattamente 27 anni fa (il 5 gennaio) arrivai nel braccio della morte.
[...]
Stando qui in cella per tanti anni, ho potuto guardare il mondo libero con occhi che hanno osservato i cambiamenti, ma con mani legate in modo tale da non potervi contribuire.
Guerre, carestie, conflitti religiosi, sofferenza e morte, tutto generato da due cause soltanto: la paura e l’avidità! Ci sarà mai pace e compassione tra gli esseri umani? Temo di no! Se restassero sulla terra solo due persone, ognuna cercherebbe ancora di fregare l’altra.
Ma ci sono sempre barlumi di speranza, sempre! Ho visto molti uomini, qui, condannati a morte, che hanno perso tutto, andare avanti con determinazione. Una determinazione a volte un po’ sottomessa, ma una determinazione nutrita dalla speranza.
Qual è la forza che alimenta la speranza di un individuo? La forza capace di generare cambiamenti nella nostra vita? Quella forza che ci impedisce di arrenderci e ci permette, grazie allo sforzo di trasformare l’oscurità che ci circonda, di intravedere quel raggio di luce alla fine del tunnel?
E’ vero, ci sono molte sfide che dobbiamo affrontare in questo mondo. Anche in prigione, un uomo deve sempre vigilare per sopravvivere. E, da quegli esseri umani che siamo, proviamo paura a sperare troppo! Quando la speranza aumenta, la limitiamo inconsciamente per proteggerci dalla delusione.
Arrendersi alla disperazione equivale a sdraiarsi e lasciarsi morire. Non importa chi sei, o dove sei, troverai sempre qualcuno che ti porgerà una mano o che ti ascolterà con calma.
Nella speranza, rinascono spirito ed energia. Se un condannato a morte può sorridere pur guardando la morte negli occhi, a maggior ragione certamente allora tutti voi nel mondo libero potete iniziare ogni giorno con un sorriso!
Non dimenticatevi mai di sognare!
Vi voglio bene
Fernando
8) SPARITI I BOIA DELLA POLITKOVSKAYA NELLA NOTTE DEI DIRITTI UMANI
Il fatto che il 19 febbraio sia finito senza alcuna condanna il processo contro i sospetti assassini della giornalista e attivista per i diritti umani Anna Politkovskaya, e che non si sia ancora fatta luce sulla sua uccisione avvenuta due anni e mezzo fa, sembra dar ragione a chi dice che nella Federazione Russa non è possibile perseguire coloro che eliminano le persone scomode al regime autoritario instaurato da Vladimir Putin. Senza perdere la speranza nel trionfo della giustizia e dei diritti umani, noi ci uniamo alla richiesta di Amnesty International di continuare le indagini ‘con rinnovato vigore’.
Il 19 febbraio si è concluso a Mosca, con l’assoluzione dei quattro imputati e la liberazione di tre di essi detenuti, il processo per l’assassinio di Anna Stepanovna Politkovskaya avvenuto il 7 ottobre 2006 (1). Il processo era cominciato nell’agosto del 2007 e aveva coinvolto una dozzina di sospetti (v. n. 153). Ci si augura che non finisca così una vicenda emblematica, che ha suscitato l’indignazione internazionale e costretto l’allora presidente russo Vladimir Putin a dichiarare obtorto collo l’impegno del governo di fare piena luce sull’accaduto.
Sergei M. Sokolov, vice direttore della Novaya Gazeta, il giornale per cui lavorava la Politkovskaya, ha attribuito l’esito frustrante del processo alla “resistenza di tutto il sistema” che si rifiuta di mettere sotto processo autorità e membri delle forze speciali. “Ci sono state due sentenze oggi - ha dichiarato Sokolov – una sul piano giuridico che è stata il proscioglimento degli imputati. Ma anche un verdetto di colpevolezza contro il sistema corrotto che vige qui.”
“Le indagini sull’omicidio della giornalista e attivista per i diritti umani Anna Politkovskaya devono continuare con rinnovato vigore”, si legge in una dichiarazione rilasciata a caldo da Amnesty International. “Sollecitiamo le autorità russe a non fermarsi qui ma a continuare le indagini sull’assassinio e a portare di fronte alla giustizia tutti coloro che sono coinvolti, compresi l’esecutore materiale e i mandanti,” ha dichiarato Nicolaa Duckworth, direttrice del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty International.
