FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 183 - Settembre 2010
Sakineh Mohammadi Ashtiani
SOMMARIO:
1) Teresa uccisa in Virginia, Sakineh per ora sopravvive In Iran
2) Confusione ed aspre polemiche sul caso di Sakineh
3) La Georgia ‘giustizia’ Rhode, esangue dopo un tentativo di suicidio
4) Il suicidio di un amico, in uscita dal braccio della morte
5) Brown salvo in extremis, si prolunga la moratoria in California
6) Fallisce il tentativo di seppellire il caso di Todd Willingham
7) Nello stato della morte, un boia di elevata professionalità
8) Sull’immunità dalle accuse di tortura, Obama come Bush
9) Tortura nel democratico stato di Israele
10) Partecipa alla raccolta fondi in favore di Larry Swearingen!
11) Campagna della coalizione mondiale: dedicata agli Stati Uniti
12) Xenofobia in Europa: L’Italia in gara con la Francia
13) Notiziario: Iran, Uganda, Usa
1) TERESA UCCISA IN VIRGINIA, SAKINEH PER ORA SOPRAVVIVE IN IRAN
Il 23 settembre Teresa Lewis è stata uccisa in Virginia con un’iniezione letale, prima donna ‘giustiziata’ in quello stato dopo il 1912, anno in cui fu legata sulla sedia elettrica una diciassettenne di colore.
L’opinione pubblica occidentale, da una parte, e dall’altra il regime teocratico iraniano, negli ultimi tre mesi hanno avuto modo di scambiarsi reciproche accuse di inciviltà e di barbarie, utilizzando i casi di due condannate a morte: Sakineh Mohammadi Ashtiani in Iran e Teresa Lewis in Virginia.
La 43enne iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani vive, o meglio sopravvive, nell’orrendo carcere di Tabriz, condannata alla lapidazione per adulterio, o forse condannata all’impiccagione per uxoricidio, o forse ancora in attesa di una sentenza definitiva (1).
Invece l’uxoricida 41enne Teresa Lewis, nella civilissima democratica America, rinchiusa nel civilissimo braccio della morte della Virginia, è vissuta solo fino al 23 settembre scorso, data della sua esecuzione per iniezione letale.
Non sono serviti a salvare Teresa gli affannosi ricorsi della difesa basati sul suo ritardo mentale e sul ruolo da lei effettivamente svolto nel crimine attribuitole, a nulla sono serviti oltre 7000 messaggi inviati nel sito del governatore della Virginia, Robert McDonnell, né l’appello scritto magistralmente da John Grisham – il più noto scrittore vivente di casi giudiziari e di libri gialli - né la richiesta di grazia avanzata dall’Unione Europea, né tante, tante altre iniziative, come quelle di Amnesty International e delle altre organizzazioni per i diritti umani.
E nemmeno gli appelli dei parlamentari iraniani che, sostenendo che si stavano violando gli “standard internazionali”, minacciavano una ‘denuncia ufficiale’ degli Stati Uniti alla comunità internazionale se l’esecuzione di Teresa Lewis fosse avvenuta.
La Corte Suprema federale ha respinto l’ultimo appello per una sospensione dell’esecuzione – unici voti contrari quelli delle due giudici donna: Ginsburg e Sotomayor (2) - e il governatore McDonnell (3) si è ben guardato dal commutare la sua condanna. E così Teresa è morta, in conseguenza di una civilissima iniezione letale, il 23 settembre.
Ma chi era Teresa Lewis, e perché era stata condannata? Era una donna di scarsissime capacità intellettive, al limite del ritardo mentale, che fu accusata di aver assunto nel 2002 due killer, Matthew Shallenberger di 22 anni e Rodney Fuller di 19 anni, per eliminare il marito e il figliastro, promettendo loro la spartizione di un congruo premio assicurativo sulla vita. I due entrarono nella casa della coppia ed ammazzarono lui e il figlio di lui. Entrambi gli assassini furono catturati e condannati all’ergastolo. Invece Teresa, in qualità di mandante del duplice omicidio, fu condannata a morte, anche se non aveva materialmente premuto il grilletto (4).
