FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 168 – Marzo 2009
SOMMARIO:
1) Convocazione dell'Assemblea ordinaria dei Soci
2) Prosecuzione del sostegno economico a Larry Swearingen
3) Andre Thomas folle da morire
4) Passo dopo passo: la pena di morte abolita nel New Mexico !
5) Resi noti memorandum sulla gestione della ‘guerra al terrore’
6) Non più ‘guerra al terrore’, cambia solo la terminologia ?
7) Il presidente del Sudan accusato di crimini conto l’umanità
8) Processo contro un esponente Khmer ad oltre 30 anni di fatti
9) Resi noti da Amnesty i dati sulla pena di morte per il 2008
10) È una benedizione avere dei figli di Fernando E. Caro
11) La storia di Dominique: una requisitoria contro la pena di morte
12) “Dalla morte alla vita” di Gabriel Gonzalez
13) Richieste di corrispondenza
1) CONVOCAZIONE DELL'ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI
L'Assemblea ordinaria dei Soci del Comitato Paul Rougeau è convocata per domenica 3 maggio 2009 alle ore 10:00. L'Assemblea si terrà in Firenze presso l’abitazione di Loredana Giannini, Via Francesco Crispi, 14. L’assemblea è aperta a simpatizzanti non soci che non avranno diritto di voto. L'ordine del giorno è il seguente:
1. Relazioni sulle attività svolte dal Comitato Paul Rougeau dopo l’Assemblea del 15 giugno 2008;
2. situazione iscritti al Comitato Paul Rougeau, gestione dei soci;
3. illustrazione ed approvazione del bilancio per il 2008;
5. ratifica di eventuali dimissioni dal Consiglio direttivo; elezione di membri del Consiglio direttivo.
Eventuale breve sospensione dei lavori dell’Assemblea per consentire una riunione del nuovo Consiglio direttivo con il rinnovo delle cariche sociali.
9. Eventuale prosieguo dell’impegno del Comitato Paul Rougeau a supporto del caso legale di Larry Swearingen condannato a morte in Texas;
10. programmazione di un eventuale tour in Italia di Dale e Susan Recinella nell’anno 2010 per una serie di conferenze;
11. redazione del Foglio di collegamento;
12. gestione del sito del Comitato;
13. discussione delle strategie abolizioniste;
14. discussione, programmazione e approvazione del prosieguo delle attività in corso; proposte di nuove attività da parte dei soci, programmazione ed approvazione delle stesse;
15. proposte rivolte ai soci che non fanno parte dello staff del Comitato di collaborare attivamente in iniziative consone alle loro rispettive possibilità ed esperienze;
16. raccolta fondi e allargamento della base associativa;
17. ricerca di adesioni ideali di personalità al Comitato Paul Rougeau;
18. varie ed eventuali.
Firmato: Giuseppe Lodoli, Presidente del Comitato Paul Rougeau
AVVERTENZE: Nel tardo pomeriggio del giorno 2 si terrà una riunione informale preparatoria dell’assemblea sempre in via Crispi, 14. La fine dei lavori è prevista per le ore 16 circa. Il luogo dell'Assemblea è raggiungibile dalla Stazione di Santa Maria Novella anche a piedi in 20’. Percorso: Stazione, Via Nazionale, P.zza Indipendenza, Via S. Caterina d’Alessandria. Arrivati all’incrocio col Viale S. Lavagnini lo si attraversa al semaforo e si prosegue lungo Via A. Poliziano che si percorre interamente, fino a sboccare in Viale Milton, in corrispondenza di un ponte sul Mugnone. Si attraversa il ponte e si giunge in Via XX Settembre; si gira a sn costeggiando il Mugnone fino ad incrociare, sulla ds, Via Crispi. Si gira dunque a ds e si percorre Via Crispi fino al n°14. Per chi preferisce l’autobus, dalla stazione le linee utili sono: 4 (direzione Poggetto, scendere in Via dello Statuto, parallela alla vicina Via Crispi ); 13 (dir. Piazzale Michelangelo, scendere in Via XX Settembre); 28 (dir. Sesto), scendere in Via dello Statuto. Tutti questi autobus si prendono alla fermata che si trova all'uscita della stazione dal lato sinistro, lato dove si trova la farmacia della stazione. Pernottamento: Coloro che vogliono pernottare a Firenze ci devono informare quanto prima della propria venuta in maniera da riservare per tempo le camere necessarie.
Per una migliore organizzazione, vi preghiamo di avvertirci in ogni caso delle vostra partecipazione anche se non intendete pernottare a Firenze.
Per tutte le informazioni organizzative e per prenotare il pernottamento a Firenze contattate subito Loredana Giannini: tel. 055 485059
2) PROSECUZIONE DEL SOSTEGNO ECONOMICO A LARRY SWEARINGEN
I fondi da noi raccolti per la difesa legale di Larry Swearingen, condannato a morte in Texas, sono risultati preziosi. Sono stati infatti utilizzati per pagare il dottor Lloyd White, un patologo forense che ha potuto confermare che Larry era già rinchiuso in carcere quando fu uccisa la giovane Melissa Trotter. La perizia ha contribuito sostanzialmente a salvare la vita di Larry la cui esecuzione era programmata per il 27 gennaio. Ora si prospetta l’opportunità di continuare a sostenere finanziariamente la difesa legale di Larry Swearingen.
In una lettera del 1° marzo, Larry Swearingen ci ringrazia per quanto abbiamo fatto per lui e ci conferma che i 3.500 dollari da noi raccolti e mandati in dicembre all’avvocato James Rytting (v. n. 165) sono stati ben spesi!
Larry infatti ci fa sapere che la somma è stata utilizzata per pagare la perizia del Dr. Lloyd White, un patologo forense che, esaminando al microscopio campioni di tessuto che furono prelevati dal corpo di Melissa Trotter, ha potuto confermare che Melissa fu uccisa certamente dopo che Larry fu incarcerato (con l’accusa di non aver pagato alcune contravvenzioni al codice della strada).
La testimonianza del dott. White, presentata il 15 gennaio, costituisce il nucleo di uno dei due argomenti su cui si è basata la Corte federale d’Appello del Quinto Circuito per sospendere, con un giorno d’anticipo, l’esecuzione di Larry fissata per il 27 gennaio e rimandare il suo caso ad una corte inferiore. L’altro argomento è la recente dichiarazione giurata della dottoressa Joye Carter che eseguì l’autopsia della ragazza uccisa all’inizio del 1999. Nella dichiarazione la Carter ha modificato la testimonianza da lei resa nel corso del processo contro Larry Swearingen svoltosi del 2000 (v. nn. 165, 166).
Nella stessa lettera Larry ci chiede di raccogliere subito altri 6.000 dollari a suo dire necessari per pagare tre esperti patologi che lavorino al suo caso. In seguito l’avvocato Rytting ci ha tranquillizzato dicendo che i fondi per pagare gli esperti erano stati nel frattempo concessi dalla corte e che piuttosto serviranno dei soldi per pagare un investigatore che la corte si è rifiutata di finanziare.