L’organizzazione per i diritti umani, che aveva monitorato attentamente il processo, ha ritenuto giusta la sentenza dal momento che le prove portate contro gli imputati, figure di secondo piano nell’asserito complotto omicida, non erano sufficienti per dimostrarne la colpevolezza.
Se fosse finito tutto qui avrebbero ragione i pessimisti e i disfattisti, secondo i quali mai nella Federazione Russa verrà punito chi uccide persone scomode al sistema di potere economico e politico vigente.
Ma l’accusa ha preannunciato appello.
E il giudice presidente Yevgeni Zubov il giorno seguente la conclusione del processo ha riaperto il caso chiedendo alla procura di fare ulteriori indagini e mettendo a disposizione le informazioni agli atti della corte.
Ci auguriamo che l’attenzione nazionale e internazionale sul caso di Anna Politkovskaya si mantenga così alta da esercitare la necessaria pressione affinché sia fatta infine giustizia.
Certo le condizioni al contorno non sono favorevoli. A partire dal 2000 moltissimi giornalisti in Russia sono stai minacciati o intimiditi, ben 16 di loro sono stati uccisi a cagione del proprio lavoro. L’impunità nei riguardi degli assassini è stata pressoché assoluta: in un solo caso si è arrivati ad una condanna, mai sono stati individuati i mandanti degli omicidi.
Abbiamo parlato più volte della situazione che incombe nella Federazione Russa, una vera e propria notte dei diritti umani. Ricordiamo in particolare gli articoli sui casi dell’ex spia Alexander V. Litvinenko, che fu uccisa a Londra nel novembre del 2006 con una sostanza radioattiva (v. n. 144), e di Stanislav Markelov, avvocato e attivista per i diritti umani ucciso a Mosca il 19 gennaio scorso (v. n. 166). Sia Litvinenko che Markelov erano coinvolti nella vicenda della Politkovskaya. Nel seguente articolo riportiamo la storia di un giovane ceceno che è stato assassinato in Austria dopo aver denunciato le violazioni dei diritti umani che avvengono nel suo paese.
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(1) I detenuti liberati sono i fratelli Ibragim e Dzhabrail Makhmudov, e Sergei Khadzhikurbanov; è stato assolto anche il colonnello Pavel A. Ryaguzov accusato di complicità in attività criminali con gli assassini ma non di partecipazione nell’omicidio della Politkovskaya.
9) L’ODISSEA DEL CECENO ISRAILOV, UCCISO A VIENNA DA UN COMMANDO
Il giovane rifugiato ceceno Umar S. Israilov è stato freddato da un commando in pieno giorno in una strada di Vienna il 13 gennaio. Aveva denunciato le orrende violazioni dei diritti umani, di cui era stato testimone, compiute da Ramzan Kadyrov, attuale presidente della Cecenia.
Un lungo puntiglioso articolo di C. J. Chivers sul New York Times del 1° febbraio narra la vicenda allucinate del ceceno Umar S. Israilov, ex ribelle separatista, costretto a diventare una delle guardie del corpo di Ramzan A. Kadyrov, un despota che è ora presidente della Cecenia. Israilov dopo aver servito per 10 mesi nella polizia cecena, alla fine del 2004 ha disertato ed è fuggito all’estero, stabilendosi infine in Austria. Dopo aver presentato una serie di denunce ben circostanziate sulle violazioni dei diritti umani da parte del regime ceceno, è stato ucciso da un commando in una strada di Vienna, in pieno giorno, il 13 gennaio.
La breve vita di Umar Israilov è un concentrato di avventure e di sofferenze incredibili. Umar perse la madre all’età di 13 anni: la donna fu disintegrata da un colpo di artiglieria sparato dai Russi. Chiese allora di entrare nella milizia separatista ma fu respinto a causa della sua giovanissima età; riuscì ad arruolarsi quattro anni dopo. Nel 2003, quando aveva 22 anni, fu arrestato dalle milizie filo russe. Fu torturato per tre mesi assistendo ad episodi agghiaccianti. Infine Ramzan Kadyrov – noto per essere stravagante e temerario - gli consentì di scegliere tra la morte e l’arruolamento tra le proprie guardie del corpo. Nel novembre del 2004, suo padre lo convinse a disertare per non rischiare di diventare un carnefice dei suoi ex compagni di lotta. Con documenti falsi riuscì a passare in Bielorussia assieme alla moglie e di qui in Polonia, rifugiandosi infine in Austria. Quando è stato ucciso, all’inizio di quest’anno, aveva compiuto 27 anni, aveva già tre figli e sua moglie era incinta del quarto.