Teresa Lewis ebbe inizialmente una debole e scoraggiata difesa legale che la indusse a patteggiare con l’accusa una dichiarazione di colpevolezza per non andare al processo davanti ad una giuria. In casi come questi all’accusa viene chiesto un impegno formale a non chiedere la pena di morte. Ciò non avvenne e un giudice condannò alla pena capitale l’imputata definendola “la testa del serpente.”
In seguito la Lewis si è potuta giovare di difensori brillanti e battaglieri, decisi ad evitare l’esecuzione capitale di una donna, evento che non si era verificato in Virginia dopo il 1912, anno in cui fu uccisa sulla sedia elettrica la diciassettenne nera Virginia Christian.
Il nuovo team di difesa ha sostenuto che ad architettare il complotto era stato in realtà il meno giovane dei due assassini, Matthew Shallenberger. Dotato di una buona intelligenza, costui aveva avuto buon gioco nel manipolare la mente debole e la personalità squinternata di Teresa.
Teresa Lewis all’epoca era dipendente da farmaci antidolorifici ed era affetta dalla “sindrome della personalità dipendente”, una condizione psicologica che le rendeva estremamente difficile fare qualsiasi cosa senza l’assistenza di un’altra persona, aveva consentito rapporti sessuali agli assassini e favorito lo stesso comportamento da parte della propria figlia di 16 anni.
Il chiarimento del ruolo avuto da Matthew Shallenberger non ha però modificato le cose. Anche perché il sospetto leader del complotto si era suicidato in carcere nel 2006 e non poteva più testimoniare a favore di Teresa, confermando una propria confessione, scritta in una lettera a un compagno di prigionia: “Ho incontrato Teresa nell’emporio Walmart. Dal momento in cui l’ho incontrata si è dimostrata una persona facilmente manipolabile.” Aveva scritto Shallenberger. “Quella di uccidere Julian e Charles Lewis fu interamente una mia idea. Avevo bisogno di denaro e Teresa era un facile obiettivo.”
Ad ogni modo in Virginia l’esigenza divenuta preponderante era quella di uccidere. Uccidere per assaporare la vendetta di un crimine atroce, non importava se la vita sacrificata non fosse quella del maggiore responsabile.
Non importava che in sette anni Teresa fosse molto cambiata, che in carcere si dedicasse a cantare e ad insegnare inni religiosi, cercando di dare amore e solidarietà a tutti coloro che poteva raggiungere.
In una delle ultime interviste, quella rilasciata a Maria Glod, giornalista del Washington Post, Teresa Lewis ha dichiarato: “Non ho premuto il grilletto, ma ho fatto del male, lasciando che due persone che amavo fossero spazzate via, in tal modo ho nuociuto anche ad altre persone che amo. Adesso lo capisco molto bene.” Aggiungendo: “Sono spaventata a morte… Voglio continuare a vivere. Non voglio morire.”
Subito dopo l’esecuzione di Teresa la sua assistente spirituale è scoppiata in singhiozzi, mentre il suo avvocato difensore, Jim Rocap, definita la sua morte “una tragica perdita”, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Questa notte, la macchina della morte della Virginia ha spento il meraviglioso, fanciullesco e amorevole spirito umano di Teresa Lewis. Teresa mi ha chiesto di ringraziare e di trasmettere il suo amore a tutti quelli che l’hanno sostenuta nella sua lotta per la vita. Per dirla con le sue parole quello che è accaduto ‘è terrificante’. Speriamo che la morte di Teresa possa provocare il ripensamento di un sistema giudiziario guasto a tal punto da permettere che accada qualcosa di così ingiusto e di così sbagliato”. (Con la collaborazione di Grazia)
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(1) V. n. 182 e art. seguente
(2) La nuova giudice Elena Kagan (v. n. 182) è entrata in carica solo il 1° ottobre.
(3) V. nel n. 176 l’art. “Il nuovo governatore della Virginia promette più pena di morte”
(4) In Virginia resiste la ‘triggerman rule’ una legge che permette di infliggere la pena di morte solo agli autori materiali di un omicidio (v. n. 176, 177), ma tale norma ha eccezioni, per esempio negli assassini su commissione
2) CONFUSIONE ED ASPRE POLEMICHE SUL CASO DI SAKINEH
La sorte di Sakineh Mohammadi Ashtiani in Iran rimane del tutto incerta. Al momento dell’esplosione del suo caso sullo scenario internazionale, Sakineh risultava definitivamente condannata alla lapidazione per adulterio, alla fine potrebbe essere impiccata per omicidio. O forse prosciolta.
