FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 141 - Luglio / Agosto 2006
SOMMARIO:
1) Sete di vendetta attorno all’esecuzione di Derrick O’Brien
2) Ucciso Mauriceo Brown, condannato insieme a Kenneth Foster
3) Ancora in azione la sedia elettrica della Virginia
4) Nessuna pausa estiva per la macchina della morte
5) Nel secondo processo capitale, Andrea Yates è stata assolta
6) Sospesa per un anno la prima esecuzione in South Dakota
7) Saddam tra due assurdi processi che non fanno chiarezza
8) Prospettata la pena di morte per cinque combattenti Usa in Iraq
9) Fucilati per ignominia, ora vengono riabilitati
10) Più sei nero, più ti vogliono ammazzare
11) Mentre voi dormivate…
12) Fuori dalla prospettiva
13) Una magnifica giornata
14) Notiziario: Arizona, Florida, Moldavia, Texas, Usa, Virginia
1) SETE DI VENDETTA ATTORNO ALL’ESECUZIONE DI DERRICK O’BRIEN
L’11 luglio è stato ‘giustiziato’ in Texas Derrick O’Brien, la cui esecuzione era stata sospesa lo scorso 15 maggio dalla Corte Criminale d’Appello, a seguito di un ricorso del condannato che contestava la costituzionalità dell’iniezione letale (v. n. 139). O’Brien è il primo ad essere messo a morte di una banda di sei giovanissimi che stuprarono e uccisero due adolescenti nel 1993. Da allora per questi atroci delitti viene tenuta viva in Texas una pressoché corale e insistente richiesta di vendetta.
Derrick Sean O’Brien era stato incriminato e condannato alla pena capitale per aver preso parte, insieme ad altri cinque giovanissimi membri di una gang, allo stupro, alla tortura e all’assassinio di due ragazzine, Elizabeth Pena e Jennifer Ertman, di 16 e 14 anni. E’ stato il primo dei sei ad essere messo a morte. Due degli altri criminali, Efrain Perez e Raul Villarreal, hanno visto commutata la loro condanna a morte in ergastolo quando la Corte Suprema ha vietato la pena capitale per i minorenni; un altro, Vernacio Medellin, aveva 14 anni al momento del crimine e fu condannato a 40 anni di carcere; il caso del quarto, Jose Medellin, è stato riportato davanti alle corti per ordine del Presidente Bush, perché a Medellin, di origine messicana, fu negata assistenza da parte del consolato messicano durante il processo (v. n. 127, “Gli Stati Uniti in fuga dal Trattato di Vienna…”); mentre Peter Cantu, presunto capo della gang, è tuttora nel braccio della morte del Texas.
I familiari delle due vittime sono tra i più accaniti sostenitori della pena di morte e in quanto tali sono membri della lugubre organizzazione “Justice for All”. E’ assolutamente comprensibile che qualsiasi genitore, straziato dal dolore inflitto dalla fine atroce della figlia adolescente, sia spinto a detestare gli autori di un simile scempio, e fatichi a trovare la serenità interiore che gli permetta di giudicare con obiettività i fatti e le probabili circostanze attenuanti (giovanissimi che commettono atti così efferati non possono che essere a loro volta vittime di una società e di una famiglia che non ha dato loro l’amore e i principi etici essenziali). Tuttavia nel crogiolarsi per tanti anni nella sete di vendetta, tenuta così viva da diventare quasi una ragione di vita, c’è qualcosa di insano. Furono proprio i genitori delle due ragazzine a ottenere che in Texas i familiari delle vittime di crimini potessero partecipare attivamente ai processi capitali e poi assistere all’esecuzione dei condannati a morte. Si può avere un’idea del sentimento piuttosto “torbido e sdolcinato” di queste persone, visitando la pagina Web dedicata alle due giovani vittime all’indirizzo http://www.murdervictims.com/Voices/jeneliz.html
Nel 2003, fissando le date per le esecuzioni di Perez e di Villareal (che poi, come abbiamo detto, non furono portate a termine) il giudice Mike Anderson usò parole che esprimono l’esigenza di una vendetta collettiva (v. n. 112, 113). Anderson disse a Villarreal in catene: “Hai commesso un crimine contro due giovani e contro l’intera comunità il 24 di giugno” e dal momento che il crimine ha reso la famiglia e gli amici delle ragazze uccise “terrorizzati all’avvicinarsi del 24 giugno, io scelgo tale data per la tua esecuzione. Così avrai un’idea di che cosa essi provano riguardo a questa data.” Il padre di Jennifer, Randy Hertman plaudì salutando militarmente il giudice.
Randy Ertman, preparandosi ad andare ad assistere all’uccisione di O’Brien, ha dichiarato alla stampa: “Se sarò felice della sua morte? Ebbene sì, ne sarò dannatamente felice. E non mi trattengo dal dirlo.” Poi, al momento dell’esecuzione, ha osservato: “E’ troppo facile. Lui ottiene di andarsene semplicemente addormentandosi – non c’è sofferenza, niente.”
Altro che considerare crudele l’iniezione letale! Molti, e non solo i familiari delle vittime dei crimini, continuano a ritenerla al contrario un metodo di morte troppo dolce. In occasione dei delitti più gravi, il concetto di giustizia sembra inestricabilmente confondersi con quello di vendetta. Una vendetta che alla fine viene eseguita a sangue freddo su persone, quasi sempre vittime a loro volta di gravi ingiustizie sociali, rese ormai inoffensive da molti anni, spesso del tutto cambiate e a volte innocenti. (Grazia)
2) UCCISO MAURICEO BROWN, CONDANNATO INSIEME A KENNETH FOSTER
Mauriceo Brown, processato e condannato a morte in Texas nel gennaio del 1997 insieme al nostro amico e corrispondente dal braccio della morte Kenneth Foster, è stato ucciso il 19 luglio.
Spesso i più sprovveduti accusati di reato capitale si scavano la fossa con le proprie mani, magari aiutati dai propri avvocati difensori. Così ha fatto, con le sue numerose e contraddittorie ‘confessioni’, Mauriceo Brown, processato e condannato a morte nel gennaio del 1997 insieme a Kenneth Foster.
Dagli atti del processo risulta che Mauriceo Brown, la notte tra il 14 e 15 agosto 1996 viaggiava in auto nelle strade di San Antonio insieme a Kenneth Foster, che guidava, e ad altri due giovani, quando propose di compiere delle rapine. Almeno quattro persone furono alleggerite dei propri soldi prima che il quartetto, saturo di alcol e di marijuana, si mettesse a seguire due auto che procedevano lentamente. In una vettura viaggiava Michael LaHood Jr, figlio venticinquenne di un noto avvocato della città, nell’altra la fidanzata di quest’ultimo. Quando la ragazza chiese ai giovani perché si erano messi a seguirli, Brown sarebbe sceso dalla macchina e, dopo un breve battibecco, avrebbe ucciso LaHood sparandogli un colpo in mezzo agli occhi. L’accusa sostenne che si trattò di una tentata rapina: Brown avrebbe chiesto invano il portafogli e le chiavi dell’auto a LaHood.
La banda si allontanò in macchina. Foster guidava malissimo senza tenere una direzione ben precisa. La polizia lo fermò. I quattro, tutti pregiudicati, furono arrestati meno di un’ora dopo l’uccisione di LaHood.
Mauriceo Brown confessò subito di aver ucciso Michael LaHood. Processato alcuni mesi più tardi, scelse di testimoniare nella prima fase del giudizio, quella in cui si stabiliva la colpevolezza, e raccontò in lacrime di aver fatto fuoco per legittima difesa, dopo aver udito il click della pistola di LaHood. Nella seconda fase processuale, quella in cui doveva essere irrogata la pena di morte o la prigione a vita, affermò invece che LaHood era morto a causa di un incidente nel corso di una colluttazione.
Julius Steen, l’ultimo degli occupanti dell’auto guidata da Kenneth Foster, testimoniò al processo contro Brown: ammise di non aver visto la scena ma di aver sentito lo sparo. In cambio della sua testimonianza patteggiò per una condanna a vita.
In un’intervista rilasciata poco prima di essere messo a morte, Brown ha ritrattato le sue varie confessioni. Ha affermato di essere rimasto in macchina mentre un altro dei quattro, un certo Dwayne Dillard, sparò a Michael LaHood.
Brown ha sostenuto che, subito dopo l’omicidio, i quattro pregiudicati decisero che lo stesso Brown dovesse farsi carico del delitto. Secondo lui gli altri tre lo avrebbero costretto ad autoaccusarsi minacciando di prendersela con suo figlio di un anno, con la madre del bimbo e con la madre di Brown.
La ritrattazione in extremis di Brown non avuto nessun effetto se non quello di attirargli lo scherno dell’accusa. E’ stato sottoposto ad iniezione letale il 19 luglio come programmato, sotto gli occhi della madre straziata.
Cynthia Luckey ha mormorato: “Gesù. Ti amo. Fa’ che non accada.” Poi, rivolgendosi al figlio: “Dio ti ama, Dio ti ama, Dio ti ama.” Non appena si è accorta che Mauriceo non respirava più, è stata colta da malore ed è stramazzata la suolo nella cameretta dei testimoni.
Il nostro amico Kenneth Foster, corrispondente per il Comitato dal braccio della morte del Texas, non è ancora scampato al pericolo di finire come il suo ex amico. Ci si può domandare perché, oltre a Mauriceo Brown, fu condannato a morte pure lui, l’unico dei quattro non è stato mai sospettato di essere uscito dall’auto che guidava. Potremmo anche pensare ad una ragione sociologica: data la gravità del delitto e la posizione sociale della vittima non bastava una sola condanna a morte.
Per condannare Kenneth Foster fu necessario forzare l’applicazione della discussa ‘law of parties’, una legge del Texas secondo la quale i complici di un delitto che finisce con un omicidio possono essere ritenuti responsabili tanto quanto chi preme il grilletto. In nessun modo durante il processo a carico di Foster e di Brown si dimostrò che Foster fosse al corrente delle intenzioni potenzialmente omicide di Brown. Proprio per questo il 3 marzo 2005 il giudice federale distrettuale Royal Furgeson annullò la sentenza di morte di Kenneth - ma stranamente non la sentenza di colpevolezza (v. n. 127). Sono pendenti davanti alla Corte federale d’Appello del Quinto Circuito un ricorso dell’accusa contro l’annullamento della sentenza di morte da parte del giudice Furgeson, e un ricorso della difesa che punta al proscioglimento completo di Kenneth. A cominciare da Kenneth, stiamo tutti col fiato sospeso attendendo l’esito di questi appelli.
3) ANCORA IN AZIONE LA SEDIA ELETTRICA DELLA VIRGINIA
E’ ormai molto raro che un condannato a morte venga ucciso negli Stati Uniti con un metodo diverso dall’iniezione letale. Non è facile capire il motivo per cui Brandon Hedrick, senza nemmeno consultarsi con i propri legali, abbia optato di morire sulla sedia elettrica il 20 luglio in Virginia. Nei due casi precedenti, i condannati avevano scelto l’elettrocuzione per denunciare l’ipocrisia con cui l’iniezione letale viene spacciata negli USA quale metodo ‘umano’ di somministrare la morte. Sembra che Hedrick, incline al suicidio e ‘volontario’ per l’esecuzione, fosse particolarmente spaventato dall’iniezione letale.
Con una difesa legale decente probabilmente Brandon Wayne Hedrick l’avrebbe scampata, anche perché fu protagonista di un caso in cui la combinazione delle razze dei protagonisti non favoriva una sentenza capitale. Invece fu condannato a morte nel 1998 in Virginia. Il 20 luglio scorso egli è stato il 13-esimo Bianco ad essere ‘giustiziato’ per l’uccisione di una persona di colore. Mentre su 1035 individui messi a morte negli USA dal 1977 in poi, di Neri che hanno ucciso Bianchi ne sono stati ‘giustiziati’ ben 209.
Hedrick nel 1997 confessò di aver ucciso, con un colpo di pistola in pieno viso, la 23-enne afro-americana Lisa Crider, madre di due bambini, dopo averla violentata e rapinata insieme ad un complice. Fu malamente difeso durante il processo. Dopo aver tentato il suicidio e aver chiesto di lasciar cadere gli appelli, non ha dato nessun aiuto ai suoi legali che volevano strapparlo alla morte, anche basandosi sul suo ritardo mentale.
Senza consultarsi con gli avvocati, Hedrick ha firmato una domanda per farsi uccidere sulla sedia elettrica invece che con il ‘normale’ metodo dell’iniezione letale. Non ha palesato i motivi della sua scelta, ma uno dei sui avvocati ritiene che egli fosse particolarmente spaventato dalla prospettiva dell’iniezione letale (che potrebbe causare terribili sofferenze nel condannato cosciente ma paralizzato e apparentemente in pace). Voleva morire, questo è certo, ‘per andare in paradiso perdonato da Dio e smettere di soffrire’. Riteneva che la famiglia della vittima non avrebbe mai potuto perdonarlo.
I due precedenti cittadini degli USA che avevano scelto la sedia elettrica, Earl Bramblett nel 2003 in Virginia e James Neil Tucker nel 2004 in South Carolina, lo avevano fatto per contestare l’ipocrisia di chi dice di uccidere con l’iniezione letale in modo asettico, indolore ed ‘umano’.
Una cronaca semi-ufficiale firmata dell’Associated Press riferisce freddamente e senza troppi aggettivi i preliminari dell’esecuzione di Hedrick sulla vecchia sedia elettrica della Virginia: l’ultima dichiarazione, l’imposizione del baschetto metallico e della maschera di cuoio, i pugni serrati del condannato; poi la scarica elettrica di tre minuti somministrata da un boia nascosto, lo spasmo generalizzato del corpo proiettato in avanti, il pennacchio di fumo, i cinque minuti lasciati passare affinché il condannato si raffreddasse per consentire al medico di accertarsi con lo stetoscopio che il suo cuore non battesse più per dichiararlo morto.
Sembra una cronaca di ‘routine’ eppure lo spettacolo dell’elettrocuzione è così raccapricciante che tutti gli stati USA che la prevedevano, meno il Nebraska (*), si sono già defilati dalla sedia elettrica spontaneamente senza aspettare che le corti definissero il metodo ‘crudele ed inusuale’ e perciò contrario all’Ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Ricordiamo che in Florida – dopo che le fiamme sprigionatesi da vari condannati e l’odore di carne bruciata disturbarono i cronisti e soprattutto dopo che alcune impressionanti foto del corpo di Allen 'Tiny' Davis deformato e insanguinato, pubblicate in Internet, crearono un vespaio nell’opinione pubblica - le stesse autorità, timorose di mettere in pericolo la pena di morte e loro stesse fortune politiche, decisero di cambiare metodo all’inizio del 2000 (v. nn. 71 e 75).
Negli ultimi sei anni abbiamo più volte previsto che negli Stati Uniti non vi sarebbero state più esecuzioni con metodi diversi dall’iniezione letale. Siamo stati ripetutamente smentiti e non faremo più tale previsione. Dobbiamo infatti accettare che ragioni soggettive possano ancora spingere qualche condannato a scegliere i metodi di esecuzione tradizionali (sedia elettrica, camera a gas, impiccagione, fucilazione) ancora disponibili, a richiesta, in diversi stati.
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(*) Da oltre un anno è pendente presso la Corte suprema del Nebraska il ricorso contro l’uso della sedia elettrica avanzato dal condannato a morte Carey Dean Moore
4) NESSUNA PAUSA ESTIVA PER LA MACCHINA DELLA MORTE
La macchina della morte statunitense ha lavorato a pieno ritmo nei mesi estivi prefigurando un triste bilancio di fine anno. Tra luglio e agosto sono stati ‘giustiziati’ Derrick O'Brien , Mauriceo Brown, Brandon Hedrick , Justin Fuller, Derrick Frazier ed altri 11 detenuti.
Tutti coloro che sono iscritti alla mailing list del Comitato Paul Rougeau hanno ricevuto le richieste di partecipare agli appelli in favore di due detenuti texani: Derrick Frazier, che doveva essere ‘giustiziato’ il 27 aprile, e Justin Fuller, la cui esecuzione era programmata per il 24 agosto.
La risposta di soci e simpatizzanti alle proposte di mobilitazione è stata notevole. Specie nel caso di Derrik Frazier, le petizioni si sono molto estese anche a persone che non fanno parte della nostra mailing list. L’esecuzione di Frazier fu sospesa il 25 aprile e grande fu il nostro sollievo. Purtroppo dopo due mesi la data per Derrick è stata di nuovo fissata ed egli è stato infine ucciso dallo stato del Texas il 31 agosto. Sei giorni prima era stato ucciso come stabilito anche Justin Fuller, l’altro detenuto per il quale ci eravamo recentemente mobilitati, su proposta della socia Luciana Salibra, insieme alla Comunità di Sant’Egidio.
Come spesso accade, il ritmo delle esecuzioni si è accelerato nel periodo delle vacanze, e ciò è avvenuto particolarmente in Texas. Tra luglio e agosto sono stati ‘giustiziati’ - oltre a Derrick O'Brien , Mauriceo Brown, Brandon Hedrick , Justin Fuller, Derrick Frazier di cui parliamo in questo bollettino - altri 11 detenuti.
In due mesi le esecuzioni in Texas sono state sette; nel corso di quest’anno potrebbero arrivare a sfiorare la trentina (contro le 19 dell’anno scorso), costituendo la metà di tutte le esecuzioni portate a termine negli Stati Uniti nel 2006.
Sono 41 i prigionieri già uccisi quest’anno negli USA, di cui 20 in Texas. Altre 14 date sono state già fissate nel 2006, di cui 7 in Texas. La macchina della morte in America è sostenuta in modo determinante dal Texas: se al totale annuo nazionale (che dal 2003 si situa intorno a 60) questo stato non desse il suo robusto e crescente contributo, le esecuzioni negli USA sarebbero in sensibile discesa.
5) NEL SECONDO PROCESSO CAPITALE, ANDREA YATES E’ STATA ASSOLTA
Andrea Pia Yates, la mamma texana che nel 2001, in preda ad una gravissima depressione post partum, annegò nella vasca da bagno uno ad uno i suoi cinque figlioletti, ricevette una condanna a vita nel processo capitale del 2002. Il processo fu poi provvidenzialmente annullato a causa di una grossa scorrettezza dell’accusa. Nel secondo processo capitale a cui è stata sottoposta quest’anno, la Yates è stata giudicata non colpevole per ragioni di insanità mentale.
La spietatezza e il cinismo con cui Andrea Yates fu perseguita e processata per reato capitale nel 2002 ci fece scrivere: “Se la storia dell’Uomo avrà un futuro e se la civiltà umana andrà nella direzione da noi auspicata, il caso di Andrea Pia Yates sarà tra quelli che serviranno ai posteri per descrivere l’efferatezza di questi primi anni del terzo millennio.” (v. n. 95, “La ‘giustizia’ del Texas respinge Andrea Pia Yates nel baratro”).
Oltre alla spietatezza e al cinismo, l’esperto dell’accusa, il notissimo psichiatra forcaiolo Park Dietz, dimostrò anche molta fantasia: egli raccontò di aver prestato la sua consulenza per la realizzazione di un telefilm della serie “Law & Order” in cui una donna annega i suoi figli in una vasca da bagno e poi evita la pena perché viene giudicata pazza. Il telefilm sarebbe stato mandato in onda poco prima dell’identico delitto compiuto nella realtà della Yates.
L’accusatore Joe Owmby era andato al di là affermando, nell’arringa conclusiva, che la Yates aveva ammesso con Dietz di essersi ispirata al filmato dicendogli di aver trovato in tal modo “una via d’uscita”. Solo che, dopo la conclusione della fase del processo in cui la Yates fu dichiarata colpevole, si scoprì che il telefilm non era mai esistito!
Con la sua brillante e falsa arringa finale Owmby era dunque riuscito ad ottenere dalla giuria, dopo sole quattro ore di discussione, una sentenza di colpevolezza per reato capitale (nelle successiva fase del processo la giuria optò per il carcere a vita invece che per la pena di morte). Soprattutto per il clamoroso passo falso dell’accusa, il processo originario di Andrea Pia Yates fu annullato in appello il 6 gennaio 2005 (v. n. 125).
L’accusa non si è data per vinta, non ha mollato la presa e ha fatto di nuovo processare per reato capitale la Yates (senza poter chiedere di nuovo la pena di morte, che sarebbe andata al di là della pena già ricevuta dall’imputata per il medesimo delitto). La tesi dell’accusa, supportata da un altro ‘esperto’, il dott. Michael Werner, è stata ancora una volta che la Yates era colpevole perché capace di distinguere il bene dal male seppure malata di mente. Il movente sarebbe stato il desiderio di evitare lo stress schiacciante di allevare i bambini e di istruirli in casa. La difesa ha sostenuto invece che la sventurata, uccidendo i propri figli, credeva di compiere un atto di amore nei loro confronti, convinta di sottrarli così alle insidie del Diavolo che la possedeva. La giuria composta da sei uomini e sei donne ha discusso per complessive 13 ore nell’arco di tre giorni, molto più a lungo di quanto fece la giuria del 2002, e il 25 luglio ha reso una sentenza ragionevole: l’imputata non è colpevole per ragioni di insanità mentale. Dovrà essere rinchiusa in ospedale psichiatrico fintanto che un giudice non decida che essa abbia recuperato la salute psichica.
6) SOSPESA PER UN ANNO LA PRIMA ESECUZIONE IN SOUTH DAKOTA
Il governatore Marion Rounds ha bloccato all’ultimo momento l’esecuzione capitale di Elijah Page programmata in South Dakota per il 29 agosto. La prima esecuzione dopo il 1947 è stata da lui sospesa almeno fino a luglio del prossimo anno. Rounds ha motivato il provvedimento con la discrepanza che vi è tra il tipo di iniezione letale previsto nella legge dello stato e il protocollo messo a punto dall’amministrazione carceraria.
Elijah Page, nel 2000, appena maggiorenne, partecipò al maldestro e crudele omicidio di un coetaneo, Chester Poage. Dichiaratosi ‘volontario’ per l’esecuzione, aveva rinunciato ad un processo davanti ad una giuria, ricevendo da un giudice, nel modo più spiccio, una sentenza capitale. Successivamente aveva rinunciato agli appelli. Il South Dakota si preparava perciò ad ucciderlo il 29 agosto scorso.
La stampa aveva seguito con attenzione morbosa l’approssimarsi dell’uccisione di Page. Per mesi i media hanno incessantemente ripercorso la storia della pena di morte in South Dakota (15 esecuzioni portate a termine dal 1836 al l947) e anticipato nei dettagli il rituale secondo cui Elijah Page sarebbe stato messo a morte.
Naturalmente è stata ripercorsa in tutti i particolari la storia della tentata rapina e dell’omicidio compiuti da Page insieme a due complici sei anni fa. Non altrettanto insistentemente si è parlato delle attenuanti costituite dagli abusi e dalle privazioni subiti nell’infanzia dal condannato. Infatti Elijah Page, tolto all’età di sette anni alla madre tossicomane totalmente incapace di badare a lui, dopo essere passato per oltre una dozzina di orfanotrofi già a 14 anni era affetto da turbe psichiche che lo portavano ad un comportamento asociale e aggressivo.
A scanso di brutte figure in coincidenza con la prima esecuzione capitale dopo un sessantennio (l’ultima esecuzione in South Dakota, l’elettrocuzione di George Sitts, era avvenuta nel 1947) gli ‘addetti ai lavori’ avevano chiesto una consulenza agli espertissimi boia del Texas. Il piccolo stato del South Dakota, con settecentomila abitati e quattro condannati a morte, si è rivolto fiducioso al grande stato leader dell’iniezione letale che ha una popolazione trenta volte più numerosa e un braccio della morte cento volte più popolato.
“Il Direttore e lo staff del penitenziario hanno impiegato innumerevoli ore per prepararsi a portare a termine l’ordine della Corte.” Ha assicurato il capo dell’Amministrazione carceraria del South Dakota Tim Reisch. “Nel corso di un viaggio in Texas, il Direttore Weber e lo staff selezionato hanno messo a punto una lunga checklist di cose da fare, che ha dato luogo a numerose prove pratiche. Attraverso l’intero iter preparatorio il personale incaricato si è comportato nel più professionale dei modi.”
Il personale del Penitenziario statale di Sioux Falls, preparatosi diligentemente a portare a termine l’uccisione legale di Elijah Page, il 29 agosto era nel pieno delle incombenze previste per il giorno stesso dell’esecuzione, quando è arrivato dal governatore Marion Michael Rounds l’ordine di sospendere il procedimento.
Rounds ha rilevato una discrepanza tra quanto previsto nello statuto della pena di morte approvato nel 1979 e rivisto nel 1984 (uso di due farmaci: un anestetico e un paralizzante) e quanto invece messo a punto dallo staff carcerario in base alle usanze degli altri stati (uso di un anestetico, di un paralizzante e di un bloccante della funzione cardiaca). L’impiego delle sole due sostanze previste dalla legge del South Dakota avrebbe infatti prolungato l’uccisione, con imbarazzo di tutti i presenti, anche per più di mezz’ora.
Convocata una conferenza stampa, il governatore ha dichiarato: “Non voglio che i responsabili dell’esecuzione siano messi in una posizione che costituisce un’infrazione della legge. La sospensione varrà fino a dopo il 1° luglio 2007. In tal modo il Parlamento avrà abbastanza tempo per correggere l’attuale statuto e tener conto dei più recenti protocolli di esecuzione.”
7) SADDAM TRA DUE ASSURDI PROCESSI CHE NON FANNO CHIAREZZA
Si è conclusa il 27 luglio la fase dibattimentale del primo processo capitale contro Saddam Hussein, quello per la repressione di Dujayl del 1982. L’ultima arringa difensiva è stata letta da un anonimo avvocato d’ufficio contestato dall’imputato. Gli avvocati di fiducia si sono assentati per protesta contro la violazione dei diritti della difesa. La sentenza è prevista per il 26 ottobre ma, nel frattempo, il 21 agosto è cominciato un nuovo processo capitale contro l’ex dittatore iracheno e contro Ali Hassan al-Majid, detto Ali il Chimico. Nel secondo processo Saddam è accusato di genocidio ai danni della popolazione curda nel nord dell’Iraq nel corso della cosiddetta operazione ‘Anfal’ dal 1988.
Quello che è stato definito ‘processo farsa’ non poteva che concludersi in modo farsesco. Assenti gli avvocati difensori fin dal 10 luglio (giorno in cui sono cominciate le arringhe in favore degli imputati minori), presente l’imputato che sostiene di essere stato costretto con la forza a comparire in aula, l’arringa conclusiva a difesa di Saddam Hussein è stata pronunciata da un avvocato nominato dalla corte contro il volere dell’imputato.
L’anonimo difensore d’ufficio – invisibile e con la voce contraffatta per ragioni di sicurezza – il 26 luglio ha letto con cadenza monotona un documento di 75 pagine. Saddam, proseguendo nella tattica di sabotare il più possibile un processo che fa acqua da tutte le parti, ha apostrofato il legale d’ufficio: “Tu sei il mio nemico!” e poi, interrompendolo: “Non voglio che la mia storia venga macchiata da questo!” Pallido e smagrito, ospedalizzato e nutrito con un sondino nasale nei tre giorni precedenti, era reduce da uno sciopero della fame durato due settimane per protestare contro la violazione dei diritti della difesa. Ha chiesto più volte di essere portato via.
Questa volta non possiamo dar torto a Saddam Hussein dal momento che erano più che ragionevoli le richieste minime avanzate dai suoi difensori dopo l’eliminazione dell’avvocato Khamis Ubaidi compiuta il 21 giugno. Ricordiamo che Ubaidi fu rapito, torturato e ucciso, all’inizio del periodo stabilito per le arringhe conclusive a difesa, da uno squadrone della morte sospetto di appartenere all’area sciita filo-governativa (v. n. 140). In una lettera alla corte la difesa aveva chiesto di garantire la sicurezza degli avvocati difensori, di sospendere per 45 giorni il processo per dar modo di riorganizzare le arringhe conclusive, di concedere un tempo senza limiti ai difensori per svolgere gli argomenti finali. Tutte le richieste erano state respinte, così come quella precedente di sentire 62 testimoni a discarico.
Il 27 luglio – dopo aver concesso all’imputato la facoltà di fare un’eventuale dichiarazione finale - il giudice Raouf Abdul Rahman ha chiuso la fase dibattimentale del processo. Il collegio giudicante composto da cinque membri emetterà la sentenza dopo aver rivisto la documentazione agli atti. Ciò accadrà probabilmente il 26 ottobre.
Nell’arringa finale il misterioso avvocato d’ufficio ha comunque sollevato con una certa perizia importanti questioni sulla legalità del processo. Sembra tuttavia improbabile che la corte giudicante voglia prendere in considerazione argomenti a questo livello prima di emettere le sentenze, sentenze che per Saddam e tre dei coimputati potrebbero essere condanne all’impiccagione.
Le autorità irachene hanno dichiarato più volte ai media che prevedono una sollecita esecuzione della sentenza capitale per Saddam, data per scontata. Saddam ha già chiesto di essere fucilato – ritenendosi un militare – nel caso di una sentenza di morte. L’accusa ha respinto tale richiesta dicendo che l’ex dittatore è ormai un civile e come tale, se condannato a morte, dovrà essere impiccato.
Il 21 agosto - nella stessa aula in cui si è svolto il processo che sta per concludersi, unica aula disponibile - un processo del tutto nuovo con un nuovo giudice presidente, Abdullah al-Amiri, è stato aperto a carico di Saddam Hussein e sei ex collaboratori: Sabir al-Douri, Sultan Hashim Ahmad al-Tai, Ali Hassan al-Majid, Taher Tawfiq al-Ani, Rashid Mohammed e Farhan Mutlaq Saleh.
Oltre a Saddam, imputato di spicco è Ali Hassan al-Majid, detto Ali il Chimico, accusato di aver avuto un ruolo preminente nell’organizzazione dell’operazione ‘Anfal’ (‘bottino di guerra’), svoltasi tra il 23 febbraio e il 6 settembre 1988, tesa a fare una specie di pulizia etnica nei riguardi dei Curdi che abitavano il nord dell’Iraq. I Curdi in rivolta venivano infatti considerati ‘nemici’ nel corso della guerra contro l’Iran. Hassan sarebbe stato un esperto nell’uso dei gas venefici contro i civili, da qui l’appellativo di “chimico”. L’accusatore Jaafar al-Moussawi (e anche organizzazioni per i diritti umani come Human Rights Watch) fanno carico al regime di Saddam dello sterminio di decine di migliaia di persone (tra 50 mila e 100 mila secondo alcune stime) e della deportazione delle popolazioni.
Lo scetticismo intorno al secondo processo contro Saddam Hussein è profondo e generalizzato. Se il primo processo, sia nell’impianto che nella conduzione, si è mantenuto molto al di sotto della sufficienza, che cosa possiamo prevedere per il secondo basato su accuse estremamente più ampie e complesse di quelle del primo?
Come nel precedente processo, il 21 agosto Saddam Hussein si è rifiutato di dichiararsi colpevole o innocente. “In questo giudizio sei accusato di genocidio, di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Ti dichiari colpevole o innocente?” ha chiesto il giudice al-Amiri. Al che Saddam: “Occorrerebbero volumi su volumi per rispondere”. Il giudice ha quindi ordinato di registrare la dichiarazione di Saddam come una dichiarazione di innocenza.
Non è facile determinare la reale consistenza dei crimini di massa contestati a Saddam e collaboratori. Potrebbero anche esserci grosse esagerazioni nelle stime che circolano da anni, facilitate dal fatto che nessuno si è mai peritato di controbattere alle accuse - men che meno il regime di Saddam Hussein perennemente affaccendato nelle questioni strettante inerenti al mantenimento del potere.
Non è facile. Ma forse non impossibile procedendo con estremo rigore e impiegando tutte le risorse necessarie per estese ricerche indipendenti. E il diritto delle genti lo richiederebbe. Ci domandiamo però se qualcuno, tra i soggetti attivi nello scenario internazionale, potrebbe avere un interesse a conoscere ciò che realmente avvenne nel Kurdistan Iracheno nel 1988. Non sembrano sentirne l’urgenza i vincitori di turno e nemmeno il Tribunale Speciale di Baghdad.
8) PROSPETTATA LA PENA DI MORTE PER CINQUE COMBATTENTI USA IN IRAQ
Gli autori di almeno cinque stragi compiute recentemente dagli Americani in Iraq ai danni di civili vengono per lo più indagati in segreto e con molta cautela. La necessità di individuare qualche capro espiatorio per una condotta che sta irritando perfino le autorità filoamericane del Paese, potrebbe portare ad una o più condanne a morte. Nessun militare è stato ancora incriminato per l’uccisione di 24 civili ad Haditha il 19 novembre, ma l’accusa sembra puntare ad un processo capitale nei riguardi di cinque militari coinvolti nello stupro di un’adolescente e nel contestuale sterminio di quattro persone avvenuti il 12 marzo a Mahmudiya. Rimangono forti perplessità sulla reale volontà di indagare a fondo, di perseguire rigorosamente e di prevenire comportamenti criminali da parte delle truppe di occupazione.
Nell’articolo “Addestramento etico dei marine in Iraq” comparso nel numero 140, abbiamo descritto, tra le altre stragi, quella di 24 civili - tra cui vecchi, donne e bambini - perpetrata da soldati americani ad Haditha in Iraq il 19 novembre, strage venuta alla luce in marzo in coincidenza con un’indagine giornalistica del Time. Abbiamo anche accennato allo stupro e all’uccisione di una ragazza e all’eliminazione di tre suoi familiari perpetrati il 12 marzo da soldati americani a Mahmudiya, cittadina a sud di Baghdad, crimine del quale è cominciato a trapelare qualcosa a fine giugno, proprio mentre scrivevamo l’articolo di cui sopra (*).
Entrambi questi episodi si sono risaputi con difficoltà, dopo tentativi di nasconderli o di falsificarne la natura. In un primo tempo la strage di Haditha fu fatta passare come la conseguenza di uno scontro con insorti. La responsabilità del turpe massacro di Mahmudiya fu inizialmente attribuita ad Iracheni.
Nel corso dei mesi di luglio e di agosto si è dato un forte impulso ai procedimenti contro gli autori della strage di Mahmudiya: sei militari di basso rango particolarmente crudeli, ottusi e sprovveduti. Ma fare chiarezza sulla strage di Haditha, e punire i responsabili, sembra molto più difficile. Da un rapporto segreto della Difesa, scoperto dal New York Times in agosto, risulta infatti che lo stesso corpo dei Marine ha ostacolato le indagini arrivando a nascondere o ad alterare alcune prove. Nessuno è stato ancora posto sotto accusa.
Non è lecito lasciar sfumare l’uccisione di un numero relativamente basso di civili da parte della truppe americane quasi fosse un problema trascurabile sullo sfondo del bagno di sangue causato dagli attentati che avvengono quotidianamente in Iraq, dal momento che a violare il diritto alla vita e gli altri diritti fondamentali sono proprio coloro che si dicono portatori della libertà, della democrazia e dello stato di diritto.
Il 4 luglio il Primo ministro iracheno Nouri al-Maliki ha dichiarato: “l’immunità data ai membri delle forze della coalizione le incoraggia a commettere questi crimini a sangue freddo (…) E’ necessario riesaminare il problema.” E’ certo tuttavia che gli Usa non accetteranno mai di intaccare il trattato che conferisce alle forze della coalizione, al personale diplomatico e ai ‘contractors’ una totale immunità nei confronti dell’autorità giudiziaria irachena. E’ noto che l’immunità viene sempre chiesta, con le buone o con le cattive, quando le forze USA vengono mandate all’estero. Sappiamo che l’amministrazione Bush si è rifiutata di aderire al Tribunale Penale Internazionale in gran parte per il timore che militari americani possano essere messi sotto accusa per azioni compiute all’estero. Una legge del Congresso del 2002 impedisce addirittura l’invio di militari USA in missioni di ‘peacekeeping’ dell’ONU senza una preventiva garanzia di immunità.
Una massa di documenti, su cui in questi anni è stato parzialmente tolto il segreto, dimostra che la forte riluttanza a punire i crimini commessi dai militari americani appartiene ad una lunga tradizione che risale almeno agli anni della guerra del Vietnam (**). Pur essendo frequenti le uccisioni di civili e i casi di tortura ai danni dei prigionieri vietnamiti (torture identiche a quelle inferte dagli Americani ai prigionieri iracheni di Abu Ghraib) i responsabili uscirono quasi sempre indenni dalle relative inchieste, nei casi in cui le inchieste furono avviate. Nel corso di tutta la lunga sanguinosissima guerra del Vietnam, soltanto 122 militari americani ricevettero una qualche sanzione penale per aver ucciso dei non combattenti.
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(*) Si è poi saputo che sono stati incriminati di stupro ed omicidio - accuse che comportano la pena di morte - cinque soldati: Steven D. Green, di 21 anni, James P. Barker, di 23, Paul E. Cortez, di 23, Bryan L. Howard, di 19 e Jesse Spielman di 21. Un sesto militare, Anthony W. Yribe, sarebbe responsabile soltanto di favoreggiamento. Dal racconto di testimoni e dalle stesse confessioni e testimonianze dei militari incriminati risulterebbe che alcuni fra loro meditarono per giorni l’impresa prima di ubriacarsi, mascherarsi, vestirsi di nero e fare una capatina in un’abitazione rurale distante circa 200 metri dal checkpoint presso cui prestavano servizio. Loro intenzione era di stuprare una ragazza di 14 anni, Abeer Qasim Hamza al-Janabi, che avevano adocchiato. Baker e Cortez violentarono a turno la ragazza. Green sterminò i genitori della vittima e la sorellina di 5 anni per non lasciare testimoni, prima di stuprare a sua volta l’adolescente, di ucciderla e di tentare di bruciarne il corpo.
(**) V. ad es.: “A tortured Past” in Los Angeles Times del 20 luglio 2006
9) FUCILATI PER IGNOMINIA, ORA VENGONO RIABILITATI
Dopo circa un secolo dai tragici fatti che li hanno coinvolti, e dopo decenni di lotte da parte dei loro familiari e di alcuni anziani attivisti, oltre 300 soldati inglesi, fucilati per diserzione o codardia durante la prima guerra mondiale, vengono formalmente riabilitati e saranno ufficialmente assolti dei reati loro contestati con un provvedimento collettivo del Parlamento.
La decisione, annunciata il 16 agosto dal Ministro della Difesa britannico Des Browne, di riabilitare 306 combattenti della prima guerra mondiale che furono ‘giustiziati’ per diserzione o codardia, ha suscitato gioia e sollievo nei familiari ancora in vita dei soldati suo tempo così crudelmente uccisi dai propri commilitoni. Si è finalmente capito che le fughe dal fronte di quei poveri ragazzi o il rifiuto di obbedire a certi ordini derivavano da motivi diversi dalla vigliaccheria, spesso dai tremendi traumi psichici provocati dall’orrore della guerra stessa. La decisione del Ministro di accogliere le istanze di familiari ed attivisti, senza riaprire i casi individuali ma sollecitando dal Parlamento un provvedimento collettivo, conferisce un chiarissimo significato ideale all’iniziativa.
Riportiamo alcuni dei casi dei militari che furono ‘giustiziati’ mediante fucilazione nella schiena, così come sono stati ricostruiti dalla BBC.
Il soldato semplice Thomas Highgate commise il “reato”, fu processato, condannato e fucilato nello stesso giorno, l’8 settembre 1914. Aveva diciassette anni! Non era stato capace di sopportare la vista della carneficina durante la Battaglia di Mons, così fuggì e si nascose in un granaio. Non fu difeso da nessuno durante il processo davanti alla corte marziale perché i suoi compagni di reggimento erano stati tutti uccisi, feriti o catturati. Egli fu il primo soldato a essere fucilato per diserzione, appena 35 giorni dopo lo scoppio della guerra.
Il soldato semplice Harry Farr andò volontario a combattere per il suo paese nel 1914 – l’anno in cui iniziarono le ostilità con la Germania. Aveva già servito nell’esercito tra il 1908 e il 1912. Allo scoppio della guerra era sposato e aveva una bimba di un anno. Farr combatté nella battaglia della Somme e a Neuve Chapelle. Fra il 1915 e il 1916 ebbe quattro esaurimenti nervosi e trascorse cinque mesi in ospedale. Tornò al fronte con il West Yorkshire Regiment, ma fu spedito alla corte marziale dopo essersi rifiutato di andare in trincea nel settembre 1916: diceva che non poteva più sopportare il rumore dell’artiglieria e che non stava bene.
Al processo del 16 ottobre 1916, Farr fu ritenuto colpevole di “comportamento scorretto di fronte al nemico, tale da dimostrare codardia”, e fu fucilato la mattina seguente, all’età di 25 anni. Si rifiutò di farsi bendare davanti al plotone di esecuzione e il cappellano dell’esercito scrisse alla sua vedova che “non ci fu mai soldato migliore”. La figlia di Farr, Gertrude, che all’epoca aveva 3 anni e adesso ne ha 93, ha dichiarato: “Sono così felice che questa storia sia finita e posso ritenermi soddisfatta che la memoria di mio padre ne esca immacolata”.
Il soldato semplice Herbert Burden mentì riguardo alla sua età (aveva 16 anni e disse di averne 18) per entrare a far parte dei Fucilieri del Northumberland e prender parte al conflitto. Dieci mesi dopo fu processato alla corte marziale per diserzione e fucilato; era il 21 luglio 1915, aveva 17 anni. Si era allontanato dal suo battaglione per raggiungere e confortare un compagno sconvolto dalla perdita di molti altri suoi amici durante la Battaglia di Bellwarde Ridge.
Il monumento che fu eretto nel 2001 a Staffordshire, in memoria dei soldati uccisi a seguito di condanna a morte durante la prima guerra mondiale, rappresenta un giovane bendato e legato a un palo, ed ha le sembianze del soldato Burden.
Il soldato semplice Charles Kirman fu fucilato per aver lasciato l’esercito senza congedo dopo aver combattuto ed essere stato ferito in due delle più sanguinose battaglie: a Mons e alla Somme. Aveva 32 anni quando fu ucciso, il 23 settembre 1917. Durante la guerra fu ferito numerose volte ed era stato più volte mandato a casa in licenza per riprendersi, ma nel settembre 1917 sentì di non farcela più e se ne andò senza congedo. Dopo due giorni si consegnò spontaneamente alla polizia militare: fu processato alla corte marziale e fucilato all’alba.
Quando i suoi compaesani dovettero decidere per una lapide a ricordo dei loro caduti in guerra, molti dissero che “se non poteva essere incluso il nome di Kirman, allora nessuno doveva essere iscritto” e così per 87 anni nel paese natale di Kirman non c’è stata alcuna lapide a ricordare i caduti. Ora verrà scolpita e ci sarà anche il suo nome.
Le sofferenze psicologiche e i problemi di coscienza di questi ragazzi furono simili a quelli che oggi affliggono i militari inglesi, americani e israeliani negli attuali conflitti in Medio Oriente. Si sa che un gran numero di combattenti sono attualmente sotto cura psichiatrica, v. ad es. nel n. 124, “L’onda lunga della violenza”(*). Eppure anche adesso i soldati vengono processati dalle corti marziali per essersi rifiutati di andare a seminare morte e distruzione. Le condanne però, per fortuna, non sono più capitali.
Rendendo nota la notizia della riabilitazione dei soldati Inglesi, dobbiamo ricordare quanto fu ampio e crudele lo sterminio fratricida in seno alle truppe italiane schierate contro l’esercito austro-ungarico nelle terribili battaglie del Nord Est tra il 1915 e il 1918. Nel corso del carnaio della prima guerra mondiale, furono migliaia i giovani Italiani uccisi dai plotoni d’esecuzione o dagli ufficiali per diserzione o codardia, o semplicemente per essersi sbandati dopo la disfatta di Caporetto (**). Speriamo che anche nei riguardi di costoro si destino prima o poi il senso di pietà e il rimorso della Nazione. (Grazia)
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(*) Uno studio pubblicato su “Science” a metà agosto rileva che mezzo milione di ex combattenti USA in Viet Nam soffrono tuttora della ‘malattia da stress post traumatico’.
(**) Delle migliaia di condanne a morte emesse dai tribunali militari italiani durante la prima guerra mondiale - per lo più in contumacia - ne furono eseguite 729. Oltre a queste uccisioni ufficiali, si stima che vi furono migliaia tra esecuzioni sommarie e decimazioni – di fatto autorizzate e incoraggiate dai comandi e mai perseguite - compiute sul campo.
10) PIU’ SEI NERO, PIU’ TI VOGLIONO AMMAZZARE
Un nuovo studio, condotto in quattro università americane, ha dimostrato che quando la vittima di un reato capitale è di razza bianca, i giurati sono tanto più inclini a raccomandare la condanna a morte quanto più marcatamente l’imputato presenta le caratteristiche razziali dei Neri.
Quattro docenti universitari di legge e di psicologia, dell’Università Cornell, e delle università di Stanford, di Los Angeles e di Yale hanno pubblicato nel numero di Maggio 2006 di Psychological Science il rapporto sull’incidenza dei fattori razziali nelle condanne capitali intitolato: “Chi sembra meritarsi la morte: gli stereotipi degli imputati neri preparano la condanna a morte”.
Interessante è il metodo che è stato utilizzato per effettuare questo studio coordinato dal professore di legge della Cornell University, Sheri Lynn Johnson. Sono state prese 44 fotografie di Neri incriminati in Pennsylvania per l’omicidio di Bianchi. Queste fotografie sono state mostrate a numerosi studenti, di varie etnie, dell’università di Stanford, ed è stato loro chiesto di attribuire un punteggio, da 1 a 11, agli individui rappresentati, che indicasse la “quantità” di caratteri tipicamente africani da loro posseduta. Fu detto agli studenti che potevano basare il loro giudizio su molti aspetti fisici, come il tipo di capelli, la tonalità della pelle, la forma del naso e delle labbra. Non fu detto agli studenti che si trattava di individui incriminati di reati capitali.
Gli studiosi hanno poi messo in relazione le risposte degli studenti con il tipo di condanna ricevuto dai soggetti fotografati. Nel calcolare il risultato hanno tenuto anche conto delle altre variabili (ossia fattori aggravanti o mitiganti, gravità dell’omicidio commesso e status socio-economico degli imputati e delle vittime), analizzate attraverso la comparazione con altri 600 casi di condanne a morte di neri a Philadelphia. Il risultato ha dimostrato che, al netto dell’incidenza di tutte le altre variabili, il 58% dei pregiudicati che presentavano caratteri “afro” più marcati era stato condannato a morte. Dall’altro lato, solo il 24% di quelli che presentavano caratteristiche afro molto meno marcate era stato condannato a morte.
Questo risultato però si evidenzia solo nel caso di Neri che abbiano ucciso dei Bianchi, perché nel caso di Neri che abbiano ucciso Neri, la percentuale di caratteri afro non ha correlazione con la probabilità di una condanna a morte.
Si tratta ovviamente di un’ulteriore conferma di un fattore molto disturbante: anche involontariamente, i giurati sono più proclivi a condannare a morte un Nero per l’omicidio di un Bianco, piuttosto che un Bianco per lo stesso tipo di omicidio, o un Nero per l’omicidio di un Nero.
I Neri, che delinquono molto frequentemente specie ai danni dei Neri, vengono ordinariamente puniti negli USA con pene detentive. Nei rari casi in cui un Nero si azzarda ad uccidere un Bianco, sembra non bastare una pena detentiva e si vuole la morte del reo. (D’altra parte anche in Italia si tocca con mano un’asimmetria nell’incidenza dei fattori razziali e xenofobi nei casi criminali: numerosissimi reati compiuti da ’extracomunitari’ ai danni di extracomunitari trovano al massimo qualche riga sul giornale ma quando un Magrebino o un Albanese fa una vittima bianca, ottiene un posto d’onore nei titoli dei telegiornali.)
Il risultato della ricerca americana non rappresenta purtroppo una novità assoluta: gli “addetti ai lavori” sanno bene quanto i fattori razziali influiscano nell’emissione delle condanne a morte. Dati così chiari ottenuti da università tanto prestigiose, potrebbero tuttavia indurre qualche stato a modificare almeno le norme riguardanti la formazione e l’istruzione del giurie nei processi capitali. Non dobbiamo invece contare molto sul possibile impatto della ricerca sul desiderio “forcaiolo” di molti cittadini americani: sappiamo che purtroppo il popolo non appare molto incline a recepire messaggi eruditi, e si lascia piuttosto influenzare dai media, che sanno “filtrare” le notizie per ottenere la massima ‘audience’. (Grazia)
11) MENTRE VOI DORMIVATE…
Questo amaro scritto di Tony Ford, condannato a morte in Texas, ci è stato inoltrato, con amarissimi commenti, da Stefania e Laura. Dice Laura: “… Lo scontro dei punti di vista è ogni volta più sorprendente. Loro insistono nel dire che non entriamo nel loro mondo, e noi trasecoliamo per come loro non entrano nel nostro. E' necessario un ponte. Purtroppo, anche se si infuriano a morte, anche se portano avanti le loro proteste a caro prezzo (privarsi degli ultimi comfort prima di morire, è davvero un grande sacrificio), le loro voce è quella della formica: flebile e inudibile… Inutile come ogni testimonianza che porta sollievo solo a chi la produce e si sfoga. Che loro urlino la loro contrarietà all'essere fatti fuori non ci fa avanzare d’un passo. Perché non commuove il governatore, il Board of pardons, i carcerieri, gli esecutori… Possiamo sforzarci di provare l'enorme frustrazione… e tanto dolore, rabbia, angoscia, umiliazione che loro provano: ma la pena di morte è uno schiaccia sassi che non si arresta davanti alla formica, NO. Quindi penso che il nostro compito sia (e mi piacerebbe sentire il parere di chi di voi intrattiene corrispondenza con qualche detenuto) di far capire che l'unica lotta possibile è quella che serve a portare a casa dei risultati, e non semplicemente a manifestare disagio. Che insegnino a votare ai loro parenti e amici, tanto per dirne una.” Anche se non condividiamo tanto pessimismo (sia di Tony che di Laura), proponiamo il pezzo per una approfondita meditazione ai nostri lettori. Li invitiamo a impegnarsi per rendere più efficace lo sforzo a sostegno dei detenuti e contro la pena di morte. Non sentiamoci appagati da quanto facciamo per inclinazione e per istinto: cerchiamo di essere più razionali e sistematici nelle nostre iniziative (cfr. quanto pubblicato nel n. 135 sulle ‘strategie abolizioniste’).
Stare qui, in questo inferno, mi permette di avere molto tempo per pensare. Qualcuno dirà che penso troppo... ma non posso farci niente. Io sono introspettivo e credo che questo sia il solo modo che ho per crescere e costruire qualcosa dagli errori che ho fatto nella vita.
Bene, qui stanno succedendo molte cose, non tutte buone. Ma ci sono alcune cose buone che accadono anche se credo che le persone nel mondo fuori dal carcere non le sappiano, a meno che non riguardino qualche detenuto che ha molti sostenitori. O qualcuno che abbia alle spalle un’organizzazione che valorizzi le cose che fa, contro la pena di morte, per ottenere giustizia nel suo caso e per rendere consapevole l’opinione pubblica.
Comunque, le cose buone accadono, e non vedo l'ora si risappiano, come la protesta che periodicamente avviene quando qualcuno è abbastanza sfortunato da arrivare all’ultimo giorno della sua vita sulla terra. Il brutto è che a quanto pare nessuno nel mondo esterno ci fa caso. Non le agenzie di stampa, sia quelle “ufficiali” sia quelle indipendenti. Pare che nemmeno gli amici delle persone uccise dallo stato, abbiano raccolto le loro ultime prese di posizione e le abbiano messe di fronte alla pubblica opinione. Così, in un certo senso, sono incazzato. E sono anche deluso.
Ma facciamo un passo indietro, lasciatemi spiegare di cosa sto parlando, ok.
L’anno scorso, quando ho ricevuto la data di esecuzione, il 7 dicembre, ho iniziato una protesta non-violenta. Persino quando la data è stata posticipata al 14 marzo di quest’anno ho continuato a protestare. Ora, per favore, cercate di capire che la protesta mi è costata molto disagio e sofferenza. La maggior parte dei detenuti in questa situazione, semplicemente lasciano scorrere il tempo che resta – mangiano più che possono, si godono le ultime visite, etc… e cercano di vivere come se tutto fosse ok, sebbene lo stato abbia in mente di ucciderli... in nome della giustizia… nel nome del popolo.
Per me questo NON PUÒ essere “ok”. E non lo sarà mai. Per me è inconcepibile che si possa accettare l'uccisione di qualcuno. Pensando soprattutto agli innocenti, mi chiedo come si possa far finta che tutto sia ok!!! Senza opporre resistenza. Non sto parlando di violenza. Sto parlando di semplice resistenza contro qualcosa di così ingiusto. Di così sbagliato.
Il mio punto di vista è sempre stato questo: non mi trovo in un letto di ospedale, non sto morendo di una malattia incurabile. Lo stato sta dicendo che MI UCCIDERÀ. E se non accadrà niente di positivo, loro lo faranno. Quindi ho bisogno di gente che stia al mio fianco e dalla mia parte mentre lotto per la vita. Questa è stata la mia richiesta, dal giorno numero UNO. Ma so che una simile richiesta va oltre ciò in cui molte persone pensano consista la lotta alla pena di morte….
Mi ricordo dello sconcerto con cui appresi come la gente protesta mentre un uomo viene ucciso dallo stato del Texas. Pensate: accendono delle candele! Ma lo stanno prendendo in giro? Pensai. Ciò può suonare sgarbato, ma non riuscirò mai a capire come ci si accontenti di rimanere là impalati mentre l’esecuzione avviene… A volte le persone si incatenano insieme per salvare un ALBERO. O per salvare animali dall’uccisione o dall’abuso. Alcuni si recano di fronte alle cliniche per ottenere dei farmaci per curare gli animali. Ma per noi qui: accendete un candela??? No, non posso capire. Le idee e le azioni vanno apprezzate, ma non può essere che non si possa far di meglio per convincere il pubblico che lo stato non deve uccidere i suoi cittadini. Se tu fossi una mosca e potessi posarti su un muro qui dentro capiresti che effetto ha un tal tipo di protesta su di noi. Protesta che in ogni caso, ripeto, viene apprezzata. Ma proprio non si può fare niente di più?
Io stesso, insieme ad alcuni compagni come Ponchai “Kamau” Wilkerson, Emerson “Giovane Leone” Rudd, pensai: “Bene, può darsi che la lotta là fuori non sia animata ed incisiva perché noi qui dentro non facciamo nulla!” Allora ci siamo impegnati a fare qualcosa per mostrare che non stiamo qui a discutere di sport. Per dimostrare che stiamo combattendo la nostra battaglia. Cercando di dare l’esempio. Dopo essere stati colpiti in testa, dopo che ci sono state distrutte innumerevoli preziose proprietà personali – con umiliazioni peggiori di quelle già usualmente subite – noi non abbiamo ancora raccolto il supporto esterno che ritenevamo potesse scaturire dalle nostre azioni.
Dico che sono stato trascinato e picchiato, insieme ai fratelli che ho menzionato e a molti altri. Ho visto Howard “L.D.” Guidry trascinato lungo tutto il corridoio come un tronco essendosi rifiutato di camminare, mentre faceva la sua parte per protestare contro gli abusi che avvenivano a Ellis [l’unità in cui si eseguono le condanne a morte]. Ho visto il fratello Shaka Sankofa (Gary Graham) subire la distruzione delle sue proprietà per aver avuto l’ardire di far conoscere ciò che avviene qui nel braccio della morte. Ho visto Willie McGinnis digiunare fin quasi alla morte quando fece il suo turno di sciopero della fame per protestare contro le esecuzioni e le inumane condizioni di detenzione. Fratelli picchiati e gassati per aver avuto il coraggio di opporsi e impegnarsi nelle azioni che riteniamo possano galvanizzare il pubblico nella causa… ma tutto ciò ha avuto l’effetto opposto. Siamo stati abbandonati da tutti. Ci è stato detto di calmarci, di non causare problemi. Questo a dispetto del fatto che venivamo picchiati e umiliati comunque!
Abbiamo scelto le proteste pacifiche non-violente ritenendo che siano qualcosa di ‘sicuro’ per le persone. Atti inconsulti compiuti per far male ad altri esseri umani non furono mai presi da noi in considerazione. Abbiamo scelto un tipo di protesta non-violento anche per mostrare che non siamo dei ‘mostri’ come veniamo descritti. La domanda che ci siamo posti è sempre stata: “CHE COSA dobbiamo fare per ottenere il massimo apporto dall’esterno? Per mostrarvi che siamo con voi, sperando che voi siate con noi, mentre sviluppiamo un AUTENTICO attivismo contro la pena di morte, unendoci ad altre battaglie di gente oppressa contro i rispettivi governi?”
Ebbene, malgrado la censura che probabilmente vi è nei riguardi di ciò che avviene nei bracci della morte, ho saputo che le cose che stiamo facendo qui in Texas sono accadute anche in altri bracci della morte. Una cosa che però mi ha davvero esaltato è stato di ascoltare l’intervista fatta da “Democracy Now” (Amy Goodman) a Kevin Cooper, condannato a morte in California. Egli ha dichiarato, affinché tutto il mondo lo ascoltasse: “…non collaborerò alla procedura marcia e perversa dell’assassinio sanzionato dallo stato…, non farò nulla di violento, ma non farò neppure nulla per aiutarli ad uccidermi”… Queste sono state le parole più importanti che ho mai ascoltato da un condannato a morte. Fino ad allora non sapevo chi fosse Kevin Cooper. Ma le sue parole hanno avuto in me profonda risonanza, ed ho cominciato a riflettere su chi lotta qui in Texas. Così, quando si è avvicinata la mia data di esecuzione, mi sono determinato a non aiutarli in questa procedura di morte, di assassinio. Perciò, il 2 novembre 2005 ho iniziato la mia protesta. E questa protesta ha condotto altri a opporsi con me in solidarietà: Rob Will, Gabriel Gonzales, Andre Simpson, Kenneth Foster, Reginald Blanton e Robert Woodard. Hanno tutti collaborato con me offrendo resistenza nonviolenta passiva – sperimentando tutta la durezza e la sofferenza che la direzione carceraria ci ha inflitto. Ma non ci siamo spezzati. Siamo rimasti forti. E questo ha galvanizzato altri uomini a cui era stata fissata la data di esecuzione.
E così, Shannon “Big Tank” Thomas e Marion Dudley si sono coricati per terra protestando il giorno della loro esecuzione! Gli amici e i familiari di Big Tank hanno anche protestato nella sala delle visite e si sono messi a correre nei cortili gridando il loro dissenso alla sua uccisione! Quale sostegno fu dato alla loro azione e al loro sacrificio? Poi, Tommy Hughes protestò in modo nonviolento. Di nuovo, dov’era il sostegno esterno? Tee era stato SEMPRE coinvolto nelle proteste qui dentro. E quindi le persone fuori hanno sempre saputo che quest’uomo coraggioso era un guerriero che si impegnava per ciò in cui credeva, e non poteva accettare l’ingiustizia che veniva commessa nei suoi riguardi – anche se la sua morte placava la sete di sangue di chi aveva richiesto a gran voce il suo assassinio! Poi fu la volta di Timothy Titsworth. Anch’egli si coricò per terra per protesta. Non affermava di essere innocente, affermava che la sua vita era preziosa e valeva qualcosa, e che UCCIDERE E’ SBAGLIATO! E chi può dimenticare la coraggiosa posizione presa durante l’esecuzione da Lamont Reese? La sua protesta, insieme a quella di sua madre, che si mise a gridare: “Stanno uccidendo il mio bambino!” arrivò fino alla CNN e alla MSNBC!!! E anche Mauriceo Brown si coricò in terra per protesta!! E per ultimo William “Motown” Wyatt!!
TUTTI questi uomini hanno preso posizione contro l’ingiustizia. Non ha importanza che cosa si pensava di loro o dei loro casi giudiziari. Hanno preso una posizione coraggiosa e nulla o quasi è stato detto di tutto ciò… DOV’E’ IL SOSTEGNO? Io non lo so, ma so che invece qui nel braccio della morte quegli uomini assassinati dallo stato hanno avuto un sostegno. Mi sbalordisce soltanto che quando leggiamo i notiziari scritti dagli abolizionisti non si dice NULLA di questi uomini!!! E quindi dubito se tutte le nostre azioni siano compiute invano. Perché coloro che affermano di battersi per porre fine alla pena di morte non si sollevano e sostengono le nostre azioni in modo più eclatante di quanto abbiano fatto finora? Smettete di rimanere fermi ai lati della strada permettendo che ci uccidano senza portare alla luce le nostre azioni…
Comunque, sappiate che alcune cose SONO AVVENUTE qui dentro… mentre voi dormivate.
Tony Egbuna Ford - 9 agosto 2006
12) FUORI DALLA PROSPETTIVA di Tasha Narez Foster
Riportiamo, con qualche perplessità, la traduzione di un brano scritto da Tasha, l’attuale compagna del nostro amico Kenneth Foster. Sia Kenneth che la stessa Tasha ci hanno chiesto di pubblicare il pezzo - già inserito in lingua originale inglese in Internet - anche se di carattere intimistico. Il brano può contribuire a dare ai nostri lettori un’idea delle persone e dei sentimenti che ruotano attorno al braccio della morte del Texas.
Sono le cinque del mattino; mi trovo ad un passo dal luogo che odio con tutto il cuore. Non mi sveglio mai veramente presto, tranne quando si tratta di lui; è come se la mia sveglia biologica iniziasse a suonare almeno due ore prima di quando devo essere pronta.
Cerco di prepararmi il più lentamente possibile, ma alle sei sono vestita e pronta per andare. Prendo carta e penna per scarabocchiare qualche parola sul diario che tengo per lui e metto su la musica di “Lyfe Jennings – Must be nice”. Mi piace descrivere alcuni sentimenti sul momento, così lui sa di essere con me spiritualmente attraverso ogni attimo. Mi fa piacere che lui sappia che cosa provo riguardo ad ogni piccolo particolare, così può capire perché a volte mi comporto come mi comporto e perché dico ciò che dico; deve capire le radici di ciò che poi esce dalla mia bocca.
Proprio adesso sono nervosa. E’ assurdo, è di nuovo come il primo giorno di liceo. Ogni volta è così. Pensandoci, sto andando in un luogo che odio tanto per trascorrere due ore con qualcuno che amo con tutto il cuore. Onestamente, appena si avvicina il momento in cui sto per vederlo, tutto svanisce – il tempo e lo spazio non contano più – tutto ciò che conta è il tempo che trascorreremo insieme. Sono vissuta per queste due ore per settimane, se non per mesi.
Quando vado a fargli visita sento che le persone pensano: “Cosa ci fa una donna come lei qui? Davvero viene a trovare qualcuno nel braccio della morte?”, come se le visitatrici del braccio della morte dovessero corrispondere a certi parametri. Ho visto guardie che scuotevano la testa guardandomi come se stessero cercando di dirmi che erano dispiaciute per me e mi sono persino scontrata con un altro visitatore mentre aspettavo che portassero dentro la cabina mio marito. Sembra che proprio la gente non capisca che quando si ama qualcuno non ha alcuna importanza dove egli si trovi. Solo perché mio marito è nel braccio della morte, non significa che non sia speciale, o che la gente dovrebbe provare dispiacere per me. Onestamente, ho una relazione migliore di quelle di tante persone nel mondo libero, perché mio marito ed io comunichiamo davvero – inoltre io non sono costretta ad amarlo o a venire a trovarlo. Lo amo per ciò che è, e per ciò che lo interessa, e vengo a trovarlo perché lo voglio io.
Finalmente portano fuori mio marito e lui mi sorride, mi sento come se potessi di nuovo respirare. Abbiamo due ore per parlare di tutte le cose di cui non ci fa piacere discutere per iscritto, sapendo che ci sono alcune persone che leggono la posta per rimanere aggiornate sulla situazione (personale) dei detenuti in caso si dovesse mettere in atto un’offensiva contro di loro. Sapete di che cosa parlo: cercare di spezzare la loro energia impedendogli di vedere le persone che amano di più per dimostrare chi è che comanda. E’ già successo, sta ancora accadendo e sicuramente succederà anche in futuro.
Parliamo di tutti gli argomenti che dobbiamo trattare con la velocità della luce e prima che ce ne rendiamo conto, la visita è finita e dobbiamo dirci addio. Non so quando tornerò a trovarlo, forse non me lo permetteranno nemmeno la prossima volta per ragioni sconosciute e non chiare; perciò gli dico che lo amo, che mi manca e che gli scriverò presto, prima di lasciarci entrambi baciamo il vetro e io lo guardo negli occhi e sorrido: “Ti amo tesoro, non sono mai lontana.”
Quando esco, una lacrima scorre lungo la mia guancia, perché questo amore è così forte che mi fa male stare lontana. Ma entro pochi secondi mi ricompongo, sapendo che c’è del lavoro da fare; non appena salgo in macchina estraggo carta e penna, sorrido e scrivo: “Ehi, Amore, ti ho appena lasciato ed è stato così bello rivederti…”
Prima di chiudere, vorrei aggiungere per tutti voi una postilla. Arrendersi è facile, continuare a lottare per qualcosa può a volte essere davvero duro, ma ne vale la pena. Per seguire le parole di Barbara Hall: “Sei vivo. Fa’ qualcosa. La direttiva della vita, l’imperativo morale era così semplice. Si poteva esprimerlo in singole parole, non in frasi complete. Suonava così: Guarda. Ascolta. Decidi. Agisci.”
13) UNA MAGNIFICA GIORNATA di Bill Coble
Il grazioso racconto che segue è stato inviato dall’amico Bill Coble, condannato a morte in Texas. Se volete mandare i vostri commenti a Bill, fatelo usando il nostro indirizzo e-mail prougeau@tiscali.it Sicuramente ne sarà felice. E' auspicabile che i detenuti scrivano racconti, poesie, brani di diario... qualsiasi cosa che li aiuti a esprimersi e a farsi conoscere per qualche ragione che vada al di là dei motivi della carcerazione. Siamo disponibili a tradurre i loro elaborati, purché brevi, e a pubblicarli.
Aprì gli occhi accorgendosi che la sveglia stava lampeggiando. C'era stato un terribile temporale durante la notte e l'elettricità si era interrotta. Si sedette sull'orlo del letto e prese l'orologio da polso. Erano le 7.24 e doveva prendere un treno alle 8.15 per Parigi. Si alzò e andò in bagno. Mise un po' di dentifricio sullo spazzolino e il tubetto gli cadde per terra. Continuò a lavarsi i denti e dopo essersi risciacquato la bocca spostò il piede per chinarsi a raccogliere il tubetto, ma lo calpestò e il dentifricio ne uscì. Si guardò allo specchio e disse: " Sarà una brutta giornata".
Guardandosi allo specchio notò che doveva radersi. Decise che non aveva tempo per ripulire il pavimento dal dentifricio, si sarebbe invece dato una rapida rasata. Si lavò la faccia e si pettinò.
Ritornò in camera da letto e chiamò un taxi. Poi cominciò a vestirsi, notando che aveva del dentifricio sulle scarpe. Lo tirò via con i calzini e li buttò per terra, vicino al comodino. Prese un altro paio di calze e si vestì. Nell'uscire con i bagagli osservò l'appartamento, sapendo che sarebbe stato via per quattro o cinque giorni. Sembrava disastrato e pensò che avrebbe magari pulito al suo rientro. Prese l'ombrello e uscì.
Chiamò l'ascensore e diede un'occhiata all'orologio, sapendo che non aveva più molto tempo. Erano le 7.53 e stava di nuovo piovendo. All'arrivo dell'ascensore entrò e prenotò il piano terra. L'ascensore si fermò al secondo piano: guardò ma non c'era nessuno. Prenotò ancora il piano terra e si disse "Decisamente, oggi sarà una pessima giornata". L'ascensore si aprì. Uscendo si imbattè in un uomo che domandava se qualcuno avesse chiamato un taxi.
Disse al tassista che doveva prendere il treno delle 8.15 per Parigi. Il tassista rispose che i semafori non funzionavano e c'era molto traffico, ma avrebbe tentato di portarlo in tempo. Giunsero alla stazione alle 8.17 e il treno stava partendo. Il tassista gli domandò se voleva tornare a casa, ed egli rispose che avrebbe cercato il treno successivo per Parigi. Quando uscì dal taxi, il guidatore gli fece notare l'arcobaleno. Alzò lo sguardo e vide il più bell'arcobaleno che avesse mai visto. Era così luminoso, e i colori erano tanto brillanti che un senso di pace lo colse. Non era più disturbato dall'aver perso il treno e non aveva più fretta. Pagò il tassista, dicendogli che avrebbe atteso il prossimo treno. Guardò ancora l'arcobaleno, prese le sue borse ed entrò nella stazione.
Si avvicinò alla biglietteria e chiese quando ci sarebbe stato il prossimo rapido per Parigi. Dopo nove ore, gli dissero, ma c'era un treno che faceva molte fermate passando attraverso la Svizzera, in partenza dopo 35 minuti. Avrebbe impiegato sei ore e mezza per raggiungere Parigi. Sarebbe arrivato due ora prima della partenza del rapido, quindi acquistò il biglietto e si sedette nella sala d'attesa. Cominciò a guardarsi intorno, osservando l'andirivieni della gente. La porta si aprì ed entrò una donna che non solo attirò la sua attenzione, ma lo fece restare senza fiato, soffocato da un'ondata di emozioni. Non poteva fissarla, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da lei e i loro occhi si incrociarono, lei gli sorrise. Tentò di guardarsi ancora intorno, ma non riusciva a non guardare lei, e di nuovo i loro sguardi si incrociarono. Lei camminò e prese posto due sedili più in là.
Si sentì nuovamente invadere da una fortissima emozione e non capiva di cosa si trattasse. Voleva parlarle, ma che poteva dire.... Era così bella! Osservò i suoi capelli rossi e i suoi occhi verdi e gli orecchini di un giallo brillante, la sciarpa multicolore che portava un po' molle sulle spalle. I colori sembravano fondersi uno nell'altro, come in un arcobaleno.
Chiese: "Ha visto l'arcobaleno?”, lei si voltò e lo guardò. Ignorava perché avesse detto quelle parole, gli erano uscite di getto, e di nuovo ripetè: " Ha visto l'arcobaleno?" Sì, era tanto bello.
"Sì, lei è tanto bella". Lei ripose: "Eh.." ed egli riprese "Sì, volevo dire l'arcobaleno". Scoppiarono a ridere entrambi, poi lui raccontò che gli era arrivato un senso di pace; lei lo interruppe: “Sì, anche a me”, poi si alzò e gli si sedette accanto. Gli raccontò di quanta fretta avesse, temendo di perdere il treno. Nel vedere l'arcobaleno fu pervasa da un senso di pace: tutta la fretta era passata.
La guardò e disse: "Ero demoralizzato per aver perso il rapido ma la vista l'arcobaleno mi ha fatto passare la stizza e la fretta".
Poi le disse quale treno stava aspettando. Era il medesimo che avrebbe preso lei, che disse "Forse potremmo fare il viaggio insieme." Lui rispose che sì, gli avrebbe fatto piacere. Le porse la mano e si presentò: “Mi chiamo Vern Zuckerman”. Lei gli porse la sua e rispose "Io sono Cathy Kramer". Poi si sentì l'annuncio della partenza del treno, si alzarono contemporaneamente e nel passaggio verso il treno incrociarono altre persone. Senza pensare, lui posò la sua mano, in modo protettivo e gentile, fra le spalle di lei, come si fa con una persona amata in mezzo a una folla.
Lei si voltò e gli sorrise mentre qualcuno la spintonava... capì che lui l'avrebbe protetta dalle spinte degli altri che andavano di fetta, mentre loro due camminavano tranquillamente come due innamorati.
Lei apprezzò molto il modo in cui lui la faceva sentire protetta mentre la sospingeva delicatamente verso il treno.
Una volta saliti, presi i posti e sistemati i bagagli, lui rifletté su quanto breve era stato quel tragitto, e quanto gli fosse piaciuto camminare con lei.
Poi la mente gli si affollò di pensieri su cosa avrebbe potuto dirle, di che cosa avrebbero parlato sedendo uno di fronte all'altra tanto a lungo.
Guardando fuori dal finestrino lei disse: "E' una bella giornata". Anche lui guardò. C'era un sole splendente e dopo la pioggia tutto sembrava pulito. Rispose: "Sì, è una bella giornata". Poi le raccontò di come fosse cominciata male. Le disse del tubetto di dentifricio caduto a terra, di averci camminato sopra e del dentifricio sulle scarpe. Lei rideva. Gli piacque la sua maniera di ridere e mentre le raccontava dell'ascensore fermo al secondo piano senza nessuno si rese conto di quanto bene lo facesse stare la sua risata.
Il treno sussultò nel partire, risero entrambi e lui sapeva che avrebbe passato una magnifica giornata. (Trad. di Laura Silva)
14) NOTIZIARIO
Arizona. Condannato il vero colpevole al posto di Ray Krone. Ray Krone fu condannato a morte per lo stupro e l’uccisione di una donna, tale Kim Ancona, nel 1991. La prova principale a suo carico era il segno di morsi sul corpo della vittima che l’’esperto’ dell’accusa dichiarò essere stati inferti da Krone. Dopo due processi e molte vicissitudini giudiziarie, il malcapitato Krone fu riconosciuto innocente tramite un test del DNA che legava al crimine tale Kenneth Phillips Jr., già in carcere per un altro reato. Krone, liberato nel 2002 (v. n. 96, Notiziario), nel 2005 vinse una causa ottenendo un indennizzo (v. n. 127, Notiziario) e quest’anno ha avuto delle scuse ufficiali (v. n. 136, Notiziario). Il 18 agosto Kenneth Phillips è stato condannato ad una lunga pena detentiva per l’uccisone di Ancona. Solo così la vicenda di Ray Krone si è definitivamente conclusa.
Florida. Jeb Bush firma un nuovo ordine di esecuzione per Clarence Hill. Pur sapendo che difficilmente le corti consentiranno a breve la ripresa delle esecuzioni in Florida, sospese in gennaio, il governatore Jeb Bush, su parere del proprio consigliere legale ha firmato in via ‘prudenziale’ un nuovo ordine di esecuzione per Clarence Hill. La Corte Suprema federale il 26 gennaio bloccò l’esecuzione di Hill, che aveva gli aghi per l’introduzione dei farmaci letali già inseriti nelle braccia, sentenziando che il condannato aveva il diritto di contestare in una causa civile il metodo dell’iniezione letale (v. nn. 135, 136). La massima corte ha poi ordinato di sospendere per lo stesso motivo la successiva esecuzione, quella di Arthur Dennis Rutherford. In seguito a ciò Jeb Bush decise di non fissare date di esecuzione fino a che la questione sollevata da Hill non si fosse risolta. Il 17 agosto ha cambiato parere ed ha ordinato che Clarence Hill venga ucciso il 20 settembre.
Moldavia. Abolita la pena di morte per tutti i reati. Il 2 agosto è diventata operativa in Moldavia con la firma del presidente Vladimir Voronin una legge che abolisce la pena di morte per tutti i reati. La Moldavia, alla stregua dei paesi dell’Unione Europea, fa parte del 13-esimo Protocollo aggiuntivo della Convenzione Europea dei Diritti Umani che proibisce la pena capitale in qualsiasi caso. In precedenza la pena di morte era prevista in casi eccezionali in tempo di guerra. L’approvazione di questa legge rende la Moldavia l’88-esimo paese abolizionista totale.
Texas. Invano contestato un conflitto di interessi alla procuratrice che indaga sul caso Cantu. Lo scorso anno un’approfondita indagine giornalistica dimostrò che Ruben Cantu, messo a morte in Texas nel 1993 per un omicidio a scopo di rapina avvenuto nel 1984, era con tutta probabilità innocente. Infatti tre testimoni, tra cui un impiegato che gravemente ferito soppravvisse alla rapina, lo scagionano ora con plausibili deposizioni giurate (v. nn. 133, 134). Lo scalpore suscitato dai risultati dell’indagine, che mettono in cattiva luce l’operato del polizia e dell’accusa, ha costretto lo stato del Texas ad ordinare – di malavoglia – un’inchiesta. A dirigere l’inchiesta è stata però chiamata Susan Reed, Procuratrice Distrettuale della Contea di Bexar, che a suo tempo in qualità di giudice ebbe un ruolo importante nel processo a carico di Cantu, perché fu lei a ricusargli un appello e a fissare la data di esecuzione. La Reed, che non ha alcun interesse a dimostrare che il sistema giudiziario di cui fa parte compì un madornale errore, se l’è presa in prima istanza con i testimoni che ora hanno ritrattato, minacciano addirittura di incriminare uno di loro per omicidio. Per di più i giornalisti hanno in seguito scoperto che gli investigatori incaricati da Susan Reed di indagare sui testimoni sono prevenuti contro di essi, definendoli, prima ancora di averli sentiti, bugiardi incalliti e “bastardi pentiti affamati di soldi”. L’avvocato di David Garza, uno dei testimoni sotto pressione, il 16 agosto ha pertanto chiesto alla Corte Criminale d’Appello del Texas di togliere l’indagine alla Reed palesemente al centro di un conflitto di interessi. Purtroppo la massima corte penale del Texas ha respinto tale richiesta con sentenza del 30 agosto. L’indagine rimane dunque a Susan Reed. Noi, come molti giornali del Texas e non solo, vogliamo vedere come finirà.
Usa. Il Comitato ONU per i Diritti umani critica gli USA per la pena di morte. Il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, nel suo rapporto del 28 luglio riguardante il rispetto del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, critica gli Stati Uniti, fra l’altro, per quanto riguarda la pena di morte: “Gli USA devono indire una moratoria delle sentenze capitali, nell’auspicio dell’abolizione della pena di morte.” Nel rapporto si dice che violano il Trattato, in particolare, l’estensione della pena capitale a fattispecie di reato che prima non la prevedevano e l’uso sproporzionato della pena di morte nei riguardi dei poveri e delle minoranze etniche. Gli USA sono invitati a rivedere le leggi federali e statali in modo da restringere l’applicazione della pena di morte ai crimini più efferati, come impone il trattato di cui fanno parte dal 1992.
Virginia. Incriminato un altro uomo al posto di Earl Washington. Forse ora, dopo l’incriminazione per reato capitale di Kenneth Tinsley avvenuta il 20 agosto, lo stato della Virginia cambierà atteggiamento nei riguardi di Earl Washington Jr., l’afro-americano lievemente ritardato mentale che fu condannato a morte, e detenuto per 19 anni, in base ad una dettagliata confessione ed altre prove falsificate dalla polizia e dall’accusa, per lo stupro e l’uccisione di tale Rebecca Lynn Williams nel 1982. Per il delitto ora attribuito a Tinsley, Washington fu sul punto di salire sulla sedia elettrica nel 1985. Nonostante il fatto che il malcapitato Washington fosse stato esonerato da un test del DNA (lo stesso che inchioda ora Tinsley) già nel 1993, fu ‘graziato’ dal governatore Gilmore solo ad ottobre del 2000 e uscì di prigione nel 2001. Fino ad ora l’accusa si è ostinatamente rifiutata di ammettere l’innocenza di Washington il quale ha potuto comunque ottenere quest’anno un indennizzo record (v. n. 139). Chissà se con l’incriminazione di Tinsley è arrivato il momento di chiedere scusa!
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 agosto 2006