Nel 2006 e nel 2007 in una serie di ricorsi legali, Israilov – divenuto un collaboratore del New York Times – aveva denunciato, insieme a suo padre, alla procura russa e alla Corte Europea dei Diritti Umani i brutali delitti e la sadica crudeltà di Ramzan Kadyrov, pupillo e fedele alleato di Vladimir Putin. Si tratta delle uniche denunce formali di cui si sappia avanzate contro l’attuale dittatore ceceno.
Gli Israilov avevano denunciato tra l’altro l’esecuzione sommaria di uomini detenuti illegalmente. Uno dei ‘giustiziati’ prima di essere ucciso fu colpito da Kadyrov e da Adam Delimkhanov, ora membro del parlamento russo. Un altro prigioniero fu sodomizzato col manico di una pala da un alto ufficiale della polizia e poi ucciso su ordine di Kadyrov. L’attuale presidente ceceno avrebbe stilato una lista di circa 300 persone da eliminare tramite esecuzioni extragiudiziali.
Il giovane Israilov ha affermato che egli stesso insieme ad altri fu torturato a lungo da Kadyrov, già allora molto potente anche se non ancora presidente della Cecenia, che si divertiva a dare delle scariche elettriche ai prigionieri e a sparargli vicino ai piedi.
Kadyrov e Delimkhanov hanno rifiutato di essere intervistati dal New York Times dopo l’uccisione di Israilov. Un portavoce del presidente ceceno ha quindi contrattaccato denunciando una “campagna potente e su larga scala” concepita da ‘ideologi del terrorismo’ tesa a screditare il presidente e il governo della Cecenia. Sta di fatto che il giornale newyorchese ha potuto sottoporre a diversi riscontri le denunce di Umar S. Israilov, nell’arco di parecchi mesi di collaborazione, fin dall’anno scorso.
E’ noto che la guerriglia cecena si svolge ad un livello di totale brutalità, senza suscitare le dovute reazioni tra i potenti della Terra.
I ribelli non si fanno scrupolo di uccidere chiunque, compresi i bambini.
Organizzazioni per i diritti umani e coraggiosi giornalisti indipendenti hanno denunciato rapimenti, detenzioni illegali, sparizioni, punizioni collettive, esecuzioni extragiudiziali e il sistematico uso della tortura da parte delle autorità russe e cecene.
Tuttavia le denunce di Israilov avevano una caratteristica unica, quella di provenire da una persona che si è trovata ben addentro all’apparato ceceno.
10) PARTECIPIAMO AL FINANZIAMENTO DI UN OTTIMO PROGETTO IN ZAMBIA!
Invitiamo caldamente i lettori a contribuire finanziariamente ad un prezioso progetto di ricerca sulla pena di morte nello Zambia preparato da Charles Mulenga, responsabile di Amnesty International nel Paese e attivista di diverse organizzazioni che tutelano i diritti umani in Zambia.
Conoscere a fondo il sistema della pena capitale è una condizione preliminare necessaria per un’efficace difesa legale dei condannati a morte e, in generale, per esercitare un’incisiva pressione abolizionista. Le organizzazioni per i diritti umani sono fortemente impegnate perché vengano rimossi i segreti che circondano l’applicazione della pena capitale nella maggior parte dei paesi che ancora la usano. Ricordiamo, ad esempio, gli sforzi fatti negli ultimi anni per ottenere una maggiore trasparenza in Giappone e la grande petizione rivolta al governo cinese da tutte le organizzazioni abolizioniste in occasione delle Olimpiadi di Pechino in cui si chiedeva la rimozione del segreto di stato sulla pena di morte (v. n. 157).
Vi sono però situazioni in cui i dati sulla pena di morte mancano non per l’opposizione attiva del governo ma per la carenza di strumenti di reperimento, di classificazione e di registrazione delle informazioni.
E’ questo il caso dello Zambia, in cui l’impegno degli abolizionisti è particolarmente promettente a causa del positivo atteggiamento del presidente Rupiah Bwezani Banda che ha commutato di recente 53 condanne capitali e che appare deciso a prolungare a tempo indeterminato la moratoria delle esecuzioni in atto nel paese dal 1997.