Nel mese di settembre è continuata la poderosa mobilitazione internazionale in favore di Sakineh Mohammadi Ashtiani condannata a morte in Iran (v. n. 182) e si sono intensificate le reazioni irritate del regime degli Ayatollah alle censure e agli appelli provenienti dal mondo occidentale. Le oscure e spesso contraddittorie uscite delle autorità iraniane hanno aggiunto confusione ad un caso già complicato in partenza rendendo quasi impossibile una sua oggettiva valutazione.
Ricordiamo per sommi capi gli avvenimenti e le dichiarazioni susseguitesi sul caso di Sakineh da un mese a questa parte, dopo la chiusura del precedente Foglio di Collegamento, senza la pretesa di compilarne un elenco completo.
Il 30 agosto il quotidiano Keyhan, che esprime la linea del ‘leader supremo’ ayatollah Ali Khamenei, titola in prima pagina: “Anche prostitute francesi si uniscono agli schiamazzi per i diritti umani”, riferendosi a Carla Bruni, moglie del presidente Sarkozy, e all’attrice Isabelle Adjani che erano intervenute in favore di Sakineh. Pure la televisione di stato iraniana accusa la Bruni di usare il caso Ashtiani per “coprire le proprie relazioni extraconiugali”. Da notare che la Francia, tramite il Ministro degli Esteri Bernard Kouchner, aveva appena sollecitato sanzioni economiche da parte dell’Unione Europea se Sakineh fosse stata messa a morte.
Il 31 agosto, in una lunga, tesa intervista allo Spiegel, il Ministro degli Esteri iraniano Manouchehr Mottaki, dopo aver affermato che “molte delle cose riportate” sul caso Ashtiani “sono o completamente errate o contraddittorie” assicura che “questo caso richiede ulteriori revisioni giudiziarie. Una decisione finale non è stata presa.”
All’inizio di settembre si è sparsa la notizia, da confermare, che Sakineh avrebbe patito in carcere una (seconda) condanna a 99 frustate per complicità nell’indecente pubblicizzazione del proprio caso giudiziario, in particolare consentendo la pubblicazione sul Times di una sua foto in cui non appare velata (v. sopra).
Il 7 settembre il presidente della Commissione Europea Jose Manuel Barroso definisce “barbarica al di là di ogni parola” la condanna di Sakineh. “Noi deprechiamo questo atto, che non ha giustificazione in base a nessun codice morale o religioso”, dice al Parlamento Europeo. Lo stesso giorno il portavoce del Ministro degli Esteri dell’Iran, Ramin Mehmanparast, in una conferenza stampa dichiara: “Sfortunatamente essi difendono una persona sotto processo per omicidio e adulterio, due gravissimi crimini commessi da questa signora che non possono diventare una questione di diritti umani.” Aggiungendo: “Se il rilascio di tutti coloro che hanno commesso un omicidio fosse una questione di diritti umani, tutti i paesi europei dovrebbero liberare tutti i rei di omicidio.” Mehmanparast ha ribadito che la condanna per adulterio di Sakineh è sotto revisione (la lapidazione è sospesa) e che una sentenza per complicità in assassinio è ancora pendente.
E’ il caso di sottolineare l’emergere della tendenza a ribaltare completamente la situazione giudiziaria di Sakineh: al momento dell’esplosione del suo caso sullo scenario internazionale, costei risultava definitivamente condannata a 10 anni di carcere per omicidio e a morte (tramite lapidazione) per adulterio (v. n. 182), alla fine potrebbe risultare condannata all’impiccagione per omicidio.
Il 19 settembre il presidente Mahmoud Ahmadinejad, in un’intervista rilasciata ad una TV americana, nega che Sakineh sia mai stata condannata alla lapidazione.
Il 21 settembre il presidente Ahmadinejad dichiara: “Attualmente, 53 donne stanno nel braccio della morte negli USA, mentre le sentenza nei riguardi della signora [Sakineh] Mohammadi [Ashtiani] non è ancora definitiva in Iran; con tutto ciò [l’Occidente] ha lanciato una campagna mediatica anti-iraniana.” Il presidente cita il caso di Teresa Lewis che viene largamente riportato, con indignazione, dai media iraniani.
“Noi inoltreremo una protesta alla comunità internazionale contro gli USA, se la sentenza [contro Teresa Lewis] verrà eseguita”, dichiara lo stesso giorno Hossein Naghavi, portavoce del comitato parlamentare iraniano per i diritti umani. Diversi parlamentari iraniani chiedono la commutazione della condanna di Teresa Lewis.
Il 22 settembre, vigilia dell’esecuzione della Lewis, dichiara Drewery Dyke, esponente di Amnesty International: “I casi di Sakineh Mohammadi Ashtiani e di Teresa Lewis sono entrambi tragici ognuno per loro conto e non è assolutamente di aiuto usarli come armi in una disputa diplomatica tra governi.”
Il 27 settembre l’Accusatore nazionale iraniano Gholam-Hossein Mohseni-Ejei annuncia in conferenza stampa che Sakineh Mohammadi Ashtiani ha ricevuto una condanna a morte per omicidio e che tale sentenza ha la precedenza su quella relativa all’adulterio. Pertanto Sakinek verrà impiccata e non lapidata. Mohseni-Ejei avverte che il sistema giudiziario non si fa influenzare dalla propaganda veicolata dai media occidentali.
Il 28 settembre, in apparente contraddizione con quanto riferito da Mohseni-Ejei, il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Ramin Mehmanparast dichiara in conferenza stampa che il verdetto nei riguardi di Sakineh non è definitivo per nessuna delle due imputazioni e che sono in corso ‘investigazioni finali’ sul suo caso.
E’ difficile fare previsioni sul destino di Sakineh, per la quale sembra profilarsi una condanna a morte per omicidio (che comporta l’impiccagione) e non per adulterio (con conseguente lapidazione). Siccome il codice islamico iraniano prevede il proscioglimento dalla condanna a morte per omicidio se perdonati dai familiari della vittima, essendo scontato che i figli della vittima (il marito di Sakineh) la perdonino, ai fieri giudici iraniani potrebbe rimanere una sola opzione chiara e lineare, quella di prosciogliere la donna. Un conclusione del genere potrebbe costituire anche una buona mossa propagandistica dell’Iran contro gli Stati Uniti (che hanno ucciso l’alter ego di Sakineh, Tersa Lewis).
3) LA GEORGIA ‘GIUSTIZIA’ RHODE, ESANGUE DOPO UN TENTATIVO DI SUICIDIO
Brandon Rhode, incline al suicidio fin dall’adolescenza, si è tagliato le vene nel giorno in cui doveva essere messo a morte. Rianimato e ricucito è stato ‘giustiziato’ 6 giorni dopo, fuori di testa ed esangue.
L’iniezione letale era stata programmata per Brandon Rhode in Georgia alle 19 del 21 settembre. La mattina di quel giorno il condannato, sia pure sorvegliato a vista, ha tentato il suicidio producendosi profondi tagli nelle braccia e nel collo con una lametta da barba che aveva tenuto nascosta. Il migliore amico di Brandon nel braccio della morte, Leeland Braley, si era già suicidato all’inizio dell’anno nella cella accanto; un mese prima un altro condannato, Timothy Pruitt, era stato trovato morto - suicida o ucciso - non molte celle più in là.
Portato di corsa all’ospedale in pericolo di vita, Brandon Rhode è stato rianimato e ricucito. Riportato subito indietro nonostante avesse perso metà del suo sangue, in carcere è stato assicurato ad una sedia di contenzione definita uno strumento di tortura dal suo avvocato Brian Kammer. Questi lo ha potuto vedere solo dopo aver atteso per ore, trovandolo in preda a “grave dolore e sconforto”, con la faccia “smunta, pallida e giallastra.”
Il 23 settembre un medico di fiducia, dopo aver visitato Brandon, ha riferito all’avvocato che il prigioniero si stava “attivamente dissociando” e perdeva “il contatto con la realtà.”
I molteplici tentativi di Kammer di ottenere una congrua sospensione dell’esecuzione sono soltanto serviti a ritardare di 6 giorni e 3 ore l’iniezione letale, che è stata somministrata a Brandon, non senza difficoltà che hanno reso vieppiù crudele la procedura, alle 22 del 27 settembre.
Il personale addetto all’esecuzione ha impiegato mezz’ora per inserire una cannula in una vena adatta all’iniezione letale.
Alla fine il condannato non ha parlato né recitato una preghiera. Ha impiegato 14 minuti per morire, il doppio del tempo previsto. Poco prima di essere dichiarato morto Rhode ha girato il capo mostrando ai testimoni una vistosa medicazione sul collo.
Brandon Rhode ha concluso così un’esistenza terribile, perfettamente coerente con la parabola dei condannati a morte negli USA., di cui ha condiviso molti dei principali e più ricorrenti aspetti, inclusa la tendenza al suicidio.
Era nato in Mississippi da una madre nubile di 15 anni che per 5 mesi non si era accorta di essere incinta e aveva continuato a bere e a farsi di droghe. Così l’alcol aveva danneggiato il cervello del figlio già prima della nascita.
Brandon cominciò ad assumere alcol a 11 anni, e a 13 già ne abusava regolarmente, facendo contemporaneamente uso di droghe con regolarità. A 13 anni tentò il suicidio e dovettero ricoverarlo in ospedale. A 15 anni lasciò definitivamente la scuola e fu spedito da sua madre a vivere con il padre naturale, alcolista e drogato.
Il crescente bisogno di droga spinse Brandon Rhode a compiere furti nelle case per procurarsi i soldi necessari a comprarsi la roba. Questo tipo di vita finì quando Rhode, appena maggiorenne, penetrò in un’abitazione alla ricerca di preziosi assieme ad un complice, Daniel Lucas. I tre occupanti della casa furono uccisi. Sia Brandon Rhode che Daniel Lucas furono condannati a morte.
4) IL SUICIDIO DI UN AMICO, IN USCITA DAL BRACCIO DELLA MORTE
Fernando Eros Caro, nostro corrispondente dal braccio della morte della California, ci parla del suicidio di George, un caro amico, compagno di prigionia. George aveva appena saputo che sarebbe uscito da San Quentin, non più condannato a morte ma al carcere a vita senza possibilità di liberazione. Nonostante la tristezza di quest’evento, Fernando si sforza di continuare a sperare e ad amare la vita: “La vita vale la pena di essere vissuta. La vita “esiste” solo nel viverla!”
Questa mattina, sabato 27 agosto 2010, prima che ci venisse servita la colazione, l’allarme risuonò nella mia unità. Un rumore forte, disturbante, ronzante. Capii che era successo qualcosa di grave, ma non sapevo di cosa si trattasse. Qualche ora più tardi un rappresentante dei “servizi per la sanità mentale” si è presentato e ha domandato a ciascuno di noi se ci sentivamo bene. Mi fu detto che un uomo, a poche celle di distanza dalla mia, si era suicidato. Si tratta di George, aveva 70 anni.
Qualche settimana fa, a George fu comunicato che non avrebbe ricevuto una nuova condanna a morte. Lo avrebbero invece condannato all’ergastolo “senza possibilità di uscita sulla parola”.
L’amministrazione carceraria stava preparando il suo trasferimento in un altro carcere della California.
Conoscevo George da molto tempo. Parlavamo, giocavamo a carte, scherzavamo e ridevamo insieme. Proprio ieri, eravamo seduti ad un tavolo e parlavamo di come sarebbe stato diverso per lui non essere più nel braccio della morte. Non dover sopportare più sulle proprie spalle il peso della minaccia dell’esecuzione.
Sembra che la morte, a volte, possa essere preferita alla perdita della propria libertà, alla perdita del perseguimento della felicità, ed alla soppressione totale di una segreta speranza.
La vita vale la pena di essere vissuta. La vita “esiste” solo nel viverla!
Vi auguro ogni bene
Fernando
5) BROWN SALVO IN EXTREMIS, SI PROLUNGA LA MORATORIA IN CALIFORNIA
Si estende sine die la moratoria in California, per un complesso di motivi, inclusa la penuria di veleno.
La tanto discussa e pubblicizzata ripresa delle esecuzioni capitali in California dopo una moratoria di quasi cinque anni (v. nn. 136, 145, 176) è stata vanificata in extremis, e rimandata sine die, per diverse questioni inerenti la procedura dell’iniezione letale, incluso il fatto che la validità di uno dei tre farmaci impiegati per uccidere, il Pentotal, era in scadenza.
Di un primo condannato a morte, Albert Greenwood Brown, uno dei 6 che hanno esaurito gli appelli su 708 ospiti del braccio della morte di San Quentin, era stata fissata l’esecuzione per il 29 settembre. Per nessun altro detenuto era stata fissata una data, neanche per Michael Morales che nel febbraio del 2006 giunse a due ore dall’esecuzione (v. n. 136).
La data del 29 settembre per Brown è saltata in conseguenza di frenetiche schermaglie legali – che hanno coinvolto corti federali e statali di vari livelli - sull’idoneità del nuovo metodo dell’iniezione letale messo a punto dalla California e ufficializzato il 29 agosto (non è chiara neanche l’idoneità della nuova camera della morte - costruita a San Quentin dai detenuti e costata 853.000 dollari, completata e presentata alla stampa il 21 settembre - e del nuovo team di esecuzione, selezionato ed addestrato con criteri innovativi).
Spostata al 30 settembre, e spostata ancora ‘almeno fino al 1° ottobre’, l’esecuzione di Brown alla fine è stata cancellata dallo stato perché sulla riserva di Pentotal in suo possesso è stampigliata la data di scadenza del 30 settembre 2010.
Non si sa quando potranno riprendere le esecuzioni in California, ma non certo nel corrente anno 2010. Anche perché la casa farmaceutica Hospira che produce il Pentotal potrà metterne a disposizione dell’amministrazione carceraria della California un quantitativo solo nel 2011 (v. art. nel Notiziario).
Riferendosi ad Albert Greenwood Brown, il governatore della California Schwarzenegger ha dichiarato: “Fu giudicato colpevole e condannato a morte da una giuria di suoi pari, ed ora dopo 30 anni lo stato è ancora incapace di compiere la sua esecuzione. E’ assurdo che il nostro sistema continui ad impedire allo stato di eseguire il volere del popolo.”
6) FALLISCE IL TENTATIVO DI SEPPELLIRE IL CASO DI TODD WILLINGHAM
La Commissione per le Scienze Forensi del Texas si è rifiutata di archiviare il caso di Cameron Todd Willingham, probabile innocente ‘giustiziato’ nel 2004, come preteso dal presidente della Commissione
Sembra non aver mai fine la vicenda di Cameron Todd Willingham, il nostro amico “Todd” accusato di aver incendiato la sua casa di Corsicana in Texas per far morire le sue tre figliolette nel 1991, condannato a morte nel 1993 e ‘giustiziato’ nel 2004 (v. ad es. nn. 124, 166, 171, 172, 179, 182).
La Commissione per le Scienze Forensi del Texas si è riunita il 17 settembre su iniziativa del presidente John Bradley per esaminare un rapporto, da lui stesso preparato, riguardante il caso di Todd. Nell’intenzione di Bradley il rapporto – che giungeva 5 mesi dopo la creazione di una apposita sotto-commissione di 4 membri (v. nn. 179) - doveva essere discusso, messo a punto e approvato in giornata.
Il rapporto stilato da Bradley, scoperto in anticipo dall’Associated Press, se approvato, avrebbe posto fine alla diatriba sul caso Willingham. Infatti esso si limita ad affermare che gli investigatori che indagarono sull’incendio di Corsicana – attribuendolo a Willingham e contribuendo in modo determinante alla sua condanna a morte - non commisero negligenze o scorrettezze professionali (v. n. 179). Punto e basta. Con grande sollievo di vari personaggi, a cominciare dal governatore Rick Perry, che nel 2004 negò la grazia al condannato nonostante gli fosse stata consegnata in extremis la prima perizia che squalificava le investigazioni fatte dai vigili del fuoco (1).
Ricordiamo che il caso Willingham divenne famoso dopo che alcuni esperti affermarono concordemente che l’investigazione sull’incendio di Corsicana fatta dai vigili del fuoco era del tutto inattendibile perché basata su criteri scientifici errati. Nel 2008 di tale investigazione accettò di occuparsi la Commissione per le Scienze Forensi del Texas che chiese la consulenza di Craig Beyler del Maryland, uno dei massimi esperti di incendi, direttore dell’Associazione Internazionale per la Scienza della Sicurezza del Fuoco (International Association of Fire Safety Science). Beyler rincarò la dose squalificando e mettendo quasi in ridicolo l’investigazione fatta dai pompieri texani. Secondo lui nessun ragionevole investigatore avrebbe potuto determinare che l’incendio di Corsicana fu appiccato intenzionalmente.
Il 2 settembre 2009, due giorni prima che la Commissione si riunisse per un’udienza pubblica sul caso Willingham in cui sarebbe stata discussa la perizia di Beyler, il Governatore del Texas Rick Perry ne sostituì il presidente Sam Bassett, un avvocato difensore, con John Bradley, un accusatore, provocando un rinvio a tempo indeterminato della revisione del caso. Perry, insieme al presidente sostituì altri due membri della Commissione e successivamente un ulteriore membro (v. n. 173).
Ma torniamo al 17 settembre scorso.
“Confido che loro siano sul punto di avere le risposte giuste” aveva dichiarato Perry all’inizio della giornata. “Alla fine di tutto, credo che si troverà un mostro assoluto che ha ucciso le sue stesse creature e la scienza sta per confermare ciò… E penso che alla fine della giornata i Texani vedranno e condivideranno che costui fu un uomo molto molto cattivo che uccise le sue creature.”
Le cose sono andate in modo molto diverso da quanto previsto da Bradley, e auspicato dal governatore Perry in periodo elettorale.
Infatti la Commissione per le Scienze Forensi invece di approvare ed adottare il rapporto presentato da Bradley, lo ha bocciato in pieno, chiedendo tempo, presumibilmente fino a metà novembre, per acquisire gli elementi che le permettano di giudicare se veramente gli investigatori dell’incendio attribuito a Willingham non siano responsabili per essersi basati su criteri che ora si sa bene essere inattendibili o fuorvianti. Nell’udienza che si dovrebbe tenere il 16 novembre, la Commissione per le Scienze Forensi del Texas ascolterà alcuni esperti tra i quali un membro della direzione statale dei vigili del fuoco e, finalmente, lo stesso Craig Beyler.
John Bradley si era fieramente opposto ad una conclusione del genere, ma invano. Aveva tentato di imporre ai colleghi di dichiarare che gli investigatori agirono correttamente, finendo con l’alzare la voce e accusando i commissari di “sottrarsi ai loro doveri”.
I commissari non si sono fatti intimidire e – per giunta – hanno anche osservato che, ammesso e non concesso che gli investigatori si fossero basati su criteri ancora in auge agli inizi degli anni Novanta, i medesimi avrebbero dovuto correggersi nei successivi 12 anni e prima dell’esecuzione di Willingham.
Anche se la Commissione per le Scienze Forensi ha avvertito che non si pronuncerà sulla colpevolezza o sull’innocenza di Willingham, l’affermazione che una scienza fasulla contribuì alla sua condanna rafforzerebbe la convinzione che il Texas può aver messo a morte un innocente (2).
Il pronunciamento della Commissione potrebbe avere anche rilevanti conseguenze pratiche per le circa 750 persone detenute in Texas per incendio doloso.
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(1) Le investigazioni furono condotte da Manuel Vasquez, un vice capo dei vigili del fuoco del Texas, e da un vigile del fuoco di Corsicana, tale Douglas Fogg.
(2) A fine settembre si è appreso che il giudice di contea Charlie Baird ha acconsentito ad avviare un procedimento giudiziario, sollecitato da alcuni parenti di Willingham, che dovrebbe accertare se il condannato era o meno innocente e in tal caso disporne l’esonerazione postuma. E' prevedibile che l’establishment texano faccia di tutto per evitare l’eventuale esonerazione di Willingham che, a quanto ci risulta, sarebbe la prima di un condannato a morte giustiziato.
7) NELLO STATO DELLA MORTE, UN BOIA DI ELEVATA