Come abbiamo cercato di spiegare nel n. 166, il compito assegnato, dalla corte che ha sospeso l’esecuzione di Larry il 25 gennaio, all’avvocato difensore James Rytting, è difficilissimo. Appare perciò quanto mai opportuno dotare l’avvocato di tutti gli strumenti necessari per operare al meglio, investigatore compreso.
Abbiamo pertanto inserito la discussione di un eventuale prosieguo del sostegno economico alla difesa di Larry Swearingen nell’ordine del giorno della nostra assemblea annuale che si svolgerà il 3 maggio a Firenze.
3) ANDRE THOMAS FOLLE DA MORIRE
Mercoledì 18 marzo la Corte Criminale d’Appello del Texas ha negato la revisione del caso di Andre Thomas. Costui nel corso degli anni di prigionia si è cavato entrambi gli occhi e li ha mangiati. La sua lampante follia non è sufficiente, secondo i giudici texani, a salvarlo dall’iniezione letale.
Nel “notiziario” del Foglio di Collegamento n. 166 abbiamo parlato del caso di Andre Thomas, un condannato a morte del Texas che in dicembre si è cavato un occhio e l’ha mangiato. Si trattava dell’unico occhio rimastogli dal momento che egli aveva commesso lo stesso folle gesto anni prima.
Andre Thomas, un Nero, era stato condannato a morte per aver ucciso in preda ad allucinazioni la sua figliastra di 13 mesi, sua moglie bianca di 20 anni (la madre della bimba) e il loro figlioletto di 4 anni. A queste tre persone, dopo averle uccise a coltellate, Andre aveva cavato il cuore. Aveva infine tentato di uccidersi infliggendosi tre coltellate al torace.
La follia di questo ragazzo, che ha appena compiuto 26 anni e all’epoca del crimine ne aveva solo 20, è evidente; nessuno al mondo al di fuori del Texas si sognerebbe di affermare che si tratta di una persona normale e sana di mente. Eppure, per la legge texana, la dimostrazione sovrabbondante della pazzia di Andre Thomas non basta a salvare il detenuto dalle mani del boia: la Corte Criminale d’Appello del Texas (TCCA) ha negato, lo scorso 18 marzo, la revisione del suo caso.
Durante il processo del 2005 la difesa sostenne che il comportamento di Thomas era conseguente alle allucinazioni cagionate dalla psicosi di cui soffriva l’imputato. L’accusatore, per ottenerne la condanna a morte, argomentò che la sua malattia mentale era causata od aggravata dall’assunzione di alcool, droghe e medicinali.
“C’erano abbondanti prove per rigettare la difesa basata sull’insanità mentale e supportare il parere della giuria che [egli] sapesse che la sua condotta era sbagliata al momento in cui lui uccise la moglie e i bambini,” ha scritto la giudice Cathy Cochran il 18 marzo respingendo l’appello dei difensori di Andre Thomas. “C’erano anche prove che egli in quel momento non sapesse che la sua condotta era sbagliata. Si trattava della quintessenza di un caso in cui spetta alla giuria di scegliere, ed è ciò che essa ha fatto.”
La Cochran ha poi precisato: “Anche se persone ragionevoli potrebbero certamente avere pareri differenti sul fatto che [Thomas] fosse sano di mente al momento in cui commise quegli omicidi e sul fatto che egli fosse in grado di affrontare il processo, tali questioni sono state appropriatamente affrontate durante il processo dalla difesa, dall’accusa, dal giudice e dalla giuria”.
No, noi non pensiamo che tra le ‘persone ragionevoli’ ce ne sia qualcuna che ritiene sano di mente Andre Thomas, come dice Cathy Cochran!
E’ significativo che nell’opinione di 14 pagine rilasciata dalla giudice Cochran non si fa alcun riferimento ad entrambe le volte in cui Thomas cavò e mangiò i suoi propri occhi. Dal momento che quando lo fece si trovava già incarcerato, questa è una riprova che la sua follia è totale e autentica, non certo prodotta da abuso di alcool e di farmaci.
Se atroce e decisamente ancora più pazza del condannato sembra la sentenza capitale per Andre Thomas, è addirittura raccapricciante leggere i 160 commenti pubblicati in un “post” allegato ad un articolo che dà notizia della decisione della TCCA pubblicato dall’Houston Chronicle il 18 marzo. Riportiamo, tra i pareri espressi, quelli più votati dai lettori del quotidiano.
“Decisamente in questo caso c’è stata proprio la punizione dell’occhio per occhio”
“Gente, è ora di preparare le siringhe. Questo animale ha bisogno di andare a incontrare il suo creatore [sottinteso: il diavolo]”
“Nonostante io cerchi quasi sempre di evitare di dare giudizi, affermo che non provo alcuna pietà per questa persona. Il mio cuore è rivolto agli amici e ai familiari delle sue vittime.”
“Preparate le vanghe, ragazzi” [per seppellirlo].
Tali commenti denotano lo spirito vendicativo, irrazionale e sadico che prevale tra i cittadini del Texas e fanno capire, insieme al parere dalla giuria e a quello della giudice Cathy Cochran, che cosa sia veramente la pena di morte nello stato che più la adopera e sostiene. (Grazia)
4) PASSO DOPO PASSO: LA PENA DI MORTE ABOLITA NEL NEW MEXICO !
Il potere della pena di morte negli Stati Uniti è stato ulteriormente eroso dall’abolizione della ‘sanzione ultimativa’ nel New Mexico. Gli stati USA che mantengono la pena di morte sono ora 35 su 50. Il coraggioso gesto del governatore Bill Richardson, che ha firmato la legge rendendola operativa il 18 marzo, può costituire un esempio per i politici di altri stati nordamericani.
Il 18 marzo, con la firma apposta dal governatore Bill Richardson, si è concluso felicemente l’iter della legge che abolisce la pena di morte nel New Mexico, facendo scendere il numero degli stati USA che mantengono la pena capitale da 36 a 35.
La pena di morte viene sostituita nel New Mexico dall’ergastolo senza possibilità di uscita sulla parola. Rimangono nel braccio della morte di questo stato due detenuti che, con tutta probabilità, riceveranno la grazia del potere esecutivo. Sarebbe infatti il colmo che venissero uccisi dopo l’abolizione.
Il governatore ha lasciato tutti nell’incertezza fino all’ultimo dichiarando che, prima di decidere se firmare il provvedimento e renderlo operativo ovvero apporre il suo veto e bocciarlo, avrebbe utilizzato interamante, per ascoltare i pareri dei concittadini e per riflettere, i tre giorni concessigli dalla costituzione dopo il ricevimento dalla legge.
Durante tutto il percorso di approvazione, la legge abolizionista ‘House Bill 285’ presentata alla Camera dei Rappresentanti nel mese di gennaio dalla valorosa parlamentare Gail Chasey, ha tenuto noi abolizionisti, sia pure speranzosi e ottimisti, col fiato sospeso. Nessuno dei numerosi passaggi in commissione e in aula era a priori del tutto scontato. Sarebbe bastata un’unica votazione contraria per rimandare ancora una volta l’abolizione sine die.
In partenza le prospettive erano buone perché le elezioni dello scorso novembre avevano aumentato di tre unità la consistenza del partito democratico al Senato. Infatti proprio al Senato era fallita per l’impegno dei Repubblicani una legge per l’abolizione presentata dalla Chasey nel 2007 già approvata dalla Camera dei Rappresentanti.
L’annuncio della firma della legge è stato trasmesso immediatamente in Europa nel pomeriggio del 18 marzo ma, a causa del diverso fuso orario, è arrivata nelle prime ore del giorno 19. Molti tra noi, collegati ad Internet in piena notte, si sono scambiati con gioia la ‘grande notizia’!
Il New Mexico è il secondo stato, oltre al New Jersey che lo ha fatto alla fine del 2007, ad abolire per legge la pena capitale dopo il 1965, anno in cui lo fecero lo Iowa e il West Virginia. Nello stato di New York lo statuto della pena di morte è stato dichiarato incostituzionale nel 2004 e il Parlamento si è rifiutato di approvare un legge per emendarlo. Altri 12 stati o non hanno mai avuto la pena di morte dalla loro costituzione, o l’hanno abolita prima del 1965 o non l’hanno riattivata dopo il 1972 quando la Corte Suprema federale, con la sentenza Furman v. Georgia, dichiarò incostituzionale la pena di morte così come veniva praticata negli USA. Dunque attualmente conservano la pena di morte, almeno sulla carta, le giurisdizioni di 35 su 50 stati USA, più le due giurisdizioni federali, civile e militare.
I 15 stati USA che non prevedono la pena capitale sono ora: Alaska, Hawaii, Iowa, Maine, Massachussetts, Michigan, Minnesota, New Jersey, New Mexico, New York, North Dakota, Rhode Island, Vermont, West Virginia, Wisconsin. A questi va aggiunto il distretto federale di Columbia.
Il governatore Richardson, personalmente favorevole alla pena di morte per i delitti più gravi, ha confessato di aver preso la decisione più difficile della sua vita politica ed ha rilasciato alla stampa una impegnativa dichiarazione per spiegare il suo gesto.
Dopo aver ricordato che oltre 130 condannati a morte statunitensi sono stati esonerati negli ultimi anni e che tra questi ci sono quattro cittadini del New Mexico, il governatore ha concluso la sua dichiarazione così:
“Da una prospettiva internazionale dei diritti umani, non c’è ragione perché gli Stati Uniti rimangano indietro al resto del mondo su tale problema. La maggioranza dei paesi che continuano a sostenere e ad usare la pena di morte sono anche i più repressivi del mondo. E’ una cosa di cui non essere fieri.
“In una società che pone il valore della vita e della libertà degli individui al di sopra di tutto, in cui la giustizia e non la vendetta è il principio guida del sistema penale, la possibilità di condannare a morte e – Dio non voglia – di giustiziare una persona innocente incombe come un anatema sulla nostra più profonda sensibilità di esseri umani. E’ per questo che io firmo la legge facendola diventare effettiva.”
Fallite le sue speranze di poter correre con successo per la presidenza degli USA e, successivamente, di avere il posto di Segretario per il Commercio nell’amministrazione Obama, negli ultimi tempi Richardson aveva fatto capire che avrebbe anche potuto far passare una legge abolizionista favorita dalla maggioranza dei parlamentari e dei cittadini del New Mexico è si è impegnato molto per sentire il polso dell’opinione pubblica.
Il Governatore nella giornata del 16 marzo ha incontrato un centinaio di persone che hanno fornito le proprie testimonianze a favore e contro l’abolizione. Il suo ufficio ha fatto infine sapere di aver ricevuto 9.413 messaggi in merito, di questi 7.169 erano favorevoli all’abolizione, 2.244 contrari.
La vice governatrice Diane Denish si è infine schierata apertamente, con un comunicato ufficiale, per l’abolizione. Per ultima è arrivata la decisone di Richardson.
Dunque l’abolizione si è verificata in una situazione completamene diversa da quella della maggioranza degli stati USA e in particolare da quella del grande stato confinante, il Texas! (1)
A onor del vero il New Mexico ha usato con estrema parsimonia la pena di morte nel corso della sua storia ed ha compiuto una sola esecuzione negli ultimi 49 anni: nel 2001 furono assunti boia texani per impartire l’iniezione letale a Terry Clark, un detenuto che aveva rinunciato agli appelli e aveva chiesto di essere ucciso.
Per alcuni questa moderazione consegue dal fatto che la cultura del New Mexico ha sempre risentito dell’influenza della Chiesa cattolica, per altri dal ricordo di una serie di spietate esecuzioni compiute nel 1847 dagli occupanti Nord Americani ai danni dei nativi che si erano ribellati contro di loro.
Le cause storiche remote e le cause politiche contingenti dell’abolizione in New Mexico possono essere varie “ma - come scrive in un editoriale del 20 marzo il Los Angeles Times - ad ogni governatore che agisce, ad ogni corte che si interroga, ad ogni condanna che viene ribaltata, diventa più facile per le autorità che saranno successivamente interpellate seguire la propria coscienza. E per ogni autorità che lo fa, la pena di morte compie un passo indietro nel panorama americano.”
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(1) V. articolo “Andre Thomas folle da morire”.
5) RESI NOTI MEMORANDUM SULLA GESTIONE DELLA ‘GUERRA AL TERRORE’
All’inizio di marzo sono stai resi di pubblico dominio un serie di memorandum redatti dai consulenti dell’amministrazione Bush che attribuivano al presidente degli Stati Uniti poteri illimitati nel corso della cosiddetta ‘guerra globale al terrore’, una guerra senza limiti di spazio e di tempo. Tale dottrina ha consentito un’ampia varietà di violazioni dei diritti umani su cui l’amministrazione Obama non intende comunque indagare.
L’amministrazione Obama ha fatto capire che mai e poi mai consentirà una inchiesta indipendente a tutto campo sulle violazioni dei diritti umani compiute sotto la precedente amministrazione nell’ambito della cosiddetta ‘guerra al terrore’ ma ha tuttavia messo a disposizione dell’opinione pubblica una serie di documenti fino ad ora riservati che permettono di comprendere meglio l’impianto concettuale da cui tali violazioni sono scaturite.
Il 3 marzo sono stati resi noti altri 9 documenti redatti dai consulenti legali dell’amministrazione Bush che insistono sulla dottrina dei poteri illimitati del Presidente in persona quale comandante in capo nella ‘guerra al terrore’. Tali memorandum sono coerenti con quelli precedentemente venuti alla luce in seguito a inchieste giornalistiche o a richieste del Congresso o delle organizzazioni per i diritti civili (v. n. 159 “La tortura…” e nn. ivi citati). Furono scritti prevalentemente tra il 2001 e il 2003 e riconobbero a George W. Bush una larghissima autonomia nel combattere un nuovo tipo di guerra in un modo nuovo.
Il presidente, secondo i memorandum, aveva libertà nell’uso della forza militare per compiere, anche in patria, arresti e detenzioni a tempo indeterminato di ‘nemici combattenti’. Poteva abrogare unilateralmente trattati internazionali.
Dai documenti ora pubblicati apprendiamo che cinque giorni prima che George W. Bush lasciasse la presidenza, il Dipartimento di Giustizia cancellò in segreto molte delle definizioni espansive dei poteri presidenziali.
Si ritiene che esistano altri documenti del genere tuttora riservati. Tra questi un memorandum del 2001 che consentirebbe al presidente lo spionaggio delle comunicazioni internazionali e domestiche senza autorizzazione del potere giudiziario e un memorandum del 2002 secondo il quale il presidente poteva autorizzare ‘tecniche di interrogazione’ che equivalgono a tortura.
Naturalmente nel delineare poteri pressoché illimitati del ‘comandante in capo’ in una ‘guerra’ illimitata nel tempo, nello spazio e nelle modalità, venivano messe in mora sine die le regole dello stato di diritto e diveniva marginale la preoccupazione per il rispetto dei diritti umani.
Jack Balkin, professore di legge nell’Università di Yale, ha chiamato questa concezione “teoria della dittatura presidenziale.” A suo avviso i memorandum “affermano che il campo di battaglia si estende ovunque. E che il presidente può fare ciò che vuole per quanto riguarda le questioni militari e i nemici.”
IL professor Balkin rileva che tali documenti furono scritti in un “periodo di panico, e il panico crea l’opportunità per i politici patriottici di abusare dei loro poteri”.
6) NON PIÙ ‘GUERRA AL TERRORE’, CAMBIA SOLO LA TERMINOLOGIA?
La decisione dell’amministrazione di Barak Obama di non usare più le locuzioni “guerra globale al terrore” e “nemico combattente”, coniate da Gorge W. Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, potrebbe essere un tentativo di cambiare le apparenze senza cambiare la sostanza. Queste operazioni lessicali di forte impatto mediatico, se palesano una sia pur minima evoluzione nella direzione giusta, rischiano di creare più che altro confusione e disorientamento.
Abbiamo rilevato, nei due numeri precedenti, come la politica in materia di diritti umani messa in atto dal nuovo presidente degli Stati Uniti Barak Obama, sia apparentemente molto diversa da quella impostata dal suo predecessore Gorge W. Bush ma in sostanza fin troppo simile.
L’ambiguità della nuova amministrazione si realizza anche a livello lessicale.
Con un’abile operazione mediatica, il 13 marzo l’amministrazione Obama ha fatto rimbalzare nei media la notizia che non verrà più usata la locuzione “nemico combattente”, cara all’amministrazione Bush, per designare i prigionieri detenuti a Guantanamo.
Tuttavia in un memorandum di 12 pagine inoltrato lo stesso giorno alla Corte federale Distrettuale di Washington che sta esaminando i ricorsi di alcuni prigionieri di Guantanamo, il Dipartimento di Giustizia sostiene che possono essere detenuti senza processo coloro che “supportano sostanzialmente” al-Qaeda e i Talebani, indipendentemente dal luogo in cui siano stati catturarti (cioè anche se non hanno mai portato un’arma da fuoco e non si sono mai avvicinati ad un campo di battaglia).
La categoria così delimitata differisce pochissimo da quella dei “nemici combattenti” definita dell’amministrazione Bush, categoria che comprendeva coloro che, semplicemente, “supportano” al-Qaeda e i Talebani. Anche perché la nuova amministrazione non ha chiarito che cosa intende per “sostanzialmente”.
Il fatto che non si utilizzi più l’etichetta “nemico combattente” ha sicuramente un effetto mediatico e può avere un significato concettuale, ma non cambia nulla nella situazione dei prigionieri nella ‘guerra globale al terrore’.
Nel documento inoltrato il 13 marzo, i legali del Dipartimento di Giustizia citano insistentemente le leggi di guerra internazionali e il principio che è lecita la cattura e la detenzione di forze nemiche fino alla fine delle ostilità. Peccato che le leggi internazionali si riferiscano allo stato di guerra tradizionale, un evento straordinario ben delimitato nello spazio e nel tempo, cosa che non accade per la ‘guerra al terrore’.
Gli avvocati di Obama sostengono che il Presidente degli Stati Uniti ha ricevuto dal Congresso l’autorità di cui necessita. L’argomento si basa sul fatto che il Congresso – con una specie di dichiarazione di guerra - ha autorizzato l’uso della forza militare immediatamente dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Essi sostengono che il presidente di conseguenza può usare la forza contro “nazioni, organizzazioni o persone” che pianificano o sostengono attacchi terroristici.
Il presidente Bush aveva rivendicato la medesima autorità creando il carcere di Guantanamo ma aveva affermato di possederla autonomamente in qualità di comandante in capo, non per mandato del Congresso. Dunque anche qui una differenziazione concettuale che non ha nessuna conseguenza pratica nella gestione della ‘guerra al terrore’.
Per la precisione, non dovremmo più usare l’espressione ‘guerra al terrore’!
Infatti il 31 marzo il Segretario di Stato Hillary Clinton, nel corso della sua visita di una settimana in Europa, ha fatto notare che la locuzione ‘guerra globale al terrore’ è ora in disuso.
Intervistata all’Aia, la signora Clinton ha dichiarato: “L’amministrazione non usa più questa frase, ritengo che questa sia una cosa che parla da sola”. Gli analisti più attenti avevano effettivamente notato il progressivo diradarsi dell’uso dell’infausta locuzione, oramai mentalmente associata alle peggiori violazioni dei diritti umani del ‘dopo 11 settembre’, però prima d’ora nessuna figura ufficiale l’aveva fatta rilevare. “Sento che non viene più usata; – ha detto Hillary Clinton – non ho dato nessuna disposizione in merito ma accade appunto che non venga più usata.”
La rinuncia alla terminologia cucita su misura sul tipo di risposta bellica agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 concepita dall’amministrazione Bush, rischia di disorientare e mettere in difficoltà i sostenitori di un tal tipo di risposta, e più ancora coloro che la criticano.
Se prima ci potevamo lamentare della tracotanza con cui gli Usa parlavano della loro ‘guerra globale al terrore’, ora ci dobbiamo lamentare del fatto che a parole tutto cambi mentre la sostanza rimane pressoché la stessa. Ed ora siamo perfino a corto di termini per riferirci senza equivoci a tale sostanza!
7) IL PRESIDENTE DEL SUDAN ACCUSATO DI CRIMINI CONTO L’UMANITÀ
All’inizio di marzo la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato di arresto nei riguardi del presidente del Sudan Omar Hassan Ahmed Bashir, accusato di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra commessi nel corso del conflitto in Darfur. Le diffuse resistenze all’ordine di arresto, e le considerazioni di opportunità politica, non devono far dimenticare che la Corte operante all’Aia dal 2002 è organo essenziale di un ordine mondiale, basato sul rispetto dei diritti umani, che incarni gli ideali su cui furono edificate le Nazioni Unite dopo la seconda guerra mondiale.
Il 4 marzo la Corte Penale Internazionale permanente (CPI) ha spiccato un mandato di arresto nei confronti del presidente del Sudan Omar Hassan Ahmed Bashir, accusato di crimini contro l’umanità e crimini di guerra nell’ambito del conflitto che si trascina dal 2003 nella regione del Darfur, tra ribelli non Arabi e il governo formato da Arabi.
Una commissione di tre giudici ha accolto in parte le richieste del procuratore Luis Moreno Ocampo (che aveva accusato il presidente del Sudan anche di genocidio) incriminando Bashir per aver “intenzionalmente diretto attacchi nei riguardi di una parte importante della popolazione del Darfur in Sudan, assassinando, sterminando, stuprando, torturando e trasferendo forzatamente un gran numero di civili, saccheggiando le loro proprietà.”
Il procedimento contro Bashir rispetta la legalità internazionale in conseguenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, anche se il Sudan non è uno stato parte del trattato di Roma del 1998 che ha istituito la Corte Penale Internazionale.
Il conflitto in Sudan ha prodotto numerosissime vittime tra la popolazione civile: persone dislocate, depredate, stuprate, ammazzate o fatte morire di stenti. Per quanto in casi del genere sia difficile quantizzare il numero delle vittime – col rischio di indebite esagerazioni – si stima che nel corso del conflitto si siano verificate decine di migliaia di stupri e di uccisioni e che siano morte di stenti circa 100 mila persone. 2 milioni e mezzo di residenti sarebbero stati cacciati e le loro case saccheggiate.
“La legge e' chiara. Il presidente al Bashir deve comparire di fronte all’CPI per difendersi dalle accuse. Se rifiuta di farlo, le autorità sudanesi devono assicurare il suo arresto e la sua traduzione alla CPI” ha dichiarato lo stesso giorno Irene Khan, Segretaria generale di Amnesty International.
Ovviamente sia Bashir che il suo governo hanno risposto picche all’ordine della CPI.
Già dopo alcuni minuti dall’annuncio della richiesta di arresto del presidente del Sudan, migliaia di sostenitori di Bashir si sono riversati nelle strade di Kartoum, la capitale sudanese, gridando slogan contro la CPI e gli Stati Uniti.
“Non verremo umiliati dalla comunità internazionale” ha dichiarato il ministro della difesa sudanese Abdel Rahim Mohammed Hussein opponendosi alla decisione della CPI. “Questo è un altro tentativo di distruggere il Sudan”.
Bashir ha rimandato al mittente le accuse affermando di essere una vittima dello scontro tra la cultura dei paesi occidentali colonizzatori e la cultura africana, e ricordando che la Corte Penale Internazionale avrebbe dovuto invece occuparsi dei responsabili delle guerre in Afghanistan e in Iraq, dei fatti di Abu Ghraib e di Guantanamo, nonché del bombardamento di Gaza.
Nel corso di una visita in Darfur fatta tre giorni dopo la richiesta della CPI, Bashir ha rincarato la dose contro gli Stati Uniti, - quasi fossero i principali responsabili del procedimento intentato contro di lui - denunciando lo schiavismo in America, il genocidio dei nativi americani, il bombardamento nucleare del Giappone, la guerra del Vietnam.
In effetti, anche se gli Stati Uniti non fanno parte della CPI – ed hanno anzi cercato in tutti i modi di boicottarla (v. ad es. nn. 99, 100) – nel confronto strategico con le grandi potenze e specialmente con la Cina essi si trovano contrapposti al Sudan e favoriscono l’attuale iniziativa del Consiglio di Sicurezza e della CPI contro il regime di Bashir.
E’ stata la già martoriata popolazione del Darfur a subire nell’immediato le più dolorose conseguenze dell’incriminazione di Bashir: a molte organizzazioni umanitarie che cercano di alleviare le sue sofferenze è stato revocato o ridotto il consenso governativo. Medici Senza Frontiere ha fatto sapere di aver ricevuto un’ordinanza di evacuazione ‘per ragioni di sicurezza’.
L’Europa e gli Stati Uniti sperano che l’ordine di arresto spiccato della CPI serva ad indebolire il regime del presidente Bashir. Tuttavia, secondo alcuni osservatori, la sua eventuale successione si presenta altamente problematica e rischiosa per i Sudanesi.
L’Unione Africana, diversi paesi africani e la Lega Araba hanno criticato l’iniziativa contro Bashir che, a loro avviso, potrebbe contribuire a destabilizzare ulteriormente la regione.
Ogni considerazione politica contingente non deve comunque diventare una critica corrosiva nei riguardi della Corte Penale Internazionale, che è l’organo giudiziario permanente - erede dei tribunali di Norimberga e di Tokio, delle corti penali internazionali ad hoc per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda, - deputato a perseguire i responsabili delle più gravi violazioni dei diritti umani.
Ricordiamo che la CPI è diventata operativa, con la sessantesima ratifica dello statuto, il 1° luglio del 2002 (v. n. 96). Oggi gli ‘stati parte’ della CPI, gli stati cioè che ne hanno firmato e ratificato lo statuto, sono 108. Tra di essi non compaiono le maggiori potenze, in particolare gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’India, che vogliono avere il più possibile mano libera nello scacchiere internazionale.
La CPI è una componente essenziale di un ordinamento internazionale, basato sul rispetto dei diritti umani e sulla fratellanza, che incarni gli ideali su cui fu fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale. Dovrebbe essere adeguatamente sostenuta e finanziata, ed aiutata a lavorare al meglio.
8) PROCESSO CONTRO UN ESPONENTE KHMER AD OLTRE 30 ANNI DI FATTI
Una corte di giustizia costituitasi nel 2003 a Phnom Penh, capitale della Cambogia, in seguito ad un trattato della Nazioni Unite, ha potuto cominciare solo quest’anno il primo processo contro un esponente dei Khmer Rossi che si resero responsabili di uno dei più atroci crimini di massa della storia tra il 1975 e il1979. Il 30 marzo sono state ascoltate alcune testimonianze a carico di Kaing Guek Eav.
Kang Kek Ieu, alias Kaing Guek Eav, fu uno dei cinque principali leader del gruppo dei Khmer Rossi che istituirono un regime totalitario in Cambogia dal 1975 al 1979 e che si resero responsabili di uno dei più atroci crimini di massa della storia. Si parla di 1,7 milioni di vittime, più di un quarto della popolazione della Cambogia di allora, persone morte ai lavori forzati, di stenti o deliberatamente uccise (v. n. 116).
Il processo contro di Kang Kek, il primo nei riguardi di un esponente dei Khmer Rossi, incriminato nel 2007 per tortura, omicidio e crimini contro l’umanità (v. n. 154) è cominciato formalmente in febbraio nella capitale Phnom Penh davanti ad un corte formata da giudici cambogiani ed internazionali.
La corte ad hoc, creata con un trattato delle Nazioni Unite nel 2003, procede con estrema lentezza e solo nei riguardi dei principali esponenti del regime Khmer. Ha sofferto per anni dell’ostruzionismo dei politici, di dissidi a livello giudiziario, di accuse di corruzione e carenze di finanziamenti. Solo nel 2007 la corte ha potuto cominciare a funzionare ed ha ordinando l’arresto di cinque persone. L’accusatore Robert Petit, un Canadese, ha tentato invano di allargare un po’ la rosa degli inquisiti: è stato bloccato dalla collega cambogiana Chea Leang, nipote dell’attuale Primo ministro. Molti posti importanti nel governo della Cambogia, ora una monarchia, sono ricoperti da ex Khmer Rossi e un allargamento delle incriminazioni potrebbe essere destabilizzante.
Kang Kek Ieu, che ha 66 anni, è registrato presso il tribunale come Kaing Geuk Eav ma negli anni Settanta era noto con il soprannome di “Duch”.
Duch dirigeva la prigione S-21 in cui sarebbero stati torturati, per poi essere uccisi in un campo poco lontano, oltre 12 mila prigionieri.
Secondo le testimonianze presentate, in un’aula affollatissima, all’inizio del dibattimento il 30 marzo, i medici che lavoravano per Duch avrebbero fatto morire lentamente circa 1000 detenuti con massicci prelievi di sangue da destinare alla cure dei membri del regime.
La testimone 69-enne Orm Chanta ha riferito che suo marito, un medico, era diventato critico nei riguardi del regime perché se la prendeva con le classi più ricche e urbanizzate e con gli intellettuali considerati un’anomalia in una nazione che doveva basarsi sul lavoro dei contadini che vivevano in campagna. Il medico fu bruciato vivo davanti a lei dopo essere stato ferito con un’arma da fuoco, accusato genericamente di essere un ‘traditore del regime”.
Van Nath, uno dei pochi sopravvissuti della prigione S-21, dice di essere stato testimone della tortura del waterboarding, dell’immersione nell’acido solforico o semplicemente dell’uso di una mazza per costringere le persone a confessare immaginari crimini contro il regime.
Ricordiamo che il capo del regime dei Khmer Rossi, Pol Pot, ha evitato l’incriminazione ed anzi è rimasto sempre a capo di un piccolo governo fino al 1998, anno in cui è morto di morte naturale nella giungla. Anche Ta Mok, capo dei militari Khmer, è morto in libertà.
In prigione e in attesa di processo sono Khieu Samphan, ex capo di stato; Ieng Sary, ex ministro degli Esteri, sua moglie Ieng Thirith, anche lei un ex ministro, e Nuon Chea, ideologo del movimento Khmer. Come Keng, costoro rischiano tutti l’ergastolo.
A differenza degli altri esponenti del regime che non hanno mai ammesso le loro colpe, Kang Kek, convertitosi al cristianesimo ad opera di missionari protestanti nel 1996, ha riconosciuto i suoi crimini e chiesto perdono. Ci si attende che il detenuto faccia un’ampia confessione che verrà usata nel corso del processo come prova a carico. Affermerà anche di aver eseguito ordini superiori e che se non lo avesse fatto sarebbe stato ucciso.
9) RESI NOTI DA AMNESTY I DATI SULLA PENA DI MORTE PER IL 2008
Amnesty International ha reso noti i dati sull’uso della pena di morte nel 2008. Apprendiamo che l’anno scorso si sono avute almeno 2.390 esecuzioni in 25 paesi. Il 95 % delle esecuzioni si è verificato in 6 paesi: Cina, Iran, Arabia Saudita, USA, Pakistan e Iraq. Il numero più alto di esecuzioni si è verificato in Cina. Rispetto al numero degli abitanti, l’Iran è il paese con il più alto tasso di esecuzioni.
Il 23 marzo Amnesty International ha reso noti i dati sulla pena di morte per l’anno 2008. Quasi tutti i dati sono approssimati per difetto, dal momento che vengono riportate solo le condanne a morte e le esecuzioni accertate.
Dei 59 paesi che ancora conservano la pena di morte, 25 hanno compiuto almeno una esecuzione. Le esecuzioni registrate da Amnesty sono in tutto 2.390, mentre le condanne a morte note all’organizzazione sono 8.864 in 52 paesi. Nel 2007 si ebbero almeno 1.252 esecuzioni in 24 paesi e 3.347 condanne a morte in 51 paesi.
Siccome la gran parte delle esecuzioni rimane segreta, di anno in anno si manifestano grandi fluttuazioni nei dati sulle esecuzioni e sulle sentenze capitali accertate. Le cifre di cui sopra, pur preoccupanti, non sono sufficienti a dimostrare una reale tendenza all’aumento dell’uso della pena capitale.
Come sempre accade, la grande maggioranza delle esecuzioni si è avuta in un piccolo numero di paesi. In sei paesi si è registrato il 95% delle esecuzioni note. Si tratta della Cina con almeno 1.718 esecuzioni, dell’Iran con almeno 346 (di cui 8 di minorenni all’epoca del reato), dell’Arabia Saudita con almeno 102, degli Usa con 37 (*), del Pakistan con almeno 36 e dell’Iraq con almeno 34.
Amnesty fa notare che la grande maggioranza delle esecuzioni avviene in Asia, con la Cina che compie più esecuzioni di tutto il resto del mondo. In Europa un solo paese, la Bielorussia, continua ad usare la pena di morte (4 esecuzioni nel 2008). Anche nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord si ha un alto numero di esecuzioni.
Il più alto numero di esecuzioni in relazione alla popolazione residente si registra in Iran, paese che mette a morte minorenni all’epoca del crimine e che usa ancora il metodo della lapidazione.
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(*) I dati riguardanti gli Stati Uniti d’America sono riportati in dettaglio nel n. 166
10) È UNA BENEDIZIONE AVERE DEI FIGLI di Fernando E. Caro
La vita nel braccio della morte è una tortura, anche per la separazione fisica e psicologica dei detenuti dai familiari. Infatti mogli e figli molte volte non reggono la vergogna e lo stress di avere un proprio congiunto condannato alla pena capitale e si allontano. Fernando, il nostro corrispondente dal braccio della morte di San Quentin in California, ci parla, attraverso Grazia, della propria tristissima esperienza personale. Quando fu arrestato aveva tre bambini piccoli, ora i figli sono adulti e lontani.
Cara Grazia, spero che tu e la tua famiglia stiate bene. E’ una benedizione avere una famiglia, specialmente dei figli. I loro volti, i loro sorrisi, la loro innocenza, danno ad un genitore un senso di orgoglio, di importanza e di responsabilità.
Io ho tre figli, due maschi e una femmina. Adesso sono adulti. Avevano cinque anni (uno dei maschietti), quattro anni (la femminuccia) e tre anni (l’altro maschietto) quando fui arrestato nell’agosto del 1980. La perdita della libertà e del contatto con i miei bambini furono per me devastanti. Mia moglie ed io avevamo divorziato nel 1979, ma avevo il permesso di prendere i bambini nei fine settimana e di trascorrere splendidi momenti con loro.
Tutto ciò finì bruscamente nell’agosto del 1980. Non potei più rivedere i miei tre figli fino a giugno del 1982, qui a San Quentin. La mia ex-moglie me li portò una volta. La visita durò soltanto due ore. Provai un grande dolore nel mio animo, perché essi vedevano il loro papà qui dentro, e perché non potevo tornare a casa con loro.
La volta successiva che vennero a farmi visita fu nel settembre del 1982. Anche quella volta la visita durò solo due ore.
Dopo di allora, non ne rividi più nessuno fino all’estate del 1993. In quell’anno il più grande dei miei figli, Daniel, venne a trovarmi con sua zia. Aveva quindici anni. Mia figlia Isabel venne a trovarmi un anno dopo. Aveva quindici anni. Poi, nel 1998, venne a trovarmi il mio figlio più giovane, Jesus. Aveva diciotto anni.
Quella fu l’ultima volta in cui vidi, ricevendone notizie, i miei figli maschi. Mia figlia venne a trovarmi nel luglio del 2008, perché potessi conoscere il suo bimbo di tre anni, il mio nipotino Jesse. Da quella volta, ho ricevuto solo una lettera da mia figlia.
Mi chiedete se ho dei rimpianti? Sì, ne ho moltissimi. Ma il più grande è quello di non essere stato presente ad osservare i miei figli crescere. Poterli nutrire, fisicamente e spiritualmente, insegnare loro ciò che sapevo e aiutarli a diventare adulti forti e fiduciosi in se stessi.
Questo non è accaduto! Non ho alcun contatto con i miei figli maschi. Non mi scrivono nemmeno. Mia figlia mi scrive, molto raramente. A causa del tempo trascorso in questa prigione ho perso quel legame che si costituisce tra un padre e i suoi figli. Essi sono diventati degli estranei per me, e io sono diventato un estraneo per loro.
Potrò mai rimediare a questa tragedia? Non lo so. Se dovessi incontrarli, che cosa direi loro? Non li conosco, né conosco i loro pensieri, i loro sentimenti, e non so neppure se loro sarebbero disposti ad ascoltarmi.
I genitori fanno volentieri sacrifici per i loro figli. Questo è un fenomeno universale. Ma come può un figlio imparare ad amare e a sorridere da suo padre, se questi non può neppure vedere il suo viso riflesso in uno specchio? Nonostante tutto ciò, essi sono i miei figli, e io li amerò sempre.
Ti voglio bene Fernando
11) LA STORIA DI DOMINIQUE: UNA REQUISITORIA CONTRO LA PENA DI MORTE
Dominique Green, uno dei tanti ragazzi neri con una famiglia disfatta alle spalle, cominciò col subire abusi e finì giovanissimo negli ingranaggi della ‘giustizia’ del Texas, una giustizia approssimativa, vendicativa e crudele. L’amicizia e il grande sostegno offerto a Dominique dalle sue corrispondenti e dalla Comunità di Sant’Egidio non riuscirono ad evitargli l’iniezione letale che ricevette nel 2004, ma contribuirono alla sua maturazione umana e spirituale. Thomas Cahill, in un libro uscito in marzo, narra la storia di Dominique e da essa prende spunto per una critica impietosa di tutte le componenti del sistema penale texano che si esprime nella pena di morte.
Thomas Cahill è uno scrittore molto noto, autore di bestseller dedicati a personaggi che hanno contribuito alla civilizzazione dell’umanità. Ora ha scritto un libro sulla vicenda di Dominique Green, un ragazzo nero condannato a morte in Texas nel 1993 (1).
Nel suo libro “A SAINT ON DEATH ROW: The Story of Dominique Green”, Cahill ha parole di sdegno e di condanna per il sistema della giustizia penale del Texas nella sua totalità. Nessuna componente del sistema si salva, includendo la polizia, gli avvocati dell’accusa, gli avvocati difensori assegnati d’ufficio, i giudici, le giurie, i laboratori che effettuarono le analisi forensi, i politici, il sistema carcerario e le corti d’appello che, tutti insieme, contribuirono all’uccisione di Dominique avvenuta il 26 ottobre 2004, dopo 12 anni dal suo arresto.
Dominique era stato accusato dell’omicidio di un camionista avvenuto durante una rapina. Non vi erano prove fisiche che lo legassero al crimine e alcune prove a discarico non furono utilizzate. La condanna arrivò in seguito alla testimonianza resa dai complici della rapina (due giovani neri, che furono condannati a pene minori, e un bianco che non fu perseguito). Dominique non volle testimoniare contro i complici, per non essere considerato una “spia”, e così divenne il capro espiatorio.
Dominique quando fu arrestato, appena maggiorenne, aveva alle sue spalle una storia di abusi. Era poverissimo, figlio di una donna drogata e malata di mente. Il padre era dedito a droghe pesanti e quasi sempre assente. Subì abusi sessuali almeno un paio di volte prima di lasciare la sua casa e andare a vivere con due fratellini in una baracca, dove riuscì a sopravvivere e a mantenere se stesso e i fratelli minori spacciando droga.
In carcere il giovane fu capace di una profonda trasformazione interiore e la sua redenzione fu totale: gli capitò di leggere un libro scritto dall’arcivescovo Premio Nobel per la Pace Desmond Tutu e questo evento ispirò in lui sentimenti di generosità e motivò le sue relazioni ottime e costruttive con i compagni di prigionia.
Ricordiamo che 1997 Dominique fu adottato dalla Comunità di Sant’Egidio che tanto si batté nel tentativo di salvarlo.
I familiari del camionista ucciso non erano affatto convinti della colpevolezza di Dominique e a loro volta chiesero di usare clemenza nei suoi riguardi, ma fu tutto inutile.
Cahill afferma nel suo libro di non essere in grado di dire con certezza che Dominique fosse innocente, ma di poter affermare senza alcun dubbio che egli non ricevette un processo giusto.
“Devo ammettere – ha dichiarato Cahill in una recente intervista – che una volta ero a favore della pena di morte. Condividevo acriticamente la reazione comune. La verità era che non avevo mai pensato seriamente ad essa o studiato le questioni che la contornano. Dopo aver visitato Dominique ho cambiato opinione. E’ successo perché ho letto veramente troppe storie di condanne di persone innocenti. E suppongo che l’età matura e la saggezza che ne deriva mi abbiano dato una migliore conoscenza di quanti errori vengono fatti anche con le migliori intenzioni. E quando si aggiunge la politica ad un qualsiasi programma – la pena di morte è intrisa di politica – si può benissimo accendervi un fuoco. Sarà certamente improbabile che si prenda con calma la strada che porta verso azioni ed istituzioni umane migliori e più civili. La conoscenza di Dominique, che fu in pratica scaraventato nel braccio della morte, mi tolse ogni dubbio sul fatto che la fiducia degli Stati Uniti nella pena di morte sia ingiusta ed immorale.”
Il caso di Dominique Green ha molti aspetti in comune con quello del nostro amico Gary Graham. Gary, nero, poverissimo, con un’infanzia disastrata alle spalle, fu ammazzato inesorabilmente nella macelleria giudiziaria del Texas, dopo essere stato condannato a morte giovanissimo, sulla base di un’inconsistente testimonianza oculare, senza uno straccio di prova a carico degna di questo nome. Anche la vicenda di Gary Graham, come abbiamo ampiamente dimostrato nel libro che abbiamo scritto su di lui (2), costituisce una inequivocabile requisitoria contro il sistema di ‘giustizia’ approssimativo, crudele e vendicativo che si esprime nella pena di morte. (Grazia)
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(1) “A SAINT ON DEATH ROW - The Story of Dominique Green” di Thomas Cahill. Edito da Nan A. Talese /Doubleday, 2009 – Pagg. 160 - $25.
(2) “MUOIO ASSASSINATO QUESTA NOTTE - La storia di Gary Graham”, a cura del Comitato Paul Rougeau - Multimage – Firenze, 2004 - Pagg.170 - € 10,00. (Il libro può essere richiesto a prougeau@tiscali.it )
12) “DALLA MORTE ALLA VITA”_DI GABRIEL GONZALEZ
Abbiamo ricevuto da Rita Viola la richiesta di pubblicizzare il libro di poesie “Dalla morte alla vita” scritto da Gabriel Gonzalez nel braccio della morte del Texas. Cosa che volentieri facciamo.
Nel panorama dei libri scritti da detenuti condannati a morte vi è anche “Dalla morte alla vita”, di Gabriel Gonzalez (*). Un libro che, al pari degli altri, esprime attraverso brani poetici l’universo della disperazione e della speranza, una ritrovata fede nell’uomo, nella tolleranza e il tentativo di sprofondare in se stessi per ritrovarsi.
Gabriel è un giovane cresciuto nella dura realtà della strada che, giunto nel braccio della morte del Texas, ha ritrovato la propria umanità facendo una ricerca su se stesso.
Gabriel Gonzalez, è ora detenuto nel carcere di San Antonio in attesa di un’udienza per l’inflizione della pena (pena di morte o ergastolo) che si terrà il 4 maggio. Fino a pochi mesi fa era rinchiuso nel braccio della morte del Texas. Grazie alla sua perseveranza e all’aiuto della sua famiglia e dei suoi amici è riuscito ad ottenere la revisione del suo caso ma i fondi sono pochi e l’iter giudiziario che deve affrontare per salvarsi la vita è difficile e incerto.
La prefazione di Haramia KiNassor, ovvero del nostro amico Kenneth Foster, definisce le 17 poesie che compongono il libro “una conversazione” con tutta l’umanità affratellata, in un contesto che non è di “riabilitazione, bensì di estinzione”; parole che vorrebbero poter giovare ai compagni detenuti, ma che sono disperse nel vento.
Si tratta di vera poesia?
Starà a voi giudicare. Potrete farlo comprando e leggendo il libro. Sappiate che ne varrà in ogni caso la pena: i profitti dalla vendita del libro servono per sostenere Gabriel nel braccio della morte e contribuire al finanziamento della sua difesa legale.
Per ordinare “Dalla morte alla vita” scrivete un messaggio a Rita Viola, un’amica italiana di Gabriel, all’indirizzo: rviola@multipliarcese.com
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(*) Gabriel Gonzalez “Dalla morte alla vita” – Ed. Multimage – Firenze, 2008 – pagg. 88, € 15.
13) RICHIESTE DI CORRISPONDENZA (*)
Cari amici, ho ricevuto alcune richieste di corrispondenza da amici e conoscenti, quasi tutti sono condannati a morte che hanno un estremo bisogno di conoscere persone ed evadere, con la mente, dalla terribile condizione in cui vivono. Ve le comunico con la speranza che qualcuno di voi voglia iniziare un rapporto di amicizia e di scambio, che arricchisce umanamente e aiuta non solo loro, ma anche noi stessi. Vi ringrazio in anticipo, anche da parte loro, e mi auguro che possiate iniziare una bella e lunga amicizia.
Serena Mangano Hill.
Perry Taylor, che si è dato il nome musulmano Fahiym Abdul GHANIY, è stato condannato a morte in Florida nel 1989, ha pochissimi scambi con il mondo esterno. Ha 43 anni. Il suo indirizzo è:
Bro. Perry Taylor # 086160
Union Correctional Institution
7819 N.W. 228th Street
Raiford, FL 32026 USA
David Gore, condannato a morte, è detenuto dal 1981. E’ nato nel 1953. Ha voglia di parlare della condizione in cui si trova e di far conoscere che cosa succede nelle carceri della Florida. Scrivete a:
Mr. David Gore # 081008
Union Correctional Institution
7819 N. W. 228th Street
Raiford, FL 32026 USA
Khalid A. Pasha, condannato a morte, e’ entrato in carcere nel mese di giugno del 2008, è musulmano e ha 66 anni. Il suo indirizzo completo è:
Bro. Khalid A. Pasha # T58435
Florida State Prison
7819 N. W. 228th Street
Raiford, FL 32026 USA
Randall C. Maddux, non è condannato a morte,si trova in prigione in Texas da molti anni, benché abbia compiuto 37 anni qualche mese fa. Verrà liberato presumibilmente nel 2012. Gli potete scrivere al seguente indirizzo:
Mr. Randall C. Maddux # 1284846
Eastham Unit
2665 Prison Road #1
Lovelady, TX 75851 USA
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(*) Invitiamo coloro che vogliono fare per la prima volta l’esperienza di corrispondere con detenuti del braccio della morte di non farlo con superficialità, di riflettere bene prima di cominciare e di attenersi ad elementari norme di prudenza nel corso del rapporto epistolare. Tutti possono chiederci per posta o per e-mail aiuti e consigli per corrispondere al meglio (n. d. r.)
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 marzo 2009