Il nostro caro amico Secondo Mosso ha iniziato anni fa a corrispondere con un detenuto dello Zambia. In questi anni, tentando di aiutare economicamente anche la famiglia del detenuto, ha ricevuto preziose informazioni e collaborazione proprio da Charles Mulenga, responsabile di Amnesty International nel Paese e attivista di diverse organizzazioni che tutelano i Diritti Umani in Zambia
Il Comitato Paul Rougeau in quanto tale non può seguire i singoli condannati a morte dello Zambia, dal momento che il suo mandato riguarda esclusivamente i detenuti degli Stati Uniti d’America. Ci sembra però doveroso rendere noto a tutti i nostri soci e simpatizzanti un notevole programma messo a punto dalla Action Network Advisory on Small Arms (ANASA). Di tale organizzazione, costituita il 6 Ottobre 2008, è direttore esecutivo proprio Charles Mulenga, che si è dimostrato un attivista determinato, dotato di grandi capacità e competenze. Mulenga invita tutti coloro che possono farlo a contribuire in qualche misura al finanziamento del suo Progetto di cui riportiamo qui di seguito l’obiettivo e i dati quantitativi essenziali.
Il progetto ha una durata di 3 mesi. E’ prevista una successiva fase che comprende la presentazione di richieste di grazia per i detenuti e l’avvio di campagne contro la pena di morte…
...sempre che il progetto riesca a decollare!
PROGETTO: INFORMAZIONI SUI CONDANNATI A MORTE DELLO ZAMBIA
Durata: Tre mesi a partire dalla disponibilità del finanziamento.
BUDGET necessario: 5.000 euro.
CONTATTI:
Charles Mulenga - cmulengah@yahoo.co.uk
ANASA - anasa@zamtel.zm - http://www.anasa.org.zm/
SINTESI DELLE MOTIVAZIONI DEL PROGETTO:
Non si conosce il numero esatto di condannati a morte in Zambia, perché ci sono 9 Corti Supreme, distribuite nelle varie regioni, che determinano le condanne. Tutti i condannati sono rinchiusi alla Mukobeko Maximum Security Prison di Kabwe. Si ritiene che il carcere sia sovraffollato e che all’interno di esso le condizioni di vita siano spaventose.
La maggioranza dei detenuti non conosce le procedure di appello e di richiesta di grazia a cui ha diritto.
Manca inoltre l’informazione nei confronti della popolazione riguardo alle possibilità di aiuto e difesa offerte ai sospettati di reati capitali prima di arrivare alla condanna a morte.
Lo Zambia Prisons Service è inoltre carente di un database di informazione sui singoli condannati a morte. Non si riesce a conoscere l’età, il sesso, il livello di studi, lo status sociale e il motivo della condanna a morte. Questo rende molto difficile fornire aiuto e assistenza ai condannati.
Il progetto mira a raccogliere e a strutturare le informazioni classificandole con opportuni criteri.
OBIETTIVO DEL PROGETTO:
Scopo principale del progetto è di effettuare uno studio sulla pena di morte in Zambia per raccogliere informazioni vitali sulle problematiche che riguardano i condannati a morte e creare un database che fornisca statistiche importanti sui condannati stessi.
In particolare, per ottenere lo scopo principale, occorre:
·progettare e realizzare un database con le informazioni sui condannati a morte
·creare un controllo e una mappatura dell’uso della pena di morte in Zambia
·analizzare a fondo la legislatura riguardante la pena di morte in Zambia
·analizzare a fondo i ruoli che il Comitato per le Grazie e il Comitato Nazionale per la Libertà sulla Parola hanno nella concessione della grazia ai condannati a morte
·raccogliere e catalogare i dati dei condannati a morte
·raccogliere informazioni dettagliate delle condizioni di prigionia dei condannati a morte
·esaminare le leggi dello Zambia relative ai regolamenti nei bracci della morte
·pubblicare un rapporto sulle ricerche effettuate riguardo alla pena di morte in Zambia
Vi invitiamo caldamente a CONTRIBUIRE a questo prezioso progetto.
Si può versare la propria offerta, indicando la causale, direttamente all’ANASA (le modalità di pagamento sono descritte nel sito: http://www.anasa.org.zm/ , alla voce “Donate”).
Oppure sulla POSTEPAY intestata a Secondo Mosso nº 4023 6005 5202 3600
Si può anche utilizzare il c. c. p. n. 45648003, intestato al Comitato Paul Rougeau, Viale Pubblico Passeggio 46, 29100 Piacenza (IBAN: IT31Q0760112600000045648003), specificando la causale: Progetto Mulenga - Zambia.
Per avere chiarimenti contattate Secondo Mosso: secondo.mosso@fastwebnet.it
11) NOTIZIARIO
Iran. Annuncio tranquillizzante sulla pena di morte per i minori. Negli ultimi due anni sono stati messi a morte in Iran 17 minorenni all’epoca del crimine, in violazione di due trattati internazionali sui diritti umani di cui l’Iran fa parte (v. ad es. 162, 163, Notiziario, 164, Notiziario). Per cercare di salvare l’immagine del paese è arrivata l’ennesima dichiarazione delle autorità. Il 17 marzo Ali Reza Jamshidi, portavoce del potere giudiziario iraniano, ha reso noto che è stato avviato l’iter di una legge che attenua le pene per i minorenni. Perfino le condanne inflitte ai ragazzi più grandi, di età compresa tra 15 e 18 anni, di norma non dovranno superare i cinque anni in riformatorio. Ciò anche per crimini gravi, per i quali gli adulti possono ricevere l’ergastolo o la pena capitale. La nuova legge diminuirebbe drasticamente la probabilità che i minorenni all’epoca del reato vengano condannati a morte. Se e quando verrà approvata la nuova normativa, continueranno a rischiare la pena capitale solo i giovani assassini che non riceveranno il perdono dai parenti delle vittime in cambio di denaro. Jamshidi ha annunciato ai giornalisti che i minorenni rei di omicidio non verranno condannati a morte qualora “essi non capiscano la natura del crimine commesso o qualora vi sia un dubbio sulla loro maturità o intelligenza.” Si tratta dell’ennesima dichiarazione tranquillizzante in materia (v. n. 164, Notiziario). Finora tutte le promesse di moderazione fatte delle autorità iraniane sono state disattese. Dopo il 2005, anno in cui è stata dichiarata incostituzionale negli USA, la pena di morte per i criminali che hanno meno di 18 anni è stata usata frequentemente solo in Iran dove non sono mancate esecuzioni di minorenni per reati non di sangue.
Texas. Contro la pena di morte l’ultima dichiarazione di Johnny Johnson. Il 12 febbraio è stato ‘giustiziato’ in Texas Johnny Ray Johnson che ha denunciato il sistema della pena capitale nella sua ultima confusa dichiarazione. Egli ha detto fra l’altro: la vita del condannato a morte “è esistenza senza vivere… è una vita senza senso. E’ una vita senza scopo. Non è affatto una vita”, il braccio della morte è un luogo “di negazione del perdono… terrificante... una fossa di disperazione…La cosa più terrificante è che gli Stati Uniti siano l’unico luogo, tra i paesi civilizzati del mondo libero, in cui si dice di voler in tal modo frenare gli assassini e affermare la giustizia. Domando ad ognuno di voi di levare la voce per chiedere la fine della pena di morte.” Dopo di che Johnson si è raccomandato al Signore, ha salutato parenti e amici ed ha cominciato a cantare un inno. Il suo canto è stato interrotto dall’effetto della prima delle tre iniezioni letali. Johnny Ray Johnson, nero, è stato l’ottavo detenuto messo a morte in Texas nel 2009; degli otto ‘giustiziati’, cinque erano neri, tre erano ispanici.
Usa. Preoccupante concentrazione di esecuzioni all’inizio dell’anno. Nei primi due mesi dell’anno si sono avute negli Stati Uniti d’America ben 15 esecuzioni capitali, di cui 8 in Texas. Se, per assurdo, si proseguisse per tutto il 2009 con questo ritmo si arriverebbe a 90 esecuzioni in un anno negli Usa, e a 48 in Texas. Si tratterebbe per gli Usa del numero di esecuzioni più alto dopo la reintroduzione della pena di morte, se si fa eccezione del 1999 in cui vi furono 98 esecuzioni. Per il Texas si tratterebbe di un numero ben superore al record di 40 esecuzioni registrato nel 2000. Questo surriscaldamento della macchina della morte è spiegabile almeno in parte con un recupero di alcune delle esecuzioni mancate nel periodo di sette mesi (tra 26 settembre 2007 e 6 maggio 2008) in cui vigeva una moratoria di fatto in attesa che la Corte Suprema decidesse sulla liceità costituzionale dell’iniezione letale. Sicuramente il ritmo delle esecuzioni da ora in poi diminuirà, ma il bilancio a fine anno potrebbe essere pesante.
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 28 febbraio 2009