FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 162 - Luglio / Agosto 2008
SOMMARIO:
1) "Sicurezza" e violazioni dei diritti umani dei deboli
2) Josè Medellín ucciso in Texas a furor di popolo
3) José voleva che rimanessimo amici per molti anni ancora
4) In America si insiste per la pena di morte agli stupratori di bambini
5) Spiare tutti: sanata per legge l’iniziativa segreta di Bush
6) Spiare tutti, in maniera sempre più sistematica
7) Spiati tutti, anche gli abolizionisti del Maryland
8) La ‘guerra globale al terrore’ eredità irrinunciabile
9) Tra Obama e McCain, c’è poco da sperare
10) Furia di esecuzioni in Iran, anche di minori all’epoca del reato
11) Karadzic davanti al Tribunale Penale Internazionale
12) Ricardo Gonzales cerca una sincera amicizia
13) Cancellate le richieste di pen pal da un sito abolizionista
14) Notiziario: Usa
1) "SICUREZZA" E VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI DEI DEBOLI
Purtroppo l’allarme da noi lanciato a giugno sul ‘fenomeno sicuritario’ (v. n. 161) è risultato del tutto giustificato e le previsioni da noi fatte si sono via via avverate in termini di persecuzione dei poveri, degli zingari, degli immigrati, e di approvazione delle numerose norme persecutorie nei riguardi degli immigrati e delle fasce deboli della popolazione, contenute nelle varie parti del ‘pacchetto sicurezza’. Rare e contrastate voci si sono levate contro questi crimini, nel perdurante silenzio della maggioranza di coloro che nella società si trovano a svolgere un ruolo di formazione dell’opinione pubblica e di indirizzo morale. Mancano degli osservatori che possano fornire dati quantitativi attendibili sulla persecuzione in atto, un fenomeno per sua natura difficilmente rilevabile e quantificabile perché si realizza in numerosi frammentati episodi. Nulla ci lascia sperare in un’inversione di tendenza, tutto ci lascia temere che la persecuzione dei deboli prosegua e si aggravi.
2) JOSÈ MEDELLÍN UCCISO IN TEXAS A FUROR DI POPOLO
Nessuna autorità statunitense ha negato l’obbligo internazionale degli Stati Uniti di rimediare alle violazioni del Trattato di Vienna sulle Relazioni Consolari compiute ai danni di 51 Messicani che furono arrestati, processati e condannati a morte negli USA senza poter fruire dell’assistenza del proprio consolato. Tuttavia finora nessuno ha disposto tale riparazione e nessuno è intervenuto per fermare la macchina della morte programmata in Texas per uccidere José Medellín, uno di tali condannati. Medellín è stato ucciso il 5 agosto e rimane del tutto incerta la sorte degli altri condannati messicani.
E’ stato ucciso in Texas il 5 agosto 2008 il messicano Josè Medellín, arrestato nel 1993, accusato e giudicato colpevole di reato capitale senza potersi giovare dell’assistenza del proprio consolato, in violazione del Trattato di Vienna sulle Relazioni Consolari firmato e ratificato dagli Stati Uniti.
A nulla è servita la sentenza Avena and Others Mexican Nationals emessa il 31 marzo 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia (CIG) che impone agli Stati Uniti di rimediare, in modi autonomamente scelti purché efficaci, alla violazione del Trattato di Vienna nei riguardi di Medellín e di altri 50 condannati a morte messicani.
Come è potuto avvenire che – non in un piccolo stato arretrato dell’Africa o dell’Asia, ma negli Stati Uniti - si sia arrivati ad uccidere legalmente una persona in aperta e riconosciuta violazione della legalità internazionale?
Abbiamo seguito con diversi articoli, l’ultimo dei quali uscito a fine giugno, la vicenda di José Medellín. Un mese prima della data fissata per l’esecuzione la sua situazione giudiziaria era fluida, con tre diversi possibili sbocchi ancora aperti nell’immediato per gli Stati Uniti, caso mai avessero voluto onorare i loro obblighi internazionali: 1) emissione di un ordine di sospendere l’esecuzione da parte di una corte di giustizia statale o federale, fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti; 2) emissione di un provvedimento di clemenza del governatore del Texas Rick Perry su proposta della Commissione per le Grazie, 3) attivazione del Congresso federale e/o del Parlamento del Texas per arrivare all’approvazione di una legge che attuasse la sentenza della CIG.
Il 16 luglio la Corte Internazionale di Giustizia – rispondendo alla richiesta del Messico del 5 giugno (v. n. 161) - ha ordinato agli Stati Uniti di fermare le 5 esecuzioni di Messicani pendenti in Texas, a cominciare da quella imminente di José Medellín.
Il governatore Rick Perry ha risposto sprezzantemente all’ordine della CIG per bocca del suo portavoce Robert Black: “La Corte Internazionale non ha valore in Texas e il Texas non è legato dalle regole e dagli editti di una corte straniera. E’ facile farsi invischiare in discussioni sulla legge internazionale e sulla giustizia e sui trattati. E’ molto importante ricordare che questi individui stanno nel braccio della morte per aver ucciso nostri concittadini.”
Come dire: noi Texani non capiamo niente di certe sottigliezze, e vogliamo fare giustizia come ci pare.
Il rozzo argomento del Texas, purtroppo non è stato solo del Texas. Anche la maggioranza dei giudici della Corte Suprema federale hanno infine argomentato in maniera simile, dimostrandosi nei fatti incapaci di rispondere alla domanda: ‘Come dare effetto alla sentenza della Corte Internazionale che costituisce oggettivamente un obbligo per gli Stati Uniti?’
Per arrivare a capire l’ultimo pronunciamento delle Corte Suprema, partiamo dalla contorta sentenza Medellín v. Texas del 25 marzo (v. n. 158), nella quale la maggioranza dei nove giudici vestiti di nero, arrampicandosi sugli specchi, avevano respinto il ricorso di Medellín, che chiedeva la revisione del processo, evitando accuratamente di dire a chiare lettere che gli Stati Uniti sono esentati dal rispetto dalla legalità internazionale. Uno dei capisaldi del loro ragionamento era che la sentenza della Corte Internazionale per diventare efficace avrebbe dovuto ottenere l’avallo del potere legislativo (e non di quello esecutivo: il Presidente Bush nel 2005 aveva chiesto ai singoli stati di onorarla, v. n. 127).
In questa ottica, il 14 luglio, per iniziativa dei deputati democratici californiani Howard Berman e Zoe Lofgren, è stata depositata alla Camera dei Rappresentati degli Stati Uniti una proposta di legge ad personas per Medellín e gli altri Messicani condannati a morte compresi nella sentenza Avena and Others… emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia. La nuova legge, che prevedibilmente non verrà discussa prima dell’inizio del prossimo anno, afferma che deve essere riconosciuto ai Messicani Avena ed altri il diritto ad una riparazione, da parte delle corti federali, della violazione del Trattato di Vienna commessa a loro danno, riparazione che può comportare l’annullamento dei processi capitali a cui furono sottoposti. Anche presso il Senato del Texas è stata depositata un’analoga proposta di legge.
Nonostante ciò la Corte Suprema non ha voluto concedere una sospensione di 240 giorni dell’esecuzione di Medellín, richiesta dal Messico in modo tale che il Congresso o il Texas avessero il tempo di discutere tali leggi. La tesi è che la probabilità che il Congresso o il Parlamento del Texas vogliano agire per rimediare alla violazione del Trattato di Vienna nel caso di Medellín è troppo remota per giustificare un rinvio dell’esecuzione!
Nella sua ultima decisione del 5 agosto (peraltro assai controversa e presa a stretta maggioranza, notificata tre ore dopo il momento fissato per l’esecuzione di José Medellín) la massima corte non ha saputo resistere dal notare esplicitamente – a riprova del sussiego con cui gli USA guardano alla legalità internazionale - che gli Stati Uniti si sono ritirati dalla giurisdizione della Corte Internazionale nel 2005 (peccato che lo abbiano fatto a posteriori, un anno DOPO che la Corte aveva sentenziato sfavorevolmente nei loro confronti, v. n. 127).
Tale annotazione e il complesso della sentenza mettono a nudo il ‘gioco delle parti’ fatto dal Governo federale e dallo stato del Texas in questi anni, cominciato con la richiesta del Presidente Bush nel 2005 ai singoli stati di onorare la sentenza della Corte Internazionale (v. nn. 127, 153, 158).
Vana e pro forma appare la lettera scritta al Governatore del Texas in favore di Medellín congiuntamente dal Segretario di Stato Condoleezza Rice e dall’Attorney General (Ministro della Giustizia) Michael Mukasey il 19 giugno (v. n. 161).
Gli interventi di Bush e degli altri personaggi federali, del tutto inefficaci per il raggiungimento del fine dichiarato, appaiono più che altro un tentativo di attenuare il danno di immagine subito dagli Stati Uniti, colti in flagrante violazione della legalità internazionale.
Se il Presidente degli Stati Uniti, il Segretario di Stato o il Ministro della Giustizia avessero voluto davvero ottenere il rispetto della sentenza della Corte Internazionale avrebbero potuto esercitare la loro enorme pressione politica sul Texas!
Quanto meno, le autorità federali avrebbero potuto rivolgersi alla Corte Suprema per sostenere la richiesta in extremis di sospensione dell’esecuzione di Medellín avanzata dal Messico.
Invece il Dipartimento di Giustizia federale non ha voluto svolgere alcun ruolo nell’ultimo round presso la Corte Suprema, come rileva la sentenza del 5 agosto: “Questo silenzio non sorprende. Gli Stati Uniti non si sono spostati dalla loro posizione che [Medellín] non ricevette pregiudizio dalla mancanza di accesso consolare.”
L’ultima sentenza della Corte Suprema, caduta come la lama di una ghigliottina ben oltre l’orario stabilito per l’uccisione di José Medellín, ha sbloccato la squadra di esecuzione del Texas impaziente di portare a termine il proprio macabro ‘lavoro’.
Era stata preceduta da tutti i possibili tentativi di strappare Medellín alla morte fatti dai valorosi avvocati Sandra Babcock e Donald Francis Donovan.
Il 22 luglio un giudice distrettuale federale ha rifiutato di considerare una richiesta di Babcock e Donovan di sospensione dell’esecuzione di Medellín mancando il preventivo permesso della Corte d’Appello del Quinto Circuito. Il 28 luglio, dopo il diniego del permesso da parte della Corte d’Appello del Quinto Circuito, gli avvocati di Medellín sono ritornati alla massima corte penale del Texas, la Corte d’Appello Criminale.
La corte texana ha reso noto il 1° agosto di aver respinto la richiesta di sospensione, mentre rimaneva pendente l’ultimo ricorso alla Corte Suprema federale e si attendeva la decisione della Commissione per le Grazie del Texas. Tale Commissione doveva rispondere sulla petizione di clemenza avanzata dal condannato (in teoria caldeggiata anche dalle autorità federali).
La decisione di non raccomandare alcun tipo di clemenza, della Commissione per le Grazie notoriamente legata a doppio filo col Governatore, presa all’unanimità dai sette membri preposti, è arrivata la vigilia dell’esecuzione. A quel punto era impensabile che il Governatore usasse la sola opzione che gli rimaneva: sospendere l’esecuzione per 30 giorni.
Il Governatore del Texas Rick Perry, non si è sognato di prendere in considerazione le richieste federali né i richiami internazionali in favore di José Medellín (1), ma ha certamente prestato attenzione all’opinione pubblica del Texas che, a quanto ci risulta, era ferocemente schierata per l’esecuzione del condannato.
I più importanti quotidiani del Texas, i quali notoriamente propendono per l’abolizione della pena di morte, hanno riportato freddamente gli avvenimenti che suggellavano giorno dopo giorno la sorte di José Medellín. Hanno ricordato che l’esecuzione stava avvenendo in violazione della legalità internazionale ma non vi si sono opposti frontalmente. In quasi tutti gli articoli veniva sottolineata l’atrocità dei delitti compiuti nel 1993 dal 18-enne José insieme ad altri cinque giovanissimi membri di una gang che, nel corso di un rito di iniziazione, stuprò ed uccise senza pietà due ragazzine di 14 e 16 anni, Jennifer Ertman ed Elizabeth Peña.
Abbiamo letto attentamente i primi messaggi dei lettori che commentavano gli articoli sull’esecuzione di Josè Medellín comparsi nel sito del quotidiano Houston Chronicle.
Su una sessantina di messaggi ne abbiamo trovato uno solo chiaramente contrario all’esecuzione, gli altri, nel chiedere la morte del condannato, erano raramente moderati e quasi sempre esasperati. Ne citiamo alcuni, augurandoci che non esprimano fedelmente la mentalità del Texano medio (2):
- 15 anni sono troppo lunghi da aspettare per vedere questo giorno, [José Medellín] possa bruciare all’inferno per l’eternità.
- Spero che questa esecuzione porti ad una qualche chiusura del dolore per le famiglie Ertman e Peña, esse hanno sofferto a lungo. José Medellín, è giunto per te il momento di incontrare il tuo creatore, il Diavolo in persona.
- Se c’è ancora bisogno di una prova che le Nazioni Unite promuovano l’omicidio nel mondo invece di processi equi e giustizia, è questo il caso. L’ONU deve essere al più presto cacciata fuori da New York in modo che si cerchi un’altra nazione in cui mangiare a ufo e violare le leggi impunemente.
- Le ragazze non poterono parlare con nessun incaricato consolare, lo doveva fare lui? Abbiamo dato da mangiare a questo animale per 15 anni.
Il clima era evidentemente alterato in Texas ma l’Ambasciata Americana in Messico ha diramato l’avviso di prammatica ai cittadini statunitensi di stare in guardia per possibili atti di ostilità dei Messicani, conseguenti a manifestazioni contro l’imminente esecuzione in Texas.
Tutto era pronto nella casa della morte di Huntsville nel tardo pomeriggio del 5 agosto per somministrare l’iniezione letale a José Medellín. Tuttavia la risposta dalla Corte Suprema all’ultimo ricorso, presentato da diversi giorni, non arrivava, alimentando in alcuni qualche speranza in un rinvio.
Poi la risposta è giunta, negativa, e Medellín è stato ucciso alle 10 di sera, con quattro ore di ritardo, subito dopo aver chiesto perdono per i suoi crimini ai parenti delle vittime che assistevano.
Il giorno dopo il Governo del Messico ha stigmatizzato l’esecuzione esprimendo preoccupazione per i diritti degli altri Messicani detenuti negli Stati Uniti. Il Ministero degli Esteri messicano ha mandato una nota di protesta al Dipartimento di Stato USA.
Profonda è stata la delusione del Comitato Paul Rougeau che, come ben sanno i lettori iscritti alla mailing list in Internet, aveva elaborato un appello precisamente argomentato per chiedere clemenza in favore di José Medellín. L’appello è stato trasmesso via fax a più riprese al Governatore Rick Perry e alla Commissione per le Grazie del Texas. Per merito della nostra vice presidente Stefania, che si è impegnata intensamente, nonché di Elena Gaita amica di José, l’appello è stato sottoscritto da un totale di quasi 300 persone.
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(1) Il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon ha rilasciato una dichiarazione alla stampa il 5 agosto riaffermando che “tutte le decisioni e gli ordini della Corte Internazionale di Giustizia devono essere rispettati dagli stati. Gli Stati Uniti devono fare ogni passo per assicurare che l’esecuzione non avvenga.” Ban Ki-moon ha rivelato di aver fatto tutti i possibile passi per rimandare l’esecuzione di Medellín.
(2) Alla fine, i messaggi in favore dell’esecuzione di José Medellín erano oltre 1.500; assai più numerosi ma per la verità non troppo dissimili da quelli che si registrano usualmente in occasione delle esecuzioni capitali.
3) JOSÉ VOLEVA CHE RIMANESSIMO AMICI PER MOLTI ANNI ANCORA
Riceviamo e pubblichiamo un’intensa testimonianza scritta da Elena Gaita, cara amica di José Medellín
Il 5 maggio è stata fissata per José la data di esecuzione per il 5 agosto, esattamente 90 giorni dopo.
Da questo momento è iniziata una battaglia che mi ha dato continue speranze di ribaltare la situazione di José.
Non avrei mai pensato che sarebbe andato tutto così in fretta. Pensavo che in un modo o nell’altro le possibilità di evitare che José finisse nella macchina della morte texana ci fossero. E anche lui era ottimista. Diceva sempre che si fidava ciecamente dei suoi avvocati, che si riteneva fortunato ad avere loro, che erano considerati tra i più prestigiosi degli Stati Uniti e che lui neanche con 100 anni di lavoro sarebbe riuscito a pagarli. Lui pensava che il suo caso avrebbe mosso mari e monti, che non sarebbe passato inosservato. In effetti come poteva? Era stata commessa un’ingiustizia palese nei confronti di un gran numero di persone.
Quel 5 maggio quando i suoi avvocati hanno cercato di parlare, sono stati messi a tacere dalla giudice Caprice Cosper: “Non siamo qui per un’udienza, ma per fissare una data di esecuzione.” Questa frase avrebbe già dovuto far capire tutto e in effetti ora appare molto più chiara. Il Texas già da molto tempo aveva deciso cosa fare del caso di José.
Da quel momento in poi tutta la mia attenzione si è rivolta verso di lui, la pena di morte è diventata lui, non c’erano più altre date che mi interessassero.
Lui da tempo mi aveva detto che se mai fosse stato “giustiziato”, avrebbe voluto come suoi testimoni all’esecuzione 5 giornalisti di diversi paesi per poter testimoniare al mondo l’ingiustizia che si stava compiendo e mi chiese di aiutarlo a trovare un giornalista italiano, visto che l’Italia è un paese particolarmente sensibile alla tematica della pena di morte.
Sono riuscita a trovare un giornalista de la Repubblica disposto a farlo. Speravo che avrebbe potuto iniziare a scrivere di José già da prima per far conoscere il suo caso. Purtroppo mi disse che questo non era possibile: sul giornale l’esecuzione di un uomo fa più notizia della sua storia.
Anche tutti gli altri tentativi che sono stati fatti erano rivolti a portare il caso di fronte all’attenzione del pubblico, quindi insieme a Stefania, Giuseppe, Carlo e Alessandra, ho iniziato a scrivere a tutti i quotidiani, le televisioni e le radio italiane chiedendo il loro aiuto.
Siamo riusciti a ottenere un breve speciale del TG La7 su di lui e una puntata di una trasmissione su Radio Due. Infine anche il TG3 avrebbe voluto occuparsi del caso di José, ma aveva intenzione di intervistare lui direttamente. Quando mi è giunta la notizia che l’intervista era stata rifiutata da José sono rimasta stupita. Aveva dovuto farlo perché i suoi avvocati avevano deciso di non fargli rilasciare più interviste, in quanto queste a loro parere avrebbero potuto nuocergli.
Un’altra strada che abbiamo tentato di seguire è stata quella di comunicare con il Presidente del Messico Calderòn, al quale abbiamo mandato molti appelli tramite il suo sito Internet, chiedendogli di occuparsi del caso di José e di fare pressioni sugli Stati Uniti per la questione dei Messicani rinchiusi nei bracci della morte americani. Calderòn ha risposto a tutti singolarmente.
Il tempo cominciava a stringere, il 5 agosto si avvicinava rapidamente ed io non sapevo più cosa fare. Da un lato avevo José che mi continuava a ripetere di stare tranquilla, che in qualche modo tutto si sarebbe risolto, anche se lui cominciava ad avere meno ottimismo di prima, dall’altro avevo la mia ansia e quella sensazione di impotenza, che così tante volte ho provato da quando mi sono avvicinata al mondo della pena di morte: la sensazione di essere solo un puntino inutile.
Prima di tutto questo, quando José era ancora pieno di fiducia mi parlava spesso di come immaginava la sua vita futura se per caso avesse avuto un nuovo processo e se gli fosse stata annullata la sentenza di morte. Mi diceva che avrebbe impiegato tutta la sua vita nella lotta contro la pena di morte e che avrebbe fatto di tutto per cercare di salvare anche il suo (e mio) amico Peter, perché, diceva, sarebbe stato devastato se lo avessero ucciso. Voleva che rimanessimo amici per molti anni ancora.
Nelle settimane immediatamente precedenti al 5 agosto ancora nulla si era mosso e così abbiamo optato per l’ultima carta da giocare, e cioè quella di preparare un appello a favore di José da inviare al Governatore del Texas Rick Perry e al Board of Pardons and Paroles, la Commissione delle Grazie. Molte persone lo hanno firmato. Poi potevamo solo aspettare.
Nel frattempo mi è arrivata l’ultima lettera di José, nella quale lui mi diceva che doveva prepararsi al peggio, che non voleva rischiare di arrivare al 5 agosto senza aver salutato i suoi amici e che quindi mi doveva salutare. Anche in quest’occasione ha cercato di rimanere sereno e di dirmi che lo avrei dovuto ricordare come una persona allegra e senza tristezza perché lui era in pace con se stesso e fiero della persona che era diventato, nonostante gli errori del passato.
Il 4 agosto il Board of Pardons and Paroles ha votato 7 a 0 contro la grazia per José. A questo punto le mie speranze si erano esaurite.
Il fatidico 5 agosto è stata una giornata lunghissima e straziante. Dal primo pomeriggio sono stata a casa di Stefania con Carlo perché non sarei riuscita a rimanere da sola ad aspettare una qualsiasi notizia. Siamo state incollate al computer e al telefono tutto il pomeriggio, ma niente. Il governatore Perry non rispondeva, ho provato a chiamare il suo ufficio per sollecitarlo a fermare l’esecuzione, ma tutto ha continuato a tacere. Quando ormai era l’una di notte, cioè le 6 di pomeriggio in Texas, ora per la quale era prevista l’esecuzione di José, mi sono messa l’anima in pace, abbiamo acceso una candela e ho cominciato a provare a inviargli dei pensieri positivi. Mezz’ora dopo, quando ormai già credevo che lui non ci fosse più, è arrivata la notizia che l’esecuzione era stata temporaneamente fermata. Gli avvocati di José avevano presentato un appello alla Corte Suprema, chiedendo di sospendere l’esecuzione almeno fino a quando il Congresso non avesse discusso la proposta di legge sul riesame dei casi dei Messicani. Ovviamente le nostre speranze si sono riaccese, nel frattempo al Texas erano arrivate pressioni per fermare l’esecuzione da tutto il mondo: dall’Unione Europea, dal Messico, dalle Nazioni Unite…
Esausta mi sono addormentata per un paio d’ore, ma sono stata svegliata da una telefonata poco dopo le 4. Era Alessandra che ci diceva che la Corte Suprema si era espressa 5 a 4 contro José e che quindi l’esecuzione poteva procedere. Un solo voto in più a suo favore e lui starebbe ancora su questa terra. Ormai non c’era più nulla da sperare. Non riuscivo più a pensare a niente, non riuscivo neanche a disperarmi o a piangere, mi sentivo completamente svuotata da qualsiasi sensazione. Anche quando ho letto meno di un’ora dopo che José era stato ucciso.
Sono riuscita a dormire qualche ora e solo al mio risveglio ho realizzato quello che era successo; avrei preferito che lo avessero ucciso immediatamente senza farlo aspettare tutto quel tempo. Ho pensato ai suoi genitori, che non avevano potuto vederlo per 7 anni per un divieto del carcere e hanno potuto farlo solo il giorno prima della sua morte. Ho pensato a quei giudici illuminati, che avevano il potere di decidere sulla vita delle persone con il gesto del pollice. Ho pensato alla strafottenza e all’arroganza del Texas, che non ha accettato il consiglio di nessuno. E mi sono arrabbiata tantissimo. Al dispiacere è subentrata la rabbia per aver perso inutilmente un amico, perché anch’io mi sono sentita una vittima in quel momento, come le vittime a cui ‘loro’ vogliono tanto rendere “giustizia”, perché continuo a non capire come si possa dire a un ragazzino di 18 anni che la sua vita è finita prima ancora di essere iniziata e come si possa pensare che a 18 anni una persona possa già essere irrecuperabile. La tristezza è passata, anche perché, parlando con altre amiche di José, abbiamo capito che lui ora sta bene e che il volerlo tenere in vita a tutti i costi era un nostro egoismo. E’ passata anche perché le sue ultime parole rivolte ai genitori delle sue vittime hanno dato un’ulteriore prova del suo cambiamento e della sua maturazione, cose che in Texas evidentemente non sono previste.
La tristezza è passata, si è trasformata in rabbia, che è ancora viva a un mese dalla sua morte; ma adesso è un bene che ci sia perché è grazie a lei che riesco a non abbandonare il mondo della pena di morte. Per il ricordo di José, che non c’è più, e per Peter, che è ancora vivo, ma è rimasto solo.
4) IN AMERICA SI INSISTE PER LA PENA DI MORTE AGLI STUPRATORI DI BAMBINI
Basandosi su un errore contenuto nel testo della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 25 giugno 2008, i sostenitori della pena di morte negli USA sono fortemente impegnati nel tentativo quasi impossibile di ripristinare la sanzione capitale nei riguardi dei violentatori dei bambini.
La sentenza nel caso Kennedy v. Louisiana con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha proibito la pena di morte per i rei di violenze sessuali nei riguardi di bambini, presa a stretta maggioranza il 25 giugno, ha segnato un notevole passo in avanti della civiltà statunitense ma ha suscitato la reazione esasperata dei sostenitori della pena di morte.
Abbiamo già dato conto nel n. 161 delle numerose voci che si sono subito levate contro la sentenza nonché delle intenzioni di attaccarla. Ricordiamo in particolare i propositi manifestati dal governatore della Louisiana Bobby Jindal e dagli Attorney General (Ministri della Giustizia) dell’Arizona e della South Carolina.
Ad esse si sono aggiunte quelle di 85 membri repubblicani della Camera dei Rappresentanti che hanno scritto una lettera alla Corte Suprema consegnata a mano il 13 luglio.
Lo stato della Louisiana il 21 luglio ha chiesto formalmente alla Corte Suprema di riconsiderare la sentenza del 25 giugno basandosi su un errore contenuto nell’opinione scritta per la maggioranza dal giudice Anthony M. Kennedy. Nell’opinione si legge invero che negli Stati Uniti solo 6 giurisdizioni, statali, ammettono la pena di morte per i violentatori di bambini, trascurando il fatto che la prevede anche il codice federale militare (per effetto di una legge approvata dal Congresso nel 2006 e di un ‘ordine esecutivo’ del Presidente Bush del 2007). Anthony Kennedy argomenta che il bilancio di 6 sole giurisdizioni favorevoli e l’evolversi degli ‘standard di decenza’ dimostrano che ormai negli USA c’è un ‘consenso nazionale’ contro l’applicazione della pena di morte in questi casi.
Nel suo ricorso, la Louisiana afferma che l’autorizzazione della pena capitale per lo stupro dei bambini nel codice militare da parte di due poteri federali (legislativo ed esecutivo) è una chiara espressione della volontà democratica o, quanto meno, “mette in dubbio la conclusione che ci sia un ‘consenso nazionale’ contro questa pratica.”
Il 28 luglio, una settimana dopo la Louisiana, anche il Governo federale, tramite l’avvocato Gregory G. Garre, ha chiesto alla Corte Suprema di riesaminare la sentenza del 25 giugno: “Gli Stati Uniti hanno un sostanziale interesse nel riesame perché la decisione della Corte solleva gravi dubbi su un recente Atto del Congresso e su un Ordine esecutivo del Presidente che autorizza la previsione della pena di morte per gli stupratori di bambini nel Codice di Giustizia Militare.” Anche se la Corte Suprema non consente alle parti non direttamente coinvolte nei casi esaminati di chiedere una riconsiderazione, il Governo federale ha proposto di fare un’eccezione.
Neal Kumar Katyal, leader del gruppo di avvocati incaricati di presentare il ricorso dalla Louisiana, è un famoso professore di legge dell’Università Georgetown. “Sono personalmente contrario alla pena capitale – ha dichiarato Katyal – ma sono ugualmente contrario al fatto che la Corte prenda decisioni fondamentali a prescindere dagli elettori americani. Dopo l’arrivo della sentenza sono emerse prove del fatto che i giudici possano aver troppo frettolosamente intravisto un consenso nazionale in questo caso; così quando la Louisiana mi ha dato l’incarico, sono stato lieto di accettarlo”.
La decisione di Katyal è attribuibile, almeno in parte, dall’enorme prestigio che gli deriverebbe da una eventuale vittoria presso la Corte Suprema degli Stati Uniti contro la medesima Corte. Tuttavia, come abbiamo osservato nel n. 161, è estremamente improbabile che tale Corte voglia ritornare sui propri passi. Le richieste di riconsiderazione delle sentenze della Corte Suprema sono numerosissime e – salvo rarissime eccezioni – non vengono mai accolte.
In questo caso, sia il fatto che la sentenza Kennedy v. Louisiana è stata presa a stretta maggioranza, sia il fatto che la stesura della stessa contenga effettivamente un errore, sia il fatto che vi sia un’enorme pressione sulla Corte da parte dei sostenitori della pena capitale (tra i quali – purtroppo – dobbiamo enumerare entrambi i candidati alla presidenza, Barak Obama e John McCain), ci inducono a seguire gli sviluppi della vicenda.
Il 9 agosto il governatore della Louisiana Bobby Jindal ha dichiarato alla stampa che la sua amministrazione sta lavorando insieme agli accusatori ad un disegno di legge che vuole ripristinare la pena di morte per stupro in alcuni casi. Jindal ha reso noto che il suo consigliere esecutivo Jimmy Faircloth ha discusso con i procuratori distrettuali e altri personaggi sui modi di “di scrivere una legge che noi crediamo possa passare il vaglio dei giudici.” Un escamotage sarebbe quello di fissare un diverso limite d’età delle vittime delle violenze, rispetto a quello previsto nella legge originale (che era di 12 anni).
Non arriva a preoccuparci più di tanto l’assai remota possibilità che possa essere invalidata dalla Corte Suprema una propria sentenza di grande civiltà, riportando indietro l’orologio della storia. Ancor meno ci preoccupa la proposta di legge del governatore della Louisiana che ha solo un valore propagandistico.
5) SPIARE TUTTI: SANATA PER LEGGE L’INIZIATIVA SEGRETA DI BUSH
Il presidente George W. Bush è riuscito ad ottenere dal Congresso una completa revisione del Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA), che regola le intercettazioni delle comunicazioni da parte dell’Esecutivo USA. In tal modo sono stati sanati almeno formalmente i gravi abusi da lui compiuti ordinando segretamente, subito dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, un massiccio programma di spionaggio delle comunicazioni in tutto il mondo, ancora in atto, che proseguirà a tempo indeterminato.
Al di là delle offese terribili e irreversibili arrecate alle persone che divennero casualmente vittime dei mostruosi attacchi dell’11 settembre 2001, è impossibile dire quali danni siano stati realmente inferti all’odiato Occidente dagli attentatori suicidi scatenati dal fantomatico Osama Bin Laden.
Insieme forse ad un forte dispiacere, certamente un grande regalo Osama lo ha fatto al gruppo che si trovava al comando negli Stati Uniti, che, sfruttando con eccezionale tempistica i sentimenti di paura, insicurezza e rivalsa della popolazione, è riuscito a concentrare nelle proprie mani un immenso potere, molto superiore a quello consentito dalle regole dello stato di diritto.
Prima dell’11 settembre 2001, sarebbe stato impensabile discutere apertamente di tortura e consentirne legalmente l’uso da parte del governo federale; sarebbe stato impensabile il limbo di Guantanamo.
Prima dell’11 settembre 2001 sarebbe stata impensabile l’emanazione di norme che consentono al governo federale di spiare a suo beneplacito su larghissima scala le comunicazioni degli stranieri e, con alcune restrizioni, quelle degli stessi Americani!
Il 9 luglio il Senato federale ha approvato in via definitiva, con 69 voti contro 28, una legge che espande grandemente le possibilità di sorveglianza e di spionaggio del governo americano su tutto il Pianeta. La medesima legge dà totale immunità alle compagnie telefoniche che si erano prestare al colossale programma di spionaggio telefonico ordinato segretamente dal Presidente Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 e messo in atto della National Security Agency. Tale programma era venuto alla luce nel 2005 suscitando un vivo allarme tra i membri del Congresso più garantisti e tra le organizzazioni per i diritti civili (v. n. 135, “Spiare tutti, esigenza di sicurezza o delirio di onnipotenza?”). Prorogate fino ad oggi, le attività governative di spionaggio delle comunicazioni ora poggiano sul solido basamento di una legge del Congresso anziché sui poteri eccezionali che il Presidente sostiene di avere quale Comandante in Capo in tempo di guerra.
Inutile dire che la misura approvata il 9 luglio è stata perseguita con estrema determinazione dell’esecutivo Bush che - superando le grandi perplessità e alcuni ostacoli sorti soprattutto in campo democratico - alla fine l’ha spuntata, come sempre quando si è trattato di provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali ma in qualche modo riconducibili alla cosiddetta ‘guerra al terrore’.
George W. Bush ha salutato la misura come “da lungo tempo dovuta” ed ha dichiarato: “Oggi il Congresso degli Stati uniti ha approvato una normativa vitale che renderà più facile per questa amministrazione e per le future amministrazioni proteggere il popolo americano.” Bush ha promesso una sollecita promulgazione della legge che a suo dire dimostra, anche in periodo elettorale “che noi possiamo stringerci insieme e fare in modo che si prendano importanti provvedimenti.”
La nuova norma riformula completamente il Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA) (1) che fu approvato dal Congresso nel 1978, dopo l’affare Watergate, per regolamentare lo spionaggio delle comunicazioni da parte dell’Esecutivo, largamente abusato fino ad allora. Il nuovo FISA dà al governo ampia autonomia ed elasticità nello spionaggio delle comunicazioni sia all’estero che all’interno e riduce il ruolo della Corte segreta, prevista dal FISA, formata da giudici che dovrebbero vigilare sulla correttezza di determinate operazioni di spionaggio nei riguardi di cittadini americani.
Nel provvedimento, scaturito da quattro mesi di serrate trattative tra la Casa Bianca e i leader del Congresso, alla fine sono state recepite pressoché tutte le richieste dell’Esecutivo.
Alcuni parlamentari democratici hanno parlato di ‘capitolazione’. Ma il candidato democratico alla presidenza Barak Obama ha votato a favore della legge (2), con un altro dei suoi recenti voltafaccia, dettati dall’interesse elettorale (e post elettorale).
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(1)Atto sulla Sorveglianza dell’Intelligence per l’Estero
(2) Non così il senatore democratico Joseph R. Biden Jr. che all’epoca non era ancora stato scelto da Barak Obama per concorrere alla vice presidenza.
6) SPIARE TUTTI, IN MANIERA SEMPRE PIÙ SISTEMATICA
Le 18 mila polizie statunitensi raccoglieranno una massa impressionante di informazioni sui singoli cittadini e sui gruppi e le metteranno a disposizione delle autorità federali, conservandole per 10 anni.
Il Dipartimento di Giustizia e in particolare l’Attorney General (Ministro della Giustizia) Michael Mukasey stanno preparando la transizione “morbida” al nuovo governo che verrà nominato dal presidente eletto nelle elezioni di novembre. L’obiettivo è che tutto cambi apparentemente senza che nulla cambi sostanzialmente nella gestione centralistica del potere.
In questa ottica, il Dipartimento di Giustizia ha proposto una nuova normativa sullo spionaggio che dovrebbe rendere più facile per le polizie statali e locali raccogliere informazione sui cittadini americani (e non) e metterle a disposizione delle agenzie federali (conservandole per almeno 10 anni).
Tale iniziativa segna un radicale cambiamento della politica di raccolta delle informazioni vigente dal 1993 e interesserà ognuna delle 18 mila polizie statunitensi.
Da tempo discussa ma pubblicata per raccogliere i commenti del pubblico solo a partire dal 31 luglio, la nuova misura sull’intelligence consentirà ai pubblici ufficiali di prendere di mira sia gruppi sia singoli individui. Un’investigazione criminale potrà essere avviata dal sospetto che il gruppo o la persona sia implicata nel terrorismo o fornisca supporto materiale al terrorismo.
Le polizie che le raccoglieranno metteranno in comune le informazioni con una varietà di agenzie federali (ed altri soggetti in determinati casi).
Le fonti delle informazioni saranno registri di pubblico dominio o la rete Internet così come i data base dei pubblici ufficiali, sorgenti confidenziali e infiltrate, nonché la sorveglianza attiva dei target.
Kenneth L. Wainstein, consigliere di Bush per la sicurezza interna ha dichiarato: “Si tratta di un continuum iniziato l’11 settembre 2001 per riformare i pubblici ufficiali e la comunità dell’intelligence e focalizzarli sul pericolo terrorista.”
Il Washington Post sottolinea che il cambiamento proposto “fa parte di un diluvio di cambiamenti nell’‘intelligence’ pianificati e decretati dall’Amministrazione Bush nei mesi del suo declino. Essi includono un recente ‘ordine esecutivo’ che guida la riorganizzazione delle agenzie di spionaggio federali e una revisione imminente delle procedure dell’FBI per raccogliere informazioni e investigare casi di terrorismo entro i confini degli USA.”
Prese nel loro insieme - sostengono membri del Congresso e alcuni osservatori - le iniziative tendono a sigillare le politiche nel campo dell’intelligence nei riguardi del prossimo governo e a rafforzare il preoccupante approccio del ‘post 11 settembre’ che ha dato all’Esecutivo il più grande incremento di potere dal Watergate in poi.
Le recenti rivelazioni sullo spionaggio della Polizia del Maryland (v. articolo seguente) ai danni di oppositori della pena di morte e di pacifisti nel 2005 e nel 2006 esemplificano i rischi della nuova politica.
Michael German, un consulente dell’American Civil Liberties Union (ACLU) (1) che ha fatto parte dell’FBI per 16 anni, afferma che la normativa proposta può essere intesa come un via libera alle polizie di raccogliere informazioni anche quando non c’è il sospetto di un crimine. A suo parere, l’attenuazione dei limiti alla raccolta di informazioni può portare ad abusi contro oppositori pacifici. In aggiunta al caso del Maryland, German ha citato altre vicende inquietanti di infiltrazione e spionaggio di gruppi pacifici di opposizione emerse per caso negli ultimi sei anni: dall’infiltrazione di agenti della polizia di New York in gruppi di contestatori prima della Convenzione repubblicana del 2004, allo spionaggio da parte della polizia della California ai danni di gruppi pacifisti e animalisti e dei sindacati, allo spionaggio della polizia di Denver nei riguardi di vari soggetti tra cui Amnesty International.
E’ appena il caso di notare che gli abusi venuti alla luce sono indubbiamente solo la punta di un iceberg e che i pericoli maggiori per la libertà, non solo degli Americani ma di tutti i cittadini del mondo, non vengono soltanto dallo spionaggio eseguito dalle 18 mila polizie americane ma anche e soprattutto dalla mostruosa quantità di informazioni convogliata verso le agenzie federali.
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(1) Unione Americana per le Libertà Civili
7) SPIATI TUTTI, ANCHE GLI ABOLIZIONISTI DEL MARYLAND
Un’odiosa operazione di infiltrazione e di spionaggio ai danni di gruppi abolizionisti e pacifisti da parte della polizia del Maryland, verificatasi tra il 2005 e il 2006 e venuta alla luce questa estate solo per la determinazione dell’ACLU, pone grossi interrogativi su quello che si fa attualmente in segreto contro gli oppositori politici del potere pressoché illimitato che si è insediato negli Stati Uniti.
Poliziotti sotto falsa identità, del Dipartimento per la sicurezza interna e della Divisione di intelligence del Maryland, spacciandosi per attivisti, parteciparono a riunioni organizzative, manifestazioni pubbliche, veglie al di fuori delle prigioni, cortei al Palazzo del governo, nonché infiltrarono le mailing list e prelevarono documenti dai server di abolizionisti e pacifisti. Si decise di continuare lo spionaggio anche se i poliziotti non poterono rilevare alcuna attività o progetto illegale.
Un documento di 46 fitte pagine, in parte censurate con spessi tratti di pennarello nero, ottenuto dell’American Civil Liberties Union (ACLU) il 17 luglio a conclusione di un’azione legale, dimostra che un’organizzazione abolizionista e gruppi pacifisti furono infiltrati e spiati dalla polizia del Maryland per complessive 288 ore nell’arco di 14 mesi tra il marzo del 2005 e il maggio del 2006. Ad essere infiltrati furono la “Campagna per mettere fine alla pena di morte” e il Patto di Resistenza di Baltimora, un gruppo che si opponeva alla guerra in Iraq. Alcuni degli eventi monitorati coinvolgevano anche Amnesty International e Human Rights Watch.
I rapporti di sorveglianza furono a messi a disposizione di varie agenzie sia statali che federali, compresa la National Security Agency.
Tim Hutchins, che era capo della polizia all’epoca, ha dichiarato ai giornalisti che la sorveglianza avvenne sotto la sua responsabilità, all’insaputa (sic!) del Governatore repubblicano Robert L. Ehrlich (forte sostenitore sia della pena di morte sia della guerra in Iraq), aggiungendo che tutto ciò rientrava nella legalità. “Si fa ciò che si ritiene sia il meglio per proteggere il popolino nello stato”, ha detto Hutchins che ora è un contractor privato per la difesa federale.
Henry Fawell, portavoce di Ehrlich ha dichiarato: “I pubblici ufficiali usano una varietà di mezzi per mantenere i cittadini al sicuro. Non è il caso di discuterne pubblicamente.”
Max Obuszewski, un noto e pacifico pacifista 63-enne di Baltimora, fu inserito dagli agenti sotto copertura in un data base intitolato “Area di traffico di droga ad alta intensità Washington-Baltimora”. Nel campo intitolato “Crimine primario” gli agenti avevano scritto per lui: “Terrorismo anti-governativo” completando il campo “Crimine secondario” con la dicitura: “Terrorismo contestatori della guerra”
L’attuale Governatore del Maryland Martin O'Malley ha subito precisato che la polizia ha cessato di monitorare i pacifisti e gli oppositori della pena di morte, aggiungendo: “A posteriori, penso che non lo avrebbero dovuto fare per tutto il tempo per cui lo hanno fatto.”
Il colonnello Terrence B. Sheridan, che comanda attualmente la polizia del Maryland, ha dichiarato il 25 luglio che l’operazione di allora fu determinata dalle preoccupazioni che l’esecuzione capitale di tale Vernon Evans potesse causare disordini.
L’ACLU del Maryland, che lamentava già dal 2004 lo spionaggio ai danni degli oppositori alla guerra, obietta che se è così non si capisce perché oltre agli abolizionisti furono spiati anche i pacifisti e perché il programma fu interrotto, come si asserisce, nel maggio 2006, sei mesi prima che la sentenza di Evans fosse sospesa. Vi è inoltre traccia di sorveglianza nei riguardi dei pacifisti tre mesi prima di quando Sheridan afferma che fu disposta in vista dell’esecuzione di Evans.
A fine agosto, oltre un mese dopo l’ottenimento della prima documentazione sullo spionaggio, l’ACLU lamenta che sono stati rilasciati soltanto dei sommari e non gli effettivi rapporti della polizia del Maryland. L’avvocato della polizia Sharon Benzil ha precisato che tutti i documenti sono stati resi pubblici ed ha inoltre obiettato che i ricorrenti hanno aspettato troppo tempo per reclamare contro l’amministrazione. Un giudice deciderà se respingere o accogliere l’ulteriore richiesta dell’ACLU.
Ciò che è stato scoperto con grande fatica dall’ACLU, ci fa capire con quale ostilità sia visto in America l’impegno degli abolizionisti e ci autorizza a sospettare che ben altre operazioni di infiltrazione e di spionaggio siano state messe in atto, senza venire alla luce, nei riguardi dei gruppi che in tutto il modo si battono contro la pena di morte.
8) LA ‘GUERRA GLOBALE AL TERRORE’ EREDITÀ IRRINUNCIABILE
Quando George W. Bush riuscì in qualche modo a scalare la presidenza degli Stati Uniti ci preparammo al peggio. Conoscendo da tempo l’ex governatore del Texas quale accanito promotore della pena di morte, ci rassegnammo a vivere anni particolarmente oscuri. Nonostante ciò Bush è riuscito continuamente a sorprenderci. In negativo. Lo ha fatto soprattutto con la dichiarazione e la conduzione della cosiddetta ‘guerra globale al terrore’ – che ha generato uno spaventoso seguito di morte e di violazioni dei diritti umani. Ora lui stesso e il gruppo di potere che lo esprime vogliono lasciare intatta la ‘guerra globale al terrore’ in eredità al nuovo presidente, chiunque sia. John McCain è perfettamente d’accordo ad accoglierla. E Barak Obama si adegua pienamente.
Pur senza rinunciare a sperare in un miracolo e augurandogli perfino “buon lavoro!” ci aspettavamo il peggio dal nuovo inquilino insediatosi alla Casa Bianca all’inizio del 2001 (v. n. 82).
E’ successo, come nelle aspettative, che l’amministrazione di Gorge W. Bush rafforzasse la pena di morte a livello federale e contribuisse a mantenere il quadro di riferimento necessario per assicurare la sopravvivenza della pena capitale nei singoli stati degli Stati Uniti. Ma il campo nel quale Bush è riuscito a stupire perfino coloro che lo conoscevano bene è quello della ‘guerra globale al terrore’, un concetto per altro inventato da un gruppo di potenti in cui Bush è solo un esponente più visibile di altri.
Dichiarata quale ‘riposta’ agli attentati dell’11 settembre 2001, più che un mezzo per arrivare a superare la logica perversa del terrorismo nel mondo, la ‘guerra globale al terrore’ - illimitata e indeterminata nello spazio, nel tempo e nei mezzi – è una strategia che (nelle intenzioni dei promotori) dovrebbe consentire ad alcune centinaia di milioni di persone nel mondo di conservare la loro ricchezza e i loro privilegi per alcune decine di anni, costi quel che costi all’intera umanità.
Pesanti sono le conseguenze della ‘guerra al terrore’ in termini di deterioramento della libertà e dello stato di diritto nelle democrazie, di violazioni brutali e sfacciate dei diritti umani in tutto il mondo. Le ricadute della ‘guerra al terrore’ rischiano di smantellare la civiltà nata, dopo le immani sventure della seconda guerra mondiale, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
I perversi effetti della ‘guerra al terrore’ sono stati da noi doverosamente seguiti e molte volte denunciati nel Foglio di Collegamento (1).
Era prevedibile che il sistema di potere insediatosi negli Stati Uniti non intendesse limitarsi a vivere la vita effimera di uno o al massimo di due mandati quadriennali consentiti ad un presidente degli Stati Uniti. Non ci meraviglia pertanto il fatto che per l’amministrazione uscente la maggiore preoccupazione sia che ciascuno dei due potenziali futuri inquilini della Casa Bianca si impegni ad ereditare tal quale il pesante fardello della ‘guerra al terrore’.
L’amministrazione Bush, a fine agosto, ha chiesto al Congresso di “riconoscere di nuovo ed esplicitamente che questa nazione rimane coinvolta in un conflitto armato con al-Qaeda, i Talebani, e le organizzazioni ad essi collegate, che si sono dichiarate in guerra con noi e che si sono dedicate allo sterminio degli Americani.” Lo ha fatto all’interno di una proposta in sei punti che riguarda la restrizione dei diritti legali per i detenuti di Guantanamo, ricollegandosi ad una normativa che il Congresso aveva approvato pochi giorni dopo l’11 settembre 2001.
In sostanza si chiede l’imprimatur del Congresso, anche per il successore di Bush, sull’uso degli ‘strumenti di guerra’ che hanno comportato gravissime ed estesissime violazioni dei diritti umani, tra cui la detenzione a tempo indeterminato e le aspre interrogazioni dei ‘nemici combattenti’, effettivi o supposti tali.
Tale proposta appare come l’ultimo in ordine di tempo dei molti passi compiuti dalla presidenza uscente per scaricare sulle spalle del successore di Bush, rendendole permanenti all’interno di una precisa normativa, le caratteristiche della sua ‘guerra globale al terrore’. Altri passi molto significativi sono stati l’ottenimento dal Congresso della nuova legge sulle intercettazioni, la riscrittura delle procedure di intelligence (v. articoli più sopra) e la revisione delle tecniche investigative dell’FBI.
L’amministrazione Bush richiede ora al Congresso di imporre maggiori restrizioni per gli appelli degli stranieri detenuti a Guantanamo e in altri luoghi nel mondo. Oltre alla proclamazione generica della continuazione della ‘guerra al terrore’, chiede che il Congresso “riaffermi per tutta la durata del conflitto che gli Stati Uniti possono detenere come nemici combattenti coloro che si sono impegnati in ostilità o hanno di proposito sostenuto al-Qaeda, i Talebani e le organizzazioni ad essi associate.”
Il linguaggio usato oggi dall’amministrazione ricalca esattamente quello con cui fu scritta l’Autorizzazione per l’Uso della Forza Militare, una legge che conferiva enormi poteri al Presidente, approvata ad occhi chiusi dal Congresso solo tre giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, che è diventata la base per alcune delle più controverse iniziative presidenziali, come ad esempio il programma di intercettazione delle comunicazioni in deroga al FEMA (v. art. precedente).
A John McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, dobbiamo dare atto di una personale sincera avversione alle torture nei riguardi dei prigionieri e di essersi battuto in Senato, sia pure risultando alla fine sempre perdente, contro la legalizzazione delle ‘tecniche aspre di interrogazione’ continuamente perseguita dal presidente George Bush e soprattutto dal vice presidente Dick Cheney. Per il resto McCain è un duro assertore della ‘guerra globale al terrore’, nonché della guerra tout court e della globalizazzione selvaggia per promuovere aggressivamente gli interessi degli Stati Uniti ovunque nel mondo, in completa sintonia con Sarah Palin da lui scelta per concorrere alla vice presidenza. McCain si annuncia pertanto come un coerente promotore della politica dell’amministrazione di George Bush, che potrebbe essere da lui addirittura esasperata.
Ma anche Barak Obama, col passare del tempo ha fatto quella che i giornali americani chiamano eufemisticamente una virata al centro, avvicinandosi man mano in modo impressionate alla politica interna ed estera dell’attuale amministrazione. Per quanto riguarda le guerre locali in corso, Obama, come Bush, prospetta un lento ritiro dall’Iraq, ma propone un incremento decisivo della guerra in Afghanistan.
Joe Biden, scelto da Obana per la vice presidenza, nel corso della Convenzione Democratica di Denver il 27 agosto ha dichiarato: “E’ un dato di fatto che al-Qaeda e i Talebani – coloro che ci hanno affettivamente attaccato l’11 settembre - sono raggruppati nelle montagne tra l’Afghanistan e il Pakistan e stanno tramando nuovi attacchi. Il Capo di Stato Maggiore ha fatto eco alla richiesta di Barak Obama di un maggior impegno di truppe, in questo John McCain ha avuto torto e Barak Obama ha avuto ragione.”
Un saggio ampiamente argomentato uscito su Global Research il 29 agosto titola: “I Democratici adottano la Guerra globale al terrorismo. Obama corre dietro a Osama” (2)
Lo studio conclude che “il messaggio di Barak Obama è cristallino. Egli condivide le proposte dell’amministrazione Bush di aumentare le spese militari. Vuole spendere più soldi in armi e truppe. L’andare appresso a bin Laden e alla ‘guerra globale al terrorismo’ costituisce la sua principale giustificazione’ dell’incremento della spesa militare.” Obama chiede: “Più risorse e più truppe per terminare la lotta contro i terroristi che ci attaccarono effettivamente l’11 settembre”, nonostante le sue promesse di mettere maggiori risorse a disposizione dell’educazione e della salute (3)
Global Research osserva che:
“La campagna di Obama e Biden si basa sulla mistificazione dell’11 settembre. Senza uno straccio di prova, l’Afghanistan, una nazione di 34 milioni di persone (come il Canada), è dipinta quale sponsor degli attacchi dell’11 settembre. Questa premessa basilare è accettata dai Democratici.
“Obama marca indelebilmente l’11 settembre come un atto di aggressione contro l’America, che giustifica una guerra di rappresaglia contro i “terroristi islamici” e i loro stati sponsor.
“La ‘Guerra globale al terrorismo’ è il prodotto perfetto di un piano militare e di intelligence accuratamente studiato, che determina la spinta della politica estera degli Stati Uniti.
“La guerra globale al terrorismo è adottata sia dai Repubblicani che dai Democratici. Lo spionaggio USA ha il sopravvento sulla politica dei partiti. La guerra globale al terrorismo fa parte della piattaforma della campagna elettorale presidenziale di tutti e due i partiti. La sua validità non viene messa in discussione, né lo sono le sue conseguenze.” (4)
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(1) V., fra gli altri, gli articoli nei nn. 89, 90, 91, 92, 93, “Un polverone…”, “Le gabbie…”, 99, 100, “I miseri..”, “Grave…”, 105, 107, “Verso la fine…”, 110, “Rispondere all’11 settembre…”, 118, “Violazioni…”, “Un elenco…”, 119, 120, “Confuso…”, “Una farsa…”, 121, “Prigionieri abusati…”, 123, 125, 130, 132, “Torture negate…”, 134, “Spiare tutti…”, “Prigioni segrete…”, 142, “Consentite per legge…”, 143, “Firmato…”, 159, “La tortura…”, 160, “In Italia…”
(2) V. www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9995
(3) Un grafico che compare nel saggio, mostra come, del totale delle spese militari nel mondo, il 70% già appartiene agli Stati Uniti e alla NATO, l’1% a stati più o meno ‘canaglia’, tipo la Corea del Nord e l’Iran, e il restante 29% a tutti gli altri paesi messi assieme (compresi Russia e Cina).
(4) I due concorrenti alla presidenza sembrano d’accordo nel perseguire la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo, ma non di altri centri di detenzione a tempo indeterminato con le medesime caratteristiche.
9) TRA OBAMA E McCAIN, C’È POCO DA SPERARE
Come sui temi dei diritti umani e della ‘guerra al terrore’, per quarto riguarda la pena di morte c’è poco da sperare dal nuovo inquilino che si insedierà alla Casa Bianca all’inizio del prossimo anno, chiunque sia, Obama o McCain. Non è tuttavia indifferente che vinca l’uno o l’altro: al peggio non c’è limite.
Abbiamo discusso negli articoli precedenti le preoccupanti posizioni dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti riguardo alla ‘guerra al terrore’ e alle violazioni dei diritti umani ad essa connaturati, vogliamo ora ritornare sul tema della pena di morte.
Alla fine dell’anno scorso avevamo discusso in dettaglio la posizione dei candidati alle elezioni presidenziali del prossimo novembre (v n. 155). Avevamo notato come gli aspiranti alla presidenza con tangibili possibilità di successo si fossero espressi tutti, per convinzione o per convenienza, più o meno nettamente, a favore della pena capitale.
Ora vediamo che gli unici due concorrenti rimasti in gara, così come i candidati alla vice presidenza da loro scelti, ritengono opportuno schierarsi sempre più apertamente per la pena capitale. Se la posizione forcaiola nettissima del candidato repubblicano McCain non è cambiata, particolare dispiacere suscita la virata di Barak Obama (che come senatore dell’Illinois aveva remato contro il sistema della pena di morte vigente in quello stato), nonché la coptazione di due aspiranti vice presidenti che sostengono fortemente la pena capitale.
Obama non solo preannuncia il capestro per Osama Bin Laden, caso mai venisse catturato, ma si è perfino detto pervicacemente favorevole alla pena capitale per i rei di violenza sessuale nei riguardi dei bambini, appena dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema degli Stati Uniti con la sentenza Kennedy v. Louisiana (v. n. 161 e articolo qui sopra). Il 23 agosto Barak Obama scelto come compagno aspirante alla vice presidenza il senatore federale proveniente dal Delaware Joseph “Joe” R. Biden Jr. che non solo è un aperto e convinto sostenitore della pena di morte ma che si è anche distinto per essere autore di un’importante legge federale forcaiola.
Biden, personaggio di grande esperienza nella politica estera, si vanta anche di essere l’autore dell’importante legge federale Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994 (Atto per il Controllo del Crimine Violento e l’Affermazione della Legge del 1994), spesso chiamata “Legge criminale di Biden”, che ha molto aumentato le fattispecie di reato capitale a livello federale includendovi atti di terrorismo ma perfino il traffico di droga, un reato non violento.
La Legge Biden fu approvata subito dopo l’attentato di Oklahoma City e fu utilizzata anche per ottenere la condanna a morte del dinamitardo Timothy McVeigh. Alcuni ritengono che la Legge Biden sia una delle sorgenti da cui scaturì il famigerato Atto Patriottico del 2001, con cui l’America rispose agli attentati dell’11 settembre di quell’anno.
E veniamo a Sarah Palin, la signora che il 29 agosto John McCain si è affiancato nella corsa elettorale candidandola alla vice presidenza. Ex reginetta di bellezza, Sarah Palin, che ha 44 anni ed è governatrice dell’Alaska, ha cinque figli, il più grande militare in procinto di partire per l’Iraq. L’ultima figlia ha sei mesi ed è affetta dalla sindrome di Dawn. Il suo attivo impegno per la propagazione della vita umana, che potrebbe desumersi anche dalla dichiarata avversione per la pratica dell’aborto, é contraddetto dal suo schierarsi per la pena di morte, per di più in uno stato che non la prevede.
La Palin è molto religiosa, come i credenti americani più conservatori vorrebbe che si insegnasse il ‘creazionismo’ nelle scuole (anziché l’evoluzionismo) e ha una speciale venerazione per la pena capitale.
Nel 2006, in campagna elettorale per diventare governatrice dell’Alaska, Sarah Palin si era premurata di far sapere ai potenziali elettori che “se il parlamento approvasse una legge per introdurre la pena di morte, io firmerei tale legge. Abbiamo il diritto di sapere che se qualcuno violenta e uccide un bambino, o ammazza una persona innocente sparando da un automobile in movimento, non abbia la possibilità di farlo una seconda volta.”
In polemica con gli ambientalisti, si è schierata per la trivellazione del coste dell’Alaska alla ricerca del petrolio.
La Palin, brava cacciatrice e abile pescatrice, è una tiratrice scelta favorevole alla libera detenzione delle armi.
Non ha una preparazione politica a livello nazionale ma la sua nomina da parte di McCain potrebbe essere dovuta alla determinazione che ha sempre dimostrato (a scuola si guadagnò il soprannome di “Sarah Barracuda” per la decisione con cui si faceva largo a gomitate nelle partite di pallacanestro).
Detto questo, sarebbe completamente sbagliato cullarsi in una posizione qualunquista e credere che sia del tutto indifferente che vinca l’uno o l’altro dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Dobbiamo domandarci se alla Casa Bianca sia più pericoloso l’opportunismo di Obama o la coerente e netta posizione forcaiola e aggressiva di McCain. Al peggio non c’è mai un limite.
10) FURIA DI ESECUZIONI IN IRAN, ANCHE DI MINORI ALL’EPOCA DEL REATO
In proporzione alla numerosità della popolazione, l’Iran è sicuramente il paese in cui si compiono più esecuzioni. Brutali impiccagioni in serie, eseguite spesso in pubblico, riguardano anche minorenni all’epoca dei crimini loro contestati, in violazione ai trattati internazionali firmati e ratificati dall’Iran. Nonostante le smentite delle autorità, non è del tutto escluso che vengano compiute lapidazioni di persone accusate di reati sessuali.
Il 19 agosto Amnesty International ha reiterato un appello urgente per fermare l’esecuzione in Iran di tre minorenni all’epoca del reato. Contestualmente ha diffuso la notizia dell’impiccagione di Reza Hejazi, avvenuta lo stesso giorno senza che il suo avvocato difensore fosse stato preavvisato secondo le modalità previste dalla legge iraniana.
Reza aveva soltanto 15 anni nel 2004, quando, insieme ad altri ragazzi, partecipò ad una rissa durante la quale un uomo morì pugnalato. Egli fu arrestato, processato per omicidio e condannato a morte da un tribunale per imputati adulti. La sentenza fu confermata in appello dalla Corte Suprema nel 2006, sebbene Reza, secondo la legge iraniana, avrebbe dovuto essere giudicato da un tribunale per minorenni.
Non si sono avute più notizie dei tre giovani che erano minorenni all’epoca del reato loro attribuito, Naser Qasemi, Mohammad Reza Haddadi e Iman Hashemi, oggetto dell’azione urgente di Amnesty del 19 agosto, tutti e tre condannati a morte in aperta violazione dei trattati internazionali firmati e ratificati dall’Iran. In compenso il 26 agosto è stato impiccato Benham Zarei accusato di aver ucciso un ragazzo nel 2005 nel corso di una lite. Benham aveva allora solo 15 anni. Né i suoi genitori, né il suo legale sono stati avvisati dell’imminenza dell’esecuzione.
Moltissime esecuzioni sono state compiute in Iran negli ultimi mesi, mentre altre si profilano. Nel mese di marzo, l’Iran ha lanciato una “campagna” per promuovere la sicurezza nazionale e abbassare il tasso di criminalità. Le conseguenze di questa campagna sono devastanti.
Nel mese di agosto è stata comunicata l’impiccagione di 29 persone, condannate per vari tipi di reato, tra i quali: omicidio, minaccia della sicurezza pubblica, disturbo alla quiete pubblica in stato di ubriachezza, rapporti sessuali extra-coniugali, furto, contrabbando di alcolici e di armi.
Una parte dei 29 condannati sono stati brevemente intervistati in TV poco prima dell’esecuzione; a tutti sono state rivolte le stesse domande: “Quali sono stati i tuoi crimini? Come ti senti riguardo all’esecuzione?” I condannati hanno meccanicamente risposto di meritare l’esecuzione, che è la giusta punizione per una vita di crimini.
Secondo le autorità queste impiccagioni dovrebbero servire da monito per coloro che intendessero delinquere. E’ stato inoltre comunicato alla stampa che molti altri imputati sono in attesa di giudizio e che le sentenze capitali verranno eseguite non appena emesse.
Decine e decine di arresti sono in corso. La televisione nazionale ha mostrato condannati a morte incatenati esibiti al pubblico come monito per il resto della popolazione.
Almeno otto donne e un uomo sono stati condannati alla lapidazione, le donne per reati che comprendono prostituzione, adulterio e incesto; l’uomo, un insegnante di musica, per aver avuto un rapporto sessuale con un’allieva. Anche in seguito alle pressioni internazionali, il portavoce del Potere giudiziario Alireza Jamshidi ha dichiarato il 5 agosto che è stata decretata una moratoria delle lapidazioni in Iran. Però non si può fare grande affidamento su simili affermazioni dei dirigenti iraniani, reiterate in passato dalle massime autorità e poi smentirete dai fatti.
Secondo Amnesty International, nei primi otto mesi dell’anno l’Iran ha già compito almeno 227 esecuzioni. Nel 2007 l’Iran ha ucciso almeno 317 persone, un numero inferiore soltanto a quello della Cina che ne ha ‘giustiziate’ almeno 470.
Dal 1990 l’Iran ha messo a morte come minimo 37 minorenni all’epoca del crimine, 26 dal 2005, 8 dei quali nel 2007.
Proibiscono la pena capitale per i minori di 18 anni sia il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, sia la Convenzione Internazionale per i Diritti dei Fanciulli; entrambi i trattati sono stati ratificati dall’Iran. (Grazia)
11) KARADZIC DAVANTI AL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE
L’ex leader della Repubblica serba di Bosnia Radovan Karadzic – responsabile di gravissime violazioni dei diritti umani nella prima metà degli anni Novanta - è stato arrestato in Serbia, poi estradato e accusato davanti al Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia il 29 agosto. Si conclude così una situazione di equivoca impunità durata tredici anni.
Radovan Karadzic, leader indiscusso della piccola Repubblica Serba di Bosnia creatasi nel quadro delle guerre che segnarono la dissoluzione della Jugoslavia, fu responsabile, insieme al generale Ratko Mladic, delle più gravi atrocità a sfondo etnico compite contro popolazioni europee dopo la seconda guerra mondiale. Incriminato per crimini di guerra e genocidio nel 1995 dal Tribunale Penale Internazionale ad hoc per la ex-Jugoslavia (*), Karadzic entrò in clandestinità nel 1997 godendo di oscure protezioni.
Il 21 luglio è stato annunciato l’arresto di Karadzic a Belgrado in un momento in cui la Serbia sta accelerando i passi necessari per entrare nell’Unione Europea, incluso il perseguimento di un maggior rispetto per la legalità internazionale.
Karadzic – che asserisce di essere stato ‘rapito’ tre giorni prima della comunicazione del suo arresto e tenuto in incommunicado - è stato subito estradato in Olanda e incarcerato all’Aja presso il Tribunale Internazionale. E’ comparso una prima volta in aula il 31 luglio rifiutando di dichiararsi colpevole o innocente. E una seconda volta a fine agosto, reiterando il rifiuto.
“Questa corte si spaccia come una corte che rappresenta la comunità internazionale, mentre di fatto è una corte della Nato, il cui scopo è quello di liquidarmi.” Ha esordito l’imputato il 29 agosto.
Il giudice presidente Iain Bonomy ha precisato che l’udienza non aveva per oggetto la legittimità della corte ma semplicemente la dichiarazione di innocenza o colpevolezza ed ha chiesto a Karadzic come si dichiarava rispetto alla prima delle accuse, un’accusa di genocidio.
“Non rispondo, coerentemente con la mia posizione riguardo a questa corte.” Ha detto l’imputato.
Quindi Bonomy ha domandato a Karadzic se intendesse fare la stessa cosa riguardo a tutti e 11 i capi di accusa. Questi ha risposto: “Assolutamente”. Allora il giudice ha registrato, come richiesto dal regolamento del Tribunale, 11 dichiarazioni di non colpevolezza.
La prossima udienza del processo a Karadzic si terrà il 17 settembre.
Le responsabilità principali di Karadzic concernono l’assedio di Sarajevo, che provocò innumerevoli vittime nella popolazione tra il 1992 e il 1995 (forse 10 mila morti) e la strage di Srebrenica – l’enclave sotto protezione ONU invasa dall’esercito di Karadzic nel 1995 che passò per le armi migliaia di uomini e ragazzi musulmani (si parla di quasi 8.000 esecuzioni a freddo, v. nn. 119, notiziario, 131, 147, notiziario).
Karadzic contesta la propria detenzione asserendo l’esistenza di un accordo segreto di immunità nei suoi riguardi stipulato con l’inviato degli Stati Uniti Richard C. Holbrooke in occasione delle trattative di Dayton che posero fine alla guerra in Bosnia nel febbraio del 1996.
Il processo a Radovan Karadzic dovrebbe svolgersi con meno difficoltà del precedente contro l’ex presidente della Federazione Jugoslava Slobodan Milosevic, processo che si prolungò per quattro anni, dal 2002 al 2006, presso lo stesso Tribunale Internazionale, senza arrivare ad una conclusione per il sopravvenire della morte dell’imputato. Le responsabilità di Karadzic sono dirette, precise e facilmente dimostrabili, al contrario di quelle di Milosevic (che ebbe però la temerarietà di scontrarsi frontalmente con le potenze occidentali nel corso della ‘guerra umanitaria’ per il Kossovo nel 1999).
Molti commentatori prevedono che il comportamento di Karadzic durante il processo non sarà affatto collaborativo all’accertamento della verità ma di totale contestazione della Corte, come avvenne per Slobodan Milosevic che chiese di difendersi da solo e contrattaccò sul piano politico la sua messa in stato d’accusa. Il processo non concluso e inutile di Milosevic fa il pari con il processo ingiusto e irregolare ai danni di Saddam Hussein che risultò del tutto inutile all’accertamento della verità storica sulle gravissime violazioni di diritti umani in cui fu coinvolto l’ex dittatore iracheno.
Ci domandiamo quali condizioni sarebbero necessarie per la riuscita dei processi che si celebrano nei riguardi di (una minoranza di) ex potenti che si macchiarono di crimini orrendi.
Sarebbe essenziale il ripensamento e la collaborazione degli imputati, non meno che la collaborazione e la scrupolosa rinuncia ad ogni pressione da parte degli attuali potenti della Terra. Sarebbe necessaria una presa in carico collettiva da parte di tutta l’umanità di crimini che nel passato non dovevano assolutamente accadere e che non dovrebbero mai più ripetersi.
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(*) Tale Corte è stata istituita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993
12) RICARDO GONZALES CERCA UNA SINCERA AMICIZIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la richiesta di corrispondenza di Ricardo Gonzales, condannato a morte in Florida, inoltrataci dalla nostra socia Barbara Bazolli.
Riporto a grandi linee la richiesta di un amico condannato a morte detenuto nel carcere di Raiford in Florida. Si chiama Ricardo Gonzales. Il suo indirizzo è:
Mr. Ricardo Gonzales (p 6228)123763
Union Correctional Institution
7819 NW 228th Street
Raiford, Florida 32026 USA
E' la prima volta che scrive per cercare un amico di penna e spera di trovare una persona vera, sincera e compassionevole per iniziare un percorso di amicizia duratura. Ha 38 anni e i suoi hobby sono la musica, leggere, quando è ispirato disegnare (specifica di non essere un artista come Michelangelo). Si definisce una persona positiva, con un buon "sense of humor", gli piace ridere e divertirsi. Aspetta con impazienza che qualcuno gli scriva!
Spero di aver fatto un discreto lavoro nella presentazione di Ricardo, se devo aggiungere altro o qualcosa non è chiaro fatemelo sapere tramite e-mail: 3394178700@tim.it
Grazie. Barbara.
13) CANCELLATE LE RICHIESTE DI PEN PAL DA UN SITO ABOLIZIONISTA
In conseguenza della pubblicazione di un articolo su un quotidiano, gli abolizionisti della Virginia hanno tolto dal loro sito tutte le richieste di corrispondenza di condannati a morte.
Sono state tolte dal sito degli abolizionisti della Virginia (Virginians for Alternatives to the Death Penalty) tutte e nove le richieste di corrispondenza di condannati a morte che conteneva.
La rimozione consegue ad un articolo comparso sul quotidiano Times-Dispatch il 30 luglio. Il giornalista Joe Macenka si era soffermato in particolare su Ricky Javon Gray, sospettato di aver ucciso 8 persone nel giro di tre mesi e condannato a morte per aver sgozzato i coniugi Bryan e Kathryn Harvey e le loro figlie di 9 e di 4 anni il 1° gennaio 2006.
“Mi piace leggere. Gioco a scacchi e mi interessano gli sport, ma ora sono costretto a seguirli solamente in TV.” Egli aveva fatto scrivere nel sito, dicendosi particolarmente interessato alla religione, alla politica e ai libri. Non aveva espresso particolari preferenze per le caratteristiche di un eventuale pen pal se non che fosse una persona che egli potesse considerare un ‘vero amico’.
L’articolo di Macenka ha prodotto un diluvio di telefonate e di e-mail al Times-Dispatch, così come nove pagine di commenti nel sito web del quotidiano. La maggior parte degli interlocutori se l’è presa con Gray per aver cercato dei pen pal ma molti hanno protestato perché il giornale ha parlato degli sforzi di Gray e degli abolizionisti di trovare corrispondenti.
Tre giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, gli abolizionisti della Virginia hanno rimosso tutte le richieste di pen pal dal loro sito http://www.vadp.org
E’ ricorrente la contestazione delle richieste di corrispondenza di detenuti condannati a morte pubblicate in Internet (v. nn. 74, 132, 148).
14) NOTIZIARIO
Usa. Concluso un primo processo a Guantanamo con una condanna a 5 anni. Il primo imputato a subire per intero un processo davanti ad una commissione militare di Guantanamo è stato Salim Ahmed Hamdan, ex autista di bin Laden. Un precedente processo istruito contro l’australiano David Hicks era finito con un patteggiamento nel marzo del 2007 (v. n. 148). Il 6 agosto la giuria composta da sei militari ha condannato Hamdan ad una pena di 5 anni e mezzo di reclusione per supporto materiale al terrorismo, di cui 5 anni e 1 mese già scontati negli oltre 6 anni di detenzione. L’accusa, dipingendo Salim Hamdan come un feroce guerriero di al-Qaeda aveva chiesto una pena minima di 30 anni. Il giudice presidente del processo aveva proibito all’accusa di presentare alcune prove ottenute contro di lui “in ambienti e condizioni altamente coercitive”. Al nome di Hamdan è intitolata la famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Hamdan v. Rumsfeld del giugno 2006 che aveva bloccato un precedente tentativo di processarlo (v. n. 140). L’imputato si è detto profondamente pentito di aver lavorato per bin Laden, affermando di averlo fatto per mantenere la famiglia. E’ incerta la sorte del detenuto allo scadere della pena fra cinque mesi. Infatti il governo americano si riserva di detenerlo a tempo indeterminato in qualità di ‘nemico combattente’.
Usa. Pessimo inizio del primo processo capitale a Guantanamo. Il 6 giugno i cinque ‘detenuti di alto valore’ sotto processo capitale a Guantanamo (v. n. 160) sono stati ufficialmente incriminati in aula davanti ad una Commissione militare. Il principale imputato, Khalid Shaikh Mohammed, accusato di essere il progettista degli attacchi dell’11 settembre 2001, e il suo asserito complice Walid bin Attash, hanno rifiutato gli avvocati che sono stati loro assegnati all’ultimo momento e sono stati autorizzati a difendersi da soli dal giudice presidente colonnello Ralph H. Kohlmann. Separatamente i due imputati sono stati edotti dal presidente del tribunale sugli svantaggi che derivano dal difendersi da soli. Il 10 luglio, in distinte udienze, i due detenuti hanno protestato per l’estrema inefficienza della Commissione militare che non consentiva loro di preparare e inoltrare documenti legali e di ottenere la traduzione in arabo delle carte processuali. Tre lettere inviate dagli accusati ai loro ‘avvocati di riserva’ dopo un mese non erano ancora arrivate, del pari il presidente Kohlmann non aveva ricevuto nessuna delle comunicazioni scritte inviategli da Mohammed e Attash. “Non siamo in una situazione normale, siamo in un inferno,” ha detto Mohammed a Kohlmann. Recenti documenti inoltrati alla corte dall’accusa e comunicazioni dell’accusa e del giudice dirette agli accusati o non sono stati consegnati affatto agli interessati o, se consegnati, mancavano della traduzione dall’inglese all’arabo. Ramzi Binalshibh, un terzo imputato, in cura con psicofarmaci, non si è presentato alle udienze; il giudice ha disposto una perizia per stabilire se è in grado di difendersi da solo. Il capitano della Marina Prescott L. Prince e gli avvocati civili David Nevin and Scott McKay consulenti legali degli imputati sostengono che i problemi delle commissioni militari vanno ben al di là dell’inefficienza o dal fatto che gli imputati vogliano difendersi da soli. Per esempio, il governo ha decretato che tutto quello che dice o scrive Mohammed è da secretarsi, con la proibizione per loro di usarlo in documenti da inoltrare alla corte o in attività investigative atte a determinare se costui è veramente colpevole degli atti terroristici dei quali ha reclamato la responsabilità. “C’è un impedimento dopo un impedimento dopo un impedimento,” ha affermato McKay.
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 agosto 2008