FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 138 - Aprile 2006
SOMMARIO:
1) Convocazione dell’Assemblea ordinaria dei Soci del 4 giugno
2) L’esecuzione di Tommie, il detenuto che adorava cantare
3) Per migliori condizioni nel braccio della morte del Texas
4) L’immenso e inquietante sistema carcerario statunitense
5) La presidente svuota il braccio della morte delle Filippine
6) Moussaoui colpevole di reato capitale
7) Dopo il primo processo, Saddam processato per genocidio?
8) Udienza della Corte suprema Usa sull’iniezione letale
9) Sano da morire
10) Riconosciuto colpevole l’ex governatore dell’Illinois
11) Aiutiamo Howard Guidry condannato a morte in Texas
12) Richi Rossi, detenuto scrittore, e’ morto in Arizona
13) La premiazione di Paolo Cifariello
14) Notiziario: Afghanistan, Florida, Ohio, Usa
PARTECIPATE ALL’ASSEMBLEA DEL 4 GIUGNO!
L’anno scorso la partecipazione alla nostra Assemblea è stata particolarmente nutrita e intensa e i risultati sono stati proficui. Vorremmo che ciò avvenisse anche quest’anno e che ciascun socio e ciascun simpatizzante del Comitato si sentisse personalmente invitato ad approfittare di questa occasione di incontro, confronto, riflessione, proposte e suggerimenti. E’ importante che chi ha a cuore il “benessere” del Comitato Paul Rougeau e la sua prosecuzione negli anni futuri partecipi a questa assemblea per dare il suo contributo attivo, per una conoscenza personale reciproca, per abbracciare gli amici almeno una volta l’anno! Occorre che ognuno si renda conto che un proprio suggerimento può essere determinante per il successo del nostro lavoro. Siamo una piccola organizzazione e abbiamo bisogno dell’apporto di tutti i nostri amici. Comunicateci subito la vostra partecipazione, specie se intendete pernottare a Firenze. Segue la convocazione ufficiale a norma di Statuto. (Grazia)
1) CONVOCAZIONE DELL’ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI DEL 4 GIUGNO
L'Assemblea ordinaria dei Soci del Comitato Paul Rougeau (appresso detto semplicemente Comitato) è convocata per domenica 4 giugno 2006 alle ore 10:00. L'Assemblea si terrà in Firenze presso l'abitazione di Loredana Giannini, Via Francesco Crispi, 14. L'ordine del giorno è il seguente:
1. Relazione sulle attività svolte dopo l'Assemblea del 22 maggio 2005;
2. situazione iscritti al Comitato, gestione dei soci;
3. illustrazione ed approvazione del bilancio per il 2005;
4. eventuali dimissioni dalle cariche sociali e rinnovo del Consiglio direttivo;
5. pubblicazione in lingua originale inglese del libro su Gary Graham;
6. proposte di invito e ospitalità di Dale Recinella in autunno 2006 in alcune località italiane;
7. linee generali della prosecuzione delle attività del Comitato, strategie abolizioniste;
8. proposte rivolte ai nuovi iscritti di collaborare attivamente in iniziative consone alle loro rispettive possibilità ed esperienze;
9. adesione ideale di personalità e di organizzazioni al Comitato;
10. raccolta fondi e allargamento della base associativa;
11. eventualità per il Comitato di diventare una Onlus;
12. varie ed eventuali.
Firmato: Maria Grazia Guaschino, Presidente del Comitato Paul Rougeau
AVVERTENZE:
La fine dei lavori è prevista per le ore 17 circa.
Il luogo dell'Assemblea è raggiungibile dalla Stazione di Santa Maria Novella anche a piedi in 20’. Percorso: Stazione, Via Nazionale, P.zza Indipendenza, Via S. Caterina d'Alessandria. Arrivati all'incrocio col Viale S. Lavagnini lo si attraversa al semaforo e si prosegue lungo Via A. Poliziano che si percorre interamente, fino a sboccare in Viale Milton, in corrispondenza di un ponte sul Mugnone. Si attraversa il ponte e si giunge in Via XX Settembre; si gira a sn costeggiando il Mugnone fino ad incrociare, sulla ds, Via Crispi. Si gira dunque a ds e si percorre Via Crispi fino al n°14.
Per chi preferisce l'autobus, dalla stazione le linee utili sono: 4 (direzione Poggetto, scendere in Via dello Statuto, parallela alla vicina Via Crispi ); 13 (dir. Piazzale Michelangelo, scendere in Via XX Settembre); 28 (dir. Sesto), scendere in Via dello Statuto. Tutti questi autobus fermano vicino all'uscita della stazione dal lato sinistro uscendo, lato dove si trova la farmacia della stazione.
Pernottamento: Coloro che vogliono pernottare a Firenze ci devono informare QUANTO PRIMA della propria venuta in maniera da riservare per tempo le camere necessarie.
Per una migliore organizzazione, vi chiediamo di avvertirci in ogni caso delle vostra partecipazione anche se non intendete pernottare a Firenze.
Per tutte le informazioni organizzative e per prenotare il pernottamento a Firenze contattare subito Loredana Giannini: tel. 055 485059 – o inviate un messaggio email a prougeau@tiscali.it
2) L’ESECUZIONE DI TOMMIE, IL DETENUTO CHE ADORAVA CANTARE
Cari amici, per varie ragioni, l’esecuzione di Tommie Hughes avvenuta il 15 marzo scorso, mi ha colpito particolarmente. Conoscevo Tommie. Lo consideravo un compagno. Era un’anima vivace: possedeva grande talento nello scrivere, nel creare musica rap, nella poesia e nel canto. Adorava cantare e forse è quella l’espressione del suo animo che mi manca di più.
Il suono delle porte d’acciaio che scorrono, delle sbarre che vengono sbattute, dei detenuti che parlano, può procurare la nausea. Una bella voce che copra queste onde sonore inquinate può dare un dolce sollievo. Quella voce c’era, ma è stata spenta.
Il 13 marzo scorso ero nella cabina delle visite con i miei cari. Tommie si trovava nella cabina accanto alla mia e riceveva la visita della sua famiglia. Scambiammo qualche parola, ma non volevo distrarlo a lungo dai suoi cari. Sapevo che ogni attimo era prezioso. Osservai mentre forse 10 o 20 familiari si alternavano al citofono per parlare con Tommie. Era difficile non essere tristissimi. Quando la mia visita terminò, le guardie vennero subito a prendermi e mentre passavo davanti alla cabina in cui era Tommie, mi fermai e gli dissi che gli volevo bene. Lui disse la stessa cosa, poi fece passare due dita attraverso la griglia di metallo e io gliele strinsi tra le mie. Questo è stato il nostro addio.
Forse è per questo che la mia anima mi fa male, perché avrei voluto fermarmi e parlare con lui. Forse avrei voluto recitare una preghiera, o creare una poesia o chiedergli di cantare. Ma non ho potuto fare nulla di tutto ciò. La Macchina della Morte del Texas non si ferma per noi. Consuma tutto rapidamente. La compassione viene strappata via. L’umanità viene artigliata selvaggiamente. Possiamo tenere in vita questi uomini attraverso le loro parole e il loro spirito? Credo che noi dobbiamo loro molto.
Nel suo ultimo giorno Tommie si è rifiutato di camminare, quando lo hanno preparato per condurlo al furgone che lo avrebbe trasportato in fretta al lettino del boia. Ciò che il movimento D.R.I.V.E. ha fatto, ciò che ha fatto Tony Ford, ha commosso i detenuti. In questi ultimi quattro mesi Shannon Thomas, Marion Dudley e Tommie Hughes si sono rifiutati di camminare. Questi sono solo piccoli passi – solo iniziali granelli di sabbia che alla fine faranno una spiaggia.
A volte non riesco a scrivere perché il mio cuore mi fa male. Ho guardato questo foglio bianco per molti giorni. A volte il dolore porta al silenzio. Abbiamo bisogno di momenti di silenzio durante i quali l’animo possa rigenerarsi. In qualche luogo le canzoni di Tommie continueranno a risuonare. La sua personalità tornerà ad emergere. E’ triste come l’America condanni, nasconda, soffochi, opprima e uccida la sua gente. Mi sono proprio reso conto – attraverso la nostra protesta - di quanti condannati siano disperati. Alcuni hanno riversato la loro rabbia su di noi; non si tratta di vero odio, ma si tratta di rabbia e frustrazione verso la loro stessa incapacità di reagire. Noi stiamo incoraggiando gli uomini a riprendersi la loro vita, anche se solo per un momento. Un giorno, se continueremo a resistere, riusciremo a far vedere la pena di morte per quello che realmente è.
Nell’attesa il mio spirito desidera ardentemente la lotta, e ancora di più si strugge per avere pace. Ma la pace sembra così lontana quando le persone vengono strappate via proprio davanti a te. E’ quasi insopportabile dover contare gli omicidi, questo è un aspetto del braccio della morte. E’ una tortura che ti lacera. Se almeno quelle dolci canzoni emergessero sulle onde sonore della morte per tenerci in armonia con la vita! Non smetterò di mettermi in ascolto. Non smetterò mai. Vostro Kenneth
3) PER MIGLIORI CONDIZIONI NEL BRACCIO DELLA MORTE DEL TEXAS
Molti dei nostri lettori, rispondendo all’appello di Kenneth, si sono impegnati nella campagna per chiedere di migliorare le condizioni di detenzione nel braccio della morte del Texas, dove tutti i prigionieri, a partire dal 1999, sono sottoposti ad un perpetuo durissimo regime di segregazione.
Fino ad ora dai nostri soci e simpatizzanti ci è stato reso noto l’invio di più di 40 lettere di protesta al direttore dell’amministrazione carceraria del Texas, Doug Dretke (con copie spedite per conoscenza al Governatore del Texas e ai due maggiori quotidiani dello stato) come da noi suggerito nel precedente n. 137. Tali lettere sono state sottoscritte da oltre 300 persone.
La mobilitazione proseguirà per tutto il mese di maggio. Vi faremo conoscere il bilancio definitivo della campagna nel prossimo numero.
Naturalmente non siamo i soli a tener vivo il problema in questo momento, vari gruppi, sia dagli USA che dall’Europa, stanno parimenti esercitando pressioni sulle autorità texane.
Un vibrante iniziativa organizzata dagli abolizionisti texani si è svolta l’8 aprile a Livingston, davanti alla Corte di Contea competente, davanti alla sede del giornale locale e nei pressi della Polunsky Unit in cui si trova attualmente il braccio della morte. I manifestanti provenivano soprattutto da Houston e da Austin; un certo numero di familiari di condannati a morte si sono uniti alla manifestazione. Al suono dei clacson, con espressivi cartelli, magliette, palloncini e quant’altro gli attivisti hanno cercato di attirare l’attenzione della popolazione locale sul trattamento inumano inflitto ai condannati a morte, drasticamente peggiorato dopo un tentativo di evasione verificatosi il 26 novembre del 1998 (v. ad es. nn. 64, 68, 83).
L’interesse suscitato dai manifestanti nella gente incontrata lungo le strade è stato superiore alle aspettative ma la delegazione che si è presentata alla redazione del Polk County Enterprise, il giornale locale, è stata accolta in malo modo con la minaccia di richiedere l’intervento della polizia e di far arrestare i dimostranti. Il direttore del giornale, Alvin Holley, riguardo ai maltrattamenti subiti dai condannati ha sentenziato: “Se lo meritano!”
4) L’IMMENSO E INQUIETANTE SISTEMA CARCERARIO STATUNITENSE
Negli Stati Uniti d’America, che imprigionano oltre due milioni di persone, più di qualsiasi altro paese al mondo, il sistema penitenziale è fonte di grandi profitti per le prigioni private e più ancora per le imprese che costituiscono l’indotto del complesso carcerario. L’enorme salasso che ne consegue per i contribuenti non serve a recuperare i detenuti che vengono restituiti alla società dopo aver scontato una pena puramente afflittiva. Si segnalano molti casi di trattamenti inumani e di torture a volte mortali.
Come funziona un’industria per rendere ricchi profitti ai suoi proprietari? Con l’afflusso costante di materia prima, possibilmente a basso costo e facilmente reperibile, con la manodopera sfruttata al massimo e pagata al minimo, con lo sviluppo parallelo di altre industrie che la supportino.
Bene, esaminiamo allora un tipo molto particolare di industria che sta prosperando in questi anni nell’osservanza dei canoni sopra indicati. Stiamo parlando dell’industria carceraria americana. Non sarebbe una cosa tanto spaventosa se la materia prima non fosse costituita da esseri umani.
Diamo prima di tutto qualche cifra. Nel giugno 2004 la popolazione carceraria statunitense ha superato i 2,1 milioni di persone e aumenta di 900 unità a settimana. Negli Stati Uniti su 100.000 cittadini si hanno 690 detenuti, più di ogni altra nazione nel mondo. La Russia segue con 675 prigionieri, il Sud Africa con 400, l’Inghilterra con 125, l’Italia con 100. Si può accettare che in America il tasso di incarcerazione sia superiore a quello italiano del 600 % ? Come può esserci una criminalità tanto più grande della nostra nel Paese più sviluppato e potente?
E le cose peggiorano drasticamente per le minoranze: in America è in carcere un Nero maggiorenne ogni 20 – in alcuni stati uno ogni 10 - a fronte di un Bianco detenuto ogni 180. Degli uomini neri di età compresa tra 20 e 30 anni, più del 10% è in carcere. Pensate solo al danno economico provocato alle famiglie di colore dal venir meno delle corrispondenti risorse lavorative.
Come si trova tanta materia prima per l’industria carceraria? Basta rendere delle categorie di persone così povere e disperate da essere disposte al crimine, e il gioco è fatto. I Neri, gli Ispanici e i più poveri fra i Banchi costituiscono un’incessante fonte di materia prima per le carceri americane.
La cosiddetta guerra al terrore, con l’inasprimento delle leggi e la limitazione delle libertà civili, ha procurato un ulteriore afflusso di materia prima in questa industria, attraverso l’arresto – non sempre per brevi periodi - di un milione e mezzo di Islamici.
Se venissero poi restituite alla società persone redente e cambiate, grazie ad un’opera di assistenza sociale da parte di personale preparato adeguatamente, ci sarebbe almeno un vantaggio a fronte dell’incarcerazione di così tanta gente. Invece coloro che lasciano il carcere sono quasi sempre inaspriti e incattiviti dai maltrattamenti subiti. Questo perché il personale carcerario è mal pagato e impreparato e a volte costituito da persone ignoranti e inclini alla violenza che sfogano sui detenuti le loro frustrazioni e il loro sadismo.
Da una ricerca durata quattro mesi, effettuata nelle carceri di contea degli Stati Uniti da parte di Deborah Davies,una giornalista del Canale 4 della BBC, è emerso che i detenuti, sia uomini che donne, vengono spesso sottoposti alle stesse torture, che hanno suscitato tanto scalpore e scandalo, compiute sui prigionieri di Abu Ghraib e di Guantanamo. Come dire: gli aguzzini americani non hanno inventato niente, si sono limitati a esportare le usanze domestiche. Le prove di questi fatti sono costituite da videocassette in possesso alle direzioni carcerarie, che in alcuni casi la giornalista è riuscita a farsi consegnare vincendo comprensibili resistenze. (Sappiamo che in molti stati i regolamenti impongono che le operazioni violente compiute dagli agenti penitenziari vengano video registrate.)
Ecco alcune delle scene riprese dalle telecamere carcerarie e mostrate dalla BBC. In un carcere del Texas, le guardie prendono a calci, fanno azzannare dai cani e colpiscono con violente scosse elettriche, gruppi di uomini nudi costretti a camminare a quattro zampe sul pavimento. In un carcere dello Utah un uomo nudo e barcollante viene trascinato fuori dalla cella e legato ad uno strumento medioevale chiamato ‘sedia di contenzione’. Lo sventurato ha una lunga storia di schizofrenia alle spalle e ha compiuto una violazione disciplinare: si è rifiutato di lasciare un cuscino che teneva sulla testa. Lo vediamo ora mani e piedi incatenati. Una cinghia gli serra il torace. La testa pende in avanti. Sembra morto, ma non lo è. Sedici ore dopo verrà liberato dalla sedia. Due ore prima della morte.
Vediamo ora che cosa succede a Phoenix, in Arizona. Uno sceriffo di contea, certo Joe Arpaio che gode la fama di essere “lo sceriffo più duro d’America”, accoglie lo staff televisivo con grande cordialità, e promette di lasciar visitare il suo carcere “senza restrizioni”. Meno male! E’ terribile trovarsi in restrizioni nella prigione di Joe. Dalle registrazioni prese dal suo ufficio, si vede il trattamento riservato a un detenuto malato mentale e drogato. L’uomo viene legato alla sedia di contenzione con il capo chinato fino a toccare le ginocchia e le braccia tirate dietro la schiena. Viene lasciato in quella posizione per quindici minuti. Il prigioniero muore per asfissia. Un altro detenuto muore sulla stessa sedia, a cui era stato legato nello stesso modo, dopo essere stato picchiato e aver ricevuto 19 scosse elettriche a 50.000 volt.
La giornalista ha accertato più di 20 casi di persone decedute in questi anni sulle sedie di contenzione.
Questi sono solo alcuni episodi, scelti tra i peggiori, ma si sa che in molte carceri americane, i detenuti vengono regolarmente picchiati, colpiti con scosse elettriche, denudati, umiliati, fatti azzannare dai cani, irrorati di gas urticanti e così via. Si stima che annualmente siano diverse migliaia gli stupri ai danni dei carcerati, uomini, donne e ragazzi, per lo più ad opera di altri prigionieri ma anche delle guardie. Gli episodi violenti che coinvolgono detenuti sono dell’ordine delle decine di migliaia ogni anno.
Pur non volendo generalizzare su tutto lo sterminato universo delle carceri USA, non possiamo evitare un moto di disgustata riprovazione nonché una riflessione angosciata. Che cosa dobbiamo aspettarci dai detenuti - entrati in carcere carichi delle loro tare sociali, esclusi da programmi riabilitativi e spesso sottoposti a trattamenti estremi - una volta che recuperano la libertà? Certo non avranno imparato a vivere in un mondo civile e a rispettare il prossimo facendosi a loro volta rispettare.
Eppure, per ogni dollaro versato nelle tasse per l’educazione universitaria, ci sono 60 centesimi spesi per le carceri. E sappiamo che mantenere un detenuto costa ai contribuenti americani quasi come mantenere uno studente ad Harvard. E’ dubbio il ritorno di questa spesa per i contribuenti ma il profitto è grandissimo per la florida industria carceraria.
Se infatti sono ancora una minoranza le carceri private in crescita - che sfruttano il lavoro dei detenuti mentre risparmiano all’osso sul loro mantenimento - il grande profitto del sistema carcerario si realizza nelle industrie e nei servizi che lavorano per le prigioni statali. Ci riferiamo agli studi di progettazione architettonica e all’industria delle costruzioni, alle compagnie che preparano i pasti, alle ditte che offrono materiale sanitario e cure mediche, ai venditori di sistemi di comunicazione, di porte d’acciaio, di filo spinato, di armi convenzionali e non convenzionali, di aggressivi chimici, di uniformi di ogni tipo e di molto altro ancora. (Grazia)
5) LA PRESIDENTE SVUOTA IL BRACCIO DELLA MORTE DELLE FILIPPINE
Il 15 aprile, Sabato santo, con un gesto spettacolare, la presidente delle Filippine, Gloria Macapagal-Arroyo, ha svuotato l’enorme braccio della morte del suo paese. La presidente ha ordinato la commutazione di circa 1200 sentenze capitali, 290 delle quali già confermate in appello. Si tratta della più estesa commutazione di massa della storia. Il gesto presidenziale prelude all’abolizione della pena di morte, reintrodotta nelle Filippine nel 1993. Nel 1987, appena restaurata la democrazia, le Filippine furono il primo paese asiatico ad abolire la pena capitale.
Nonostante il fatto che gli ultimi due presidenti, Joseph Estrada e Gloria Macapagal-Arroyo, abbiano cambiato più volte la loro posizione sulla pena di morte, le Filippine sono nel pieno di un svolta storica e si avviano con tutta probabilità a stabilizzarsi su una posizione abolizionista.
Il 15 aprile la presidente Gloria Arroyo, nel discorso di Pasqua carico di riferimenti religiosi, ha annunciato la commutazione generalizzata delle 1230 condanne a morte pendenti nelle Filippine (oltre 290 di tali condanne erano già state confermate in appello). Parlamentari ed intellettuali, leader religiosi ed esponenti della cultura hanno salutato favorevolmente il gesto presidenziale. Perplessità ed opposizioni sono venuti solo da una minoranza dei gruppi che contano nel paese.
Rispondendo alle preoccupazioni delle associazioni ‘anticrimine’, il Ministro della giustizia Raul Gonzales ha dichiarato che “la presidente ha scelto una posizione politica contraria alla pena di morte, ma la legge in proposito non è stata abrogata.” Subito dopo però l’influente deputato Edcel Lagman ha preannunciato che la pena capitale sarà cancellata: “Le Filippine sono sul punto di congiungersi all’insieme delle nazioni progressiste che hanno abolito la pena di morte.”
Lagman ha detto che la pena capitale deve essere smantellata a cagione della sua crudeltà e inumanità, dell’imperfezione della giustizia umana, della disuguaglianza tra ricchi e poveri nell’accesso ai rimedi delle corti e della sua inefficacia nel dissuadere la gente dal commettere i crimini più odiosi.
Del provvedimento presidenziale si gioveranno nell’immediato 80 prigionieri che hanno esaurito l’iter degli appelli e la cui condanna capitale è stata confermata dalla Corte suprema.
Ricordiamo che la pena di morte fu abolita nelle Filippine nel 1987 con l’approvazione della Costituzione democratica dopo la caduta del dittatore Marcos. Si trattò della prima abolizione nel continente asiatico, evento di enorme significato favorito dalla presidente Corazon Aquino, coerente ed attiva abolizionista. Poi la pena capitale era stata ripristinata con un gesto demagogico nel 1993 dal successivo presidente, il generale Ramos.
Sempre osteggiata dalla potente gerarchia cattolica, la pena capitale era rimasta un corpo estraneo nella cultura del paese. Nonostante il gran numero di condanne capitali emesse a partire dal 1994, si sono registrate infatti solo sette esecuzioni in un ventennio, concentrate tra il 1999 e il 2000 sotto la presidenza di Joseph Estrada il quale, pressato dalla chiesa cattolica, impose infine una moratoria.
Gloria Arroyo, nel candidarsi alla successione di Estrada, si era dichiarata abolizionista per ricevere l’appoggio della chiesa cattolica, ma a partire dal 2001 aveva paurosamente oscillato pressata dai com-mercianti di etnia cinese tartassati dai sequestri di persona (v. nn. 90, 113, nonché 99, 116, Notiziario)
L’attuale gesto coraggioso della Arroyo costituisce la più vasta commutazione di tutti i tempi seguita da quella del presidente Yelsin che commutò nel 1999 le 716 sentenze di morte pendenti in Russia.
E’ probabile che condanne a morte vengano ancora pronunciate nelle Filippine, ma Gloria Arroyo ha dichiarato di volerle sistematicamente commutare fino all’esaurimento del suo mandato nel 2010. Si spera che la pena di morte venga abolita per legge molto prima del 2010.
In seno al pacchetto legislativo 4826, già in esame presso la Camera dei Rappresentanti delle Filippine, sono contenute proposte di legge che prevedono l’immediata cancellazione della pena di morte. Amnesty International auspica che una sollecita approvazione di una misura abolizionista renda il paese coerente con il dettato della propria costituzione democratica.
E’ stato certamente importante il contributo degli opinion leader e in particolare della gerarchia e dell’attivismo cattolico per la maturazione e il rafforzamento di un atteggiamento abolizionista ai vertici del paese. Ci attendiamo che la maturazione complessiva dell’opinione pubblica renda il ripudio della pena capitale nelle Filippine una scelta irreversibile.
6) MOUSSAOUI COLPEVOLE DI REATO CAPITALE
Il 3 aprile, al termine dalla prima fase del processo davanti alla Corte federale di Alexandria in Virginia, la giuria composta da nove uomini e tre donne ha riconosciuto Zacarias Moussaoui, francese di origine marocchina, responsabile di almeno una delle morti conseguite agli attacchi dell’11 settembre 2001 e pertanto punibile con la pena capitale. Al termine della seconda fase del processo, cominciata il 6 aprile, la medesima giuria dovrà scegliere tra due sole alternative: una sentenza di morte o il carcere a vita senza possibilità di rilascio sulla parola. Il verdetto raggiunto dopo 16 ore di deliberazioni è certamente coerente con la richiesta di una rivalsa per le immani perdite causate dagli attacchi suicidi di al-Qaeda ma giunge al termine di un processo tutt’altro che lineare, per non dire estremamente contraddittorio, che non ha chiarificato il ruolo di Moussaoui, ma ha piuttosto aggiunto confusione a confusione.
“Oggi, tre mesi dopo l’assalto alla nostra patria, gli Stati Uniti d’America hanno scagliato il terribile peso della giustizia contro i terroristi che hanno brutalmente assassinato innocenti Americani” aveva dichiarato John Ashcroft, allora Ministro della Giustizia USA, l’11 dicembre 2001. Si trattava dell’enfatica messa in stato di accusa di una sola persona: il cosiddetto ‘ventesimo attentatore suicida’ Zacarias Moussaoui.
Abbiamo seguito con numerosi articoli la vicenda giudiziaria di Moussaoui. Ora che il processo sta per concludersi, vogliamo riassumerne le parti essenziali e sottolinearne alcuni dei più gravi difetti, conseguiti soprattutto dall’impostazione emotiva ed ideologica dell’accusa.
Dunque, in quattro anni e quatto mesi il governo americano è riuscito a porre la pena di morte sul capo di Moussaoui sostenendo una tesi di colpevolezza abbastanza contorta: al momento del suo arresto con l’accusa di immigrazione illegale – avvenuto il 17 agosto 2001- egli avrebbe celato agli inquirenti il disegno di al-Qaeda di lanciare aerei di linea contro fabbricati. In tal modo si sarebbe reso responsabile della mancata prevenzione degli attentati (in realtà perfino le ripetute segnalazioni in tal senso fatte dall’F. B. I. e dalla C. I. A. in quel periodo rimasero senza effetto) e quindi sarebbe un omicida.
Nelle fasi preliminari del processo, durate più di quattro anni, la linea di difesa si era basata sul fatto che Moussaoui, pur essendo un aspirante terrorista di al-Qaeda, non aveva nulla a che fare con gli attentati dell’11 settembre 2001; per confermare questa tesi era stata chiesta la testimonianza di tre alti esponenti di al-Qaeda in mano degli Americani e detenuti in località segreta: Ramzi Binalshibh, Khalid Shaikh Mohammed e Mustafa Ahmed al-Hawsawi. Il rifiuto assoluto del governo USA di consentire l’escussione di tali testimoni – sia pure per videoconferenza – aveva indotto la giudice presidente Leonie Brinkema a proibire la richiesta della pena capitale per Moussaoui. Il Governo era ricorso alla superiore Corte d’Appello federale del Quarto Circuito la quale aveva infine autorizzato la richiesta della pena di morte, limitandosi a riconoscere alla difesa il diritto di avere resoconti scritti della C.I.A. sugli esiti degli interrogatori dei super testimoni (v. n. 118).
Il processo vero e proprio era cominciato il 7 febbraio scorso (v. n. 136, Notiziario). Il comportamento imprevedibile (e per la verità folle) di Moussaoui aveva reso sempre più difficile il compito degli avvocati difensori (da lui sempre ricusati) fino al colpo di scena del 27 marzo, giorno in cui l’imputato aveva testimoniato ampiamente contro di sé cambiando radicalmente la propria versione: sì, era stato destinato a lanciare un quinto aereo contro la Casa Bianca l’11 settembre 2001 in complicità con Richard Reid, l’attentatore ‘con la scarpa’ (v. n. 137). Tale affermazione incredibile si scontra con i fatti accertati: 1) il volo destinato a impattare contro la Casa Bianca era un altro: il volo 93 dell’11/9/2001 della United Airlines schiantatosi in Pennsylvania, 2) Reid non aveva ricevuto nessuna preparazione specifica per gli attentati dell’11 settembre e 3) quest’ultimo non fu infiltrato negli USA nei mesi precedenti gli attacchi (come era avvenuto per tutti gli altri attentatori suicidi.) Perfino la ‘testimonianza’ fornita dalla prigionia da Khalid Sheikh Mohammed, presunto organizzatore degli attentati, trascritta dalla C. I. A., confermava il ruolo secondario di Moussaoui e la sua estraneità agli attacchi dell’11 settembre 2001.
Per quanto insostenibile, l’ultima versione di Moussaoui è stata egregiamente utilizzata dall’accusa per strappare alla giuria una sentenza di piena colpevolezza. (La stessa accusa ha ammesso in seguito, come vedremo, che tale versione non sta in piedi).
La parte dibattimentale della seconda fase del processo, quella in cui la giuria deve decidere se mandare a morte Moussaoui ovvero condannarlo all’ergastolo, è durata dal 6 al 21 aprile. In essa sono state riversate a piene mani testimonianze ad altissimo impatto emotivo sugli orrori dell’11 settembre 2001. Si sono udite le registrazioni delle telefonate provenienti dagli aerei dirottati, le registrazioni in carlinga (da esse si desume che sul volo 93 schiantatosi in Pennsylvania deve essersi svolta un’estrema lotta tra passeggeri e dirottatori), le disperate richieste di soccorso fatte dal World Trade Center e dal Pentagono in fiamme. Si sono ascoltate le testimonianze agghiaccianti degli scampati e dei parenti delle vittime. Si sono visti i filmati con la gente che si lanciava nel vuoto, i corpi smembrati e bruciati.
Per trovare sopravvissuti e familiari delle vittime dell’11 settembre che testimoniassero contro Moussaoui, l’accusa aveva condotto una colossale ricerca. Aveva inserito in un data base oltre 8.000 individui, aveva parlato per telefono con quasi tutti, tenendoli aggiornati sugli sviluppi del caso.
Agenti e procuratori avevano viaggiato attraverso gli USA per intervistare direttamente più di 1.000 persone. Il ‘progetto vittime’ ha trasformato gli accusatori e gli agenti dell’F. B. I. in terapisti e consolatori. Accusatori ed agenti piangevano insieme alle vittime durante le interviste. Il succo di tutto questo impegno si è concretizzato in 45 testimonianze accuratamente scelte per riprodurre nel processo uno spaccato di tutto ciò che avvenne nei vari luoghi colpiti dagli attacchi dell’11 settembre 2001.
La difesa per contro ha portato prove convincenti di una grave patologia mentale di cui soffrirebbe Moussaoui, il cui padre – come le due sorelle – è ricoverato in un ospedale psichiatrico in Francia. Il perito dell’accusa ha invece negato che Moussaoui sia uno schizofrenico paranoico definendolo invece affetto da un disordine della personalità che lo porta a disprezzare la vita umana.
Alla fine la difesa ha chiesto molto opportunamente la testimonianza dell’attentatore ‘con la scarpa’ Richard Reid, rinchiuso in un carcere di super massima sicurezza nel Colorado dove sconta una condanna a vita. Per sopravvenute complicazioni procedurali la giudice Brinkema ha respinto tale richiesta. In cambio il 20 aprile il governo ha rilasciato una dichiarazione in cui ammette che Reid non c’entra nulla con gli attentati dell’11 settembre. Come dire: l’autoaccusa di Moussaoui non regge. Peccato che essa sia stata usata con successo per ottenere dalla giuria la sua condanna!
Le deliberazioni della giuria alla fine della seconda ed ultima fase del processo, cominciate il 24 aprile, si stanno prolungando in maniera abnorme e al momento di chiudere questo numero non sappiamo se per Zacarias Moussaoui sarà vita in carcere o morte.
7) DOPO IL PRIMO PROCESSO, SADDAM PROCESSATO PER GENOCIDIO?
Nel mese di aprile si sono svolte le ultime udienze dedicate all’accusa nel processo contro Saddam Hussein. Sono state esibite prove scritte del coinvolgimento diretto del ‘rais’ nelle esecuzioni sommarie di 148 abitanti del villaggio di Dujayl, avvenute a partire dal 1982. Nel frattempo è stata annunciata l’incriminazione dell’ex dittatore per genocidio in relazione agli attacchi sferrati nel 1988 dall’esercito iracheno contro i Curdi nell’ambito della cosiddetta Operazione Anfal.
Il 5 aprile è ripreso a Baghdad, davanti al Tribunale speciale iracheno, il processo contro Saddam Hussein e sette suoi collaboratori. Le udienze si sono svolte, in due riprese, tra il 5 e il 24 aprile. L’ex presidente dell’Iraq ha ribadito la sua responsabilità nell’approvazione di numerose sentenze capitali ai danni dei cittadini di Dujayl, villaggio sciita reo di aver attentato alla sua persona nel 1982.
Sia Saddam che il coimputato Awad Hamed Bandar, ex giudice della Corte rivoluzionaria, hanno però sostenuto che le sentenze capitali conseguirono a processi regolari e che i condannati rei confessi facevano parte di un complotto appoggiato dall’Iran.
L’accusatore Jaafar al-Moussawi ha contestato a Saddam l’approvazione delle sentenze di morte perfino nei riguardi di 28 minorenni mostrando alcune carte di identità dei ‘giustiziati’ (da una di esse risulta che il suo possessore aveva solo 15 anni nel 1982, all’epoca dell’attentato.) Saddam ha negato sdegnosamente di aver mai ratificato condanne a morte di minorenni e ha espresso l’opinione che le carte di identità fossero state falsificate. Secondo il giudice Bandar i documenti venivano falsificati per rimandare la coscrizione obbligatoria e l’effettiva età degli arrestati veniva stabilita dai medici.
Altri documenti prodotti dall’accusa proverebbero che Saddam autorizzò, con annotazioni di suo pugno, oltre alle esecuzioni, confische e distruzioni per rappresaglia. Tali annotazioni secondo i periti grafologi nominati dalla corte risultano autentiche.
In aula è stato anche proiettato un filmato che ritrae un giovanissimo Saddam durante un infuocato discorso in cui egli afferma di voler tagliare la testa a qualsiasi oppositore: “A chiunque sia contro la rivoluzione, si tratti di due o tre persone o di 4.000, io taglierò la testa. Il mio cuore non esiterà. Gente così non suscita in me nessuna simpatia. Se muore una formica me ne dispiaccio. Ma se si tratta di un traditore, lo ammazzerò, chiunque sia”.
“Ero molto giovane – ha esclamato Hussein al termine del filmato – che cosa c’entra tutto ciò con le accuse per cui sono giudicato?” Giusto, giustissimo dal punto di vista processuale: è possibile che il filmato risalga addirittura ad un’epoca in cui Saddam non era ancora presidente. Ma a noi il filmato fa capire su quali premesse si è sviluppato il successivo comportamento dispotico di Saddam Hussein.
Martedì 4 aprile, alla vigilia della ripresa delle udienze del processo a Saddam, il Tribunale speciale iracheno aveva reso nota l’incriminazione per genocidio dell’ex dittatore e di sei suoi collaboratori per aver sterminato nel 1988 i Curdi residenti nel nord dell’Iraq, di tendenze separatiste e filo iraniane. Gli attacchi, verificatisi negli ultimi mesi del conflitto tra Iraq e Iran, nel quadro dell’ “Operazione Anfal”, avrebbero coinvolto indiscriminatamente i civili - fatti oggetto di gas letali – e provocato decine di migliaia di vittime, tanto da configurare il crimine di genocidio. Le operazioni contro i Curdi del marzo 1988 comprendono anche l’attacco con gas nervini alla cittadina di Halabja che avrebbe causato la morte di 5.000 persone. Il portavoce del Tribunale speciale ha precisato però che i fatti di Halabja non fanno parte dell’incriminazione resa nota il 4 aprile.
Nel processo in corso la presentazione delle prove a carico si è conclusa il 24 aprile. Con ciò si è chiusa la prima parte del procedimento che riprenderà il 15 maggio con l’audizione di una sessantina di testimoni a difesa. Si prevede che il dibattimento finisca entro giugno. La sentenza dovrebbe essere pronunciata un mese più tardi. Secondo alcuni commentatori la probabile sentenza di morte per Saddam e collaboratori, che per legge dove essere eseguita tassativamente entro 30 giorni dal respingimento dell’appello, impedirà di sottoporre i condannati agli ulteriori processi prefigurati dall’accusa: quello relativo all’Operazione Anfal e quello relativo alla strage compiuta con i gas venefici ad Halabja
8) UDIENZA DELLA CORTE SUPREMA USA SULL’INIEZIONE LETALE
Il 26 aprile si è svolta davanti alla Corte suprema degli Stati Uniti un’udienza in merito al diritto dei condannati a morte di contestare l’iniezione letale quale punizione crudele ed inusuale. L’udienza è conseguita al ricorso avanzato da Clarence Hill che doveva essere ‘giustiziato’ in Florida il 25 gennaio scorso (v. n. 135). La questione dibattuta è molto sottile: riguarda solo il diritto dei condannati di sollevare il problema davanti ad un corte civile. La decisione della Corte suprema – che si è dimostrata fortemente divisa al suo interno – si conoscerà probabilmente in luglio. E’ possibile inoltre che la Corte suprema decida di prendere in considerazione il ricorso contro l’iniezione letale di Abu-Ali Abdur'Rahman del Tennessee, il primo dei detenuti a porre la questione anni fa: lo si saprà a giugno. Frattanto in North Carolina si è verificata un’esecuzione monitorata da un rivelatore cerebrale.
Il fatto che la Corte suprema si occupi di un ‘metodo di esecuzione’ non ha precedenti. Ricordiamo che la questione della crudeltà dell’iniezione letale, sollevata senza successo da anni, ha preso forza soprattutto in conseguenza di una ricerca pubblicata ad aprile del 2005 sull’autorevole rivista di medicina “The Lancet” secondo cui vi sarebbe una grande probabilità che il metodo dell’iniezione letale (in vigore in tutti gli stati USA meno uno) possa provocare terribili sofferenze (v. n. 128). Se infatti il barbiturico anestetizzante che viene iniettato per primo non ha l’effetto desiderato, la seconda sostanza (paralizzante) e la terza (che blocca il cuore) provocherebbero nel prigioniero un senso di soffocamento e un terribile bruciore toracico senza che questi possa muovere di un millimetro un solo muscolo.
Comunque la questione attualmente sotto esame è sottile. La Corte suprema non sta per decidere se l’iniezione letale è di per sé incostituzionale, ma piuttosto se le corti inferiori debbano prendere in considerazione un ricorso CIVILE in merito, una volta che un condannato abbia esaurito le possibilità di presentare i normali ricorsi di habeas corpus in ambito penale.
Se la Corte suprema accoglie il ricorso di Hill c’è l’eventualità che i prigionieri prolunghino con cause civili l’iter giudiziario una volta che questo si sia esaurito dal punto di vista penale. Ciò non piacerebbe nemmeno ai giudici più liberali, pertanto gli avvocati di Hill si sono detti disposti a riformulare in termini minimali la loro richiesta in modo da ridurre tale ‘pericolo’.
Non è facile fare una previsione su quanto deciderà la Corte suprema. A volte può servire, per fare una previsione sul comportamento della Corte, quanto emerge nelle udienze pubbliche come quella tenutasi il 26 aprile. Ma questa volta gli intervenuti hanno manifestato grande incertezza nonché malumore. Non sono mancate frasi taglienti tra i membri della Corte e soprattutto nei riguardi della rappresentante dello stato della Florida, Carolyn M. Snurkowski. Anthony Kennedy, il giudice ‘di centro’ che potrebbe far pendere l’ago della bilancia a favore del ricorrente, si è mostrato irritato dalle battute scipite (usuali nelle corti) fatte dagli altri giudici: “Non è divertente, – ha esclamato – si tratta di un caso di vita o di morte.”
La sottigliezza della questione che la Corte suprema ha accettato di prendere in considerazione, spiega come mai non si sia verificata una moratoria generalizzata delle esecuzioni negli Stati Uniti, ma siano in atto solo sospensioni in alcuni stati (tra cui la Florida, la California, il Missouri, aggiuntisi al New Jersey che ha già istituito una moratoria in gennaio) e rinnovate ondate di appelli in altri stati. (*)
Una situazione a parte, abbastanza singolare, è quella creatasi nella North Carolina. Approssimandosi l’esecuzione di Willie Brown Jr. programmata per il 21 aprile, i suoi avvocati sono riusciti a far intervenire il giudice federale Malcolm Howard. Costui ha richiesto garanzie sul fatto che il condannato rimanesse incosciente durante l’esecuzione ed ha infine consentito che si procedesse purché si usasse un’apparecchiatura diagnostica (acquistata dallo stato per l’occasione sborsando 5.400 dollari) che può rilevare il livello di coscienza tramite le onde elettriche cerebrali. Howard ha chiesto che la macchina fosse utilizzata da personale sanitario in grado di intervenire con anestetici in caso si presentassero segnali compatibili con la coscienza. Il prevedibile generale rifiuto del personale medico a partecipare ad un’esecuzione capitale, ha portato – al termine di alcuni ricorsi - ad utilizzare la macchina senza la presenza di personale medico. Secondo l’amministrazione carceraria l’esecuzione di Brown è riuscita perfettamente.
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(*) Un maggiore impatto avrebbe l’eventuale presa in considerazione del ricorso avanzato da Abu-Ali Abdur'Rahman del Tennessee, ricorso ormai storico risalente al 2003. Il 19 aprile un gruppo di 17 esperti, in un documento inoltrato in qualità di ‘amicus curiae’, a sostegno del ricorso di Abdur'Rahman, alla Corte suprema, avanza preoccupate considerazioni sul metodo dell’iniezione letale.
9) SANO DA MORIRE di Claudio Giusti
Due mesi fa il giudice Wayne Salvant, di Fort Worth nel Texas, aveva sospeso l’esecuzione di Steven Kenneth Staley, schizofrenico paranoico, condannato a morte 17 anni fa per l’omicidio del direttore di un ristorante, affermando che egli non poteva essere giustiziato perché gravemente malato di mente. Adesso lo stesso giudice ha decretato che Steven dovrà essere costretto con la forza a cure farmacologiche che lo rendano consapevole della sua condanna a morte, requisito legalmente indispensabile per la sua esecuzione. Steven si è infatti rifiutato di sottoporsi volontariamente alle cure, anche perché troppo folle per capire di esserlo.
Che Steven Kenneth Staley sia un pericoloso suonato non lo mette in dubbio nessuno, come nessuno mette in dubbio la sua colpevolezza, e in effetti il dilemma sta nello stabilire il livello di questa sua follia e nel decidere se sia giusto curarlo quanto basta per rendere legale la sua partecipazione a quel rito di purificazione collettiva noto come esecuzione.
Ciò perché in America, e quindi anche a Fort Worth (la ridente cittadina texana, gemella di Reggio Emilia, teatro di questi tristi avvenimenti), è illegale ammazzare qualcuno che non è in grado di comprendere le ragioni per cui lo Stato lo sta sopprimendo. Questo ovviamente non significa assolutamente che quella che gli Americani chiamano giustizia non abbia eliminato dozzine di pazzi furiosi, anzi: nel migliaio di sacrifici umani, cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni, sono stati almeno cento quelli che hanno avuto come protagonista un malato mentale.
Quindi l’affascinante problema giuridico che ci impegna in questi giorni sta tutto nella misurazione di codesta follia (quella di Staley ovviamente, dato che gli altri, quelli che non vedono l’ora di sporcarsi le mani con il suo sangue, lo sappiamo da lungo tempo che sono pazzi).
Così, come è già accaduto a Charles Singleton in Arkansans (v. n. 105), Steven Kenneth Staley sarà amorevolmente curato dai suoi assassini e costretto a ingurgitare le medicine che lo renderanno un po’ meno folle: e questo continuerà fino a quando qualche medico prezzolato non deciderà che è diventato sano da morire. Dio salvi gli Stati Uniti d’America.
10) RICONOSCIUTO COLPEVOLE L’EX GOVERNATORE DELL’ILLINOIS
Si è conclusa con una sonora condanna la prima fase del processo per corruzione a carico di George Ryan, l’ex governatore dell’Illinois che impose una moratoria delle esecuzioni e svuotò il braccio della morte con la commutazione di tutte le condanne capitali (v. n. 103). Il gesto umanitario, compiuto da Ryan nel gennaio del 2003 alla fine del mandato governatoriale, gli ha procurato l’apprezzamento di mezzo mondo e la candidatura al premio Nobel per la Pace. Lo stesso gesto purtroppo negli USA è considerato da molti, anziché un merito, un aggravio di colpa.
Durante il processo contro George Ryan, istruito con accanimento nel corso degli anni dall’accusa federale e durato 6 mesi, non sono state ammesse testimonianze sulla personalità dell’imputato che facessero riferimento ai sui meriti umanitari (v. n. 136, Notiziario). La prima fase del procedimento si è conclusa il 17 aprile con una sentenza di colpevolezza su tutti e 22 i capi di imputazione. Parimenti colpevole è stato giudicato il coimputato, Larry Warner, un uomo d’affari di Chicago amico di Ryan.
Ryan, che ora ha 72 anni, rischia fino a 20 anni di carcere per il più grave dei capi di imputazione contestatigli, quello di racket, e un totale di 95 anni di prigione. L’udienza per l’inflizione della pena è fissata per il 4 agosto.
Non possiamo scacciare dalla nostra mente il sospetto che la pesantissima sentenza contro Ryan sia in parte riconducibile al suo gesto umanitario, apertamente in opposizione al “trend” federale forcaiolo e conservatore, che gli costò a suo tempo contestazioni durissime arrivate fino alla derisione.
Non vogliamo asserire la totale estraneità di Ryan ai reati ascrittigli ma osserviamo che tra le tante personalità politiche che approfittano negli USA del potere per arricchirsi, solo pochi finiscono sotto accusa, e solo Ryan negli ultimi decenni si è visto trascinare in un simile vortice e con risultati così drammatici.
“Ritengo che la decisone odierna non ripecchi il servizio che ho reso al popolo dell’Illinois per 40 anni e naturalmente sono deluso,” ha dichiarato Ryan.
L’imputato ha preannunciato appello e certamente le organizzazioni umanitarie e personalità di spicco in tutto il mondo continueranno ad apprezzarlo e a sostenerlo, pur nella sua spinosa vicenda. (Grazia)
11) AIUTIAMO HOWARD GUIDRY CONDANNATO A MORTE IN TEXAS
“Howard Guidry viene arrestato per rapina nei giorni in cui la moglie di un poliziotto viene uccisa. Qualcuno dice che lui potrebbe essere implicato. Viene interrogato e in quella sede chiede la presenza del suo avvocato; i due poliziotti che presiedono l’interrogatorio, lo lasciano solo per qualche tempo e al loro ritorno gli dicono che hanno parlato al suo avvocato il quale lo autorizza a rispondere a tutte le loro domande. Lui confessa. Successivamente l’avvocato di Guidry smentisce i due poliziotti dicendo di aver dato istruzioni precise al suo assistito: non dire niente se non in sua presenza. Durante il processo, la confessione viene comunque utilizzata. La sentenza di morte, viene stabilita sulla base di tre punti fondamentali:
- la confessione di Guidry (estorta illegalmente)
- la testimonianza di due vicini della vittima (i testimoni cambiarono poi versione)
- la testimonianza della ragazza di colui che avrebbe assoldato Guidry per l’omicidio […]
L’ingiusto processo viene in seguito annullato: una corte federale decide che il racconto dell’interrogatorio fatto da Guidry era verosimile e che quello degli agenti non lo era, e che Guidry era stato raggirato e convinto a rilasciare una confessione in violazione alle leggi vigenti. Inoltre, la Corte Federale decreta anche la violazione dei diritti di Guidry previsti dalla Confrontation Clause [diritto dell'imputato a far contro-esaminare nel dibattimento i testi d'accusa, N.d.T.]
Il caso di Guidry fornisce un’immagine eccellente dei comportamenti indegni da parte di rappresentanti dello Stato nei casi capitali. Al fine di condannarlo, la polizia ingannò Guidry e gli estorse una confessione. Inoltre, il Procuratore presentò una testimonianza indiretta (di “sentito dire”), che - come tutti sanno - non poteva essere ammessa. Grazie alle circostanze insolite che hanno permesso a Guidry di provare le sue affermazioni in merito all’errata condotta da parte degli agenti di polizia, e grazie all’abilità dell’avvocato difensore, la polizia e la Procura sono state smascherate. Purtroppo, però, la maggior parte dei condannati a morte texani non sono così fortunati.” (Kenneth Williams avvocato difensore di Howard Guidry nel 1997, trad. di Arianna Ballotta).
Per Howard Guidry un buon avvocato privato può fare la differenza fra la vita e la morte.
Howard ha urgente bisogno di trovarne uno che segua il suo nuovo processo, ma per farlo sono necessari dai 20.000 ai 50.000 dollari (di questi, 10.000 sono stati già trovati).
Inviate una donazione sul conto corrente postale n. 38725800 intestato a: Coalizione Italiana Contro La Pena Di Morte C. P. 39 - 80078 Pozzuoli (Na) – Causale: Pro Howard Guidry
Per maggiori informazioni sul caso Howard Guidry:
http://www.agliincrocideiventi.it/Coalit/sul_caso_di_howard_guidry.htm
12) RICHI ROSSI, DETENUTO SCRITTORE, E’ MORTO IN ARIZONA
Il 23 aprile 2006, nell’ospedale di Florence in Arizona, si è spento Richard “Richi” Michael Rossi, detenuto nel braccio della morte per oltre venti anni, autore di un famoso libro che rende una preziosa testimonianza sul braccio della morte.
Grande è la tristezza dei tanti amici e corrispondenti di Richi. All’amico Brian Crowther egli aveva recentemente scritto: “Non lascerò che mi abbiano… Ti ripeto quello che dico a tutti da molti anni: essi non mi uccideranno, mai.”
Rossi, nato a New York nel 1947 da una famiglia di origini italiane, dopo molte vicissitudini, nel 1983, sotto l’effetto della cocaina uccise un ricettatore a cui stava vendendo una macchina da scrivere rubata. Processato, venne condannato alla pena di morte. Non ha mai negato il suo terribile gesto di cui provava un profondo rimorso.
Nei suoi 22 anni di detenzione Rossi si istruì e imparò a dipingere. Scrisse numerose poesie, articoli e un libro (“La mia vita nel braccio della morte” pubblicato da poco in Italia per le Edizioni TEA), molto apprezzato dagli abolizionisti per la lucidità e la chiarezza di analisi del sistema giudiziario americano e delle condizioni inumane a cui sono sottoposti i detenuti del braccio della morte negli Stati Uniti.
Ha scritto: “Le unità di controllo di massima sicurezza sono il flagello del sistema carcerario americano; rappresentano i gulag americani al meglio delle loro capacità di repressione. Di fatto, le unità avvalorano il principio che non considera la riabilitazione un’alternativa percorribile alla detenzione” (“La mia vita nel braccio della morte”, pag. 98).
In quarta di copertina:“Vorrei che questo libro rappresentasse una guida, un ritratto di questo mondo assurdo. Tutto il materiale che vi ho raccolto è autentico al cento per cento, senza alcuna esagerazione. Del resto non credo che qualcuno sarebbe capace di inventarsi qualcosa di simile. Benvenuti in prigione!” (Stefania)
13) LA PREMIAZIONE DI PAOLO CIFARIELLO
Come preannunciato nel numero scorso, la sera del 21 aprile, nel corso di una calda e partecipata cerimonia svoltasi nella Cappella Ducale dello splendido Palazzo Farnese di Piacenza, è stato consegnato al nostro socio e amico Paolo Cifariello il Premio per la Pace “Livia Cagnani”.
Si è trattato di una cerimonia intensa, sobria e ben organizzata. Presenti numerose autorità cittadine, la serata è stata aperta dagli interventi di Gianluigi Boiardi, presidente della Provincia di Piacenza, di Paolo Dosi, assessore comunale per le Politiche giovanili, di Paolo Pobbiati, presidente della Sezione italiana di Amnesty International, di don Giampiero Franceschini, direttore della Caritas diocesana, di Bernardo Carli, preside del Liceo artistico “Cassinari”, e di Grazia Guaschino, presidente del Comitato Paul Rougeau.
Paolo Pobbiati ha fornito gli ultimi dati sulla pena di morte nel mondo, appena resi noti dallo speciale rapporto annuale di Amnesty, e ha sostenuto la necessità di continuare a lottare per cancellare la pena di morte dalla faccia della terra, mentre gli altri oratori presenti hanno sottolineato il valore e i meriti dei Piacentini impegnati per la pace, per la solidarietà e per la tutela dei diritti umani. Grazia Guaschino ha descritto i meriti specifici del premiato ed ha espresso, interpretando i sentimenti di tutto il Comitato e delle tante persone che Paolo Cifariello ha negli anni beneficato, la grande gioia per il riconoscimento.
Gli allievi del Liceo artistico “Cassinari” hanno realizzato una graziosa scultura, consegnata a Paolo insieme al premio in denaro di 5.000 euro (immediatamente devoluto ad Amnesty International, ad Emergency e al nostro Comitato), e hanno animato la serata con la lettura di poesie sul tema della pace e con l’esecuzioni di canti e brani musicali. Il numeroso pubblico ha potuto apprezzare le notevoli prestazioni di giovani musicisti veramente ricchi di talento.
E’ stata anche proiettata la parte relativa agli Stati Uniti del video “Non vale la pena – la ballata della morte” sponsorizzato da Amnesty International.
Paolo ha poi rilasciato una breve dichiarazione, in cui ha sottolineato l’importanza di abituarsi sin da giovani, partendo dall’educazione nelle scuole, al rifiuto della violenza. “Non occorre essere eroi o trovarsi coinvolti in imprese eccezionali per operare per la pace”, ha detto Paolo. “Basta poco, anche solo dire no all’indifferenza”. Ed è quello che lui, Paolo, fa da sempre. Bravo, Paolo, “eroe” silenzioso e schivo della lotta per i diritti umani!
14) NOTIZIARIO
Afghanistan. Sostenuta la pena di morte per apostasia. Sher Ali Zarifi, massimo esponente di giurisprudenza religiosa in seno all’Accademia delle Scienze dell’Afghanistan, il 5 aprile ha affermato la piena legittimità della pena di morte per i rei di apostasia. Egli ha sostenuto che i trattati riguardanti i diritti umani sottoscritti dall’Afghanistan non si possono applicare in tale evenienza perché il reato di apostasia va al di là dei diritti individuali costituendo una violazione strutturale di un sistema amministrativo: “L’amministrazione dell’Afghanistan è basata sulla Legge Islamica,” ha sentenziato l’esperto. Pur senza farne esplicita menzione, è evidente che Zarfifi si riferiva al caso di Abdul Rahman, il cittadino afgano di 41 anni convertitosi al cristianesimo 15 anni fa e messo ora sotto accusa da una Corte di primo grado per aver abbandonato l’Islam. Come è noto, alla fine di marzo le pressioni internazionali e l’intervento personale di Condoleezza Rice sul presidente Karzai hanno indotto la Corte suprema dell’Afghanistan a sospendere il procedimento capitale contro Rahman a motivo di una sua presunta infermità mentale, consentendo al malcapitato di dileguarsi e di trovare asilo in Italia. In Afghanistan sono seguite riunioni e dimostrazioni di religiosi per ottenere l’estradizione dell’accusato. Il bello è che, nella divisione dei ruoli tra le potenze ‘liberatrici’ dell’Afghanistan, all’Italia è toccato il compito di riformare il sistema legale del paese strappato ai Talebani, vediamo ora con quali risultati!
Florida. Per l’inflizione della pena di morte non è richiesta l’unanimità nelle giurie. La Florida rimane l’unico stato nordamericano nel quale una giuria può optare per una sentenza capitale senza raggiungere l’unanimità ma solo a maggioranza. Il 24 aprile infatti la Camera dei Rappresentanti ha respinto la proposta di legge del deputato democratico Jack Seiler, per altro sostenitore delle pena capitale, la quale, recependo una pressante richiesta della Corte suprema della Florida dello scorso anno, richiedeva che ci fosse l’unanimità in una giuria per poter raccomandare la pena di morte.
Ohio. Supplica della famiglia del condannato che è anche la famiglia della vittima. La famiglia di Jeffrey Hill, ha diffuso il seguente appello in Internet: “La famiglia della vittima non vuole la cosiddetta ‘chiusura’. Questa famiglia ha sofferto abbastanza. Jeffrey è un ex tossicodipendente che vive con la consapevolezza di ciò che ha fatto sotto l’effetto del ‘crack’ di cocaina. Si tratta di uno dei pochi casi in cui i familiari della vittima sono anche i familiari del condannato. Se essi possono perdonare, lo stato dell’Ohio deve prendere ciò in seria considerazione. Queste persone sono state già colpite abbastanza e l’esecuzione di Jeffrey servirebbe solo ad esasperare il loro dolore e la loro tristezza. […] Jeffrey Hill per lo stato dell’Ohio è un detenuto, per noi è un nipote, un padre, un nonno, un fratello, un cugino ed un amico. Nel 1991 la nostra famiglia fu colpita da una tragedia. Sotto la forte influenza del crack da cocaina Jeffrey Hill tolse la vita a sua madre Emma Dee Hill. I nostri cuori piansero sia per Emma che per suo figlio. Come familiari subivamo la perdita di una donna che fu una madre, una sorella, una zia e una nonna. Fummo feriti veramente nel profondo. In quanto famiglia non possiamo voltare le spalle a suo figlio, nostro nipote, nostro cugino, che è padre ed ora anche nonno. Oggi ci rivolgiamo a voi come famiglia pregandovi di chiedere al Governatore Bob Taft di fermare l’esecuzione di Jeffrey. Unitevi alla nostra lotta per salvare la nostra famiglia. Grazie!”
Usa. Amnesty denuncia 1600 voli segreti della CIA. Il 5 aprile Amnesty International ha diffuso un rapporto di 41 pagine intitolato “Al di sotto del radar: voli segreti, destinazione tortura e ‘sparizioni’ ”. In esso si elencano i dati di un migliaio di voli segreti direttamente riconducibili alla CIA, molti dei quali hanno interessato scali europei, effettuati dal 2001. Un altro elenco riguarda circa 600 voli di aerei almeno temporaneamente al servizio della CIA. Con questi voli segreti centinaia di persone sono state trasferite tra carceri americane note o segrete sparse nel mondo, e spesso consegnate a paesi noti per l’uso della tortura (v. nn. 133 e 134). In particolare viene menzionato il volo con cui l’imam Abu Omar, rapito dalla CIA in Italia nel marzo 2003, fu trasferito dalla Germania in Egitto (paese in cui fu torturato). “La molteplicità, cinica e calcolata, di queste violazioni è scioccante. Le persone catturate sono state sottoposte ad un’ampia gamma di abusi da parte di governi conniventi e tutto questo è avvenuto mediante la segretezza e l’inganno,” ha dichiarato Irene Khan Segretaria generale di Amnesty International. V. http://web.amnesty.org/library/Index/ENGAMR510512006?open&of=ENG-313
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 30 aprile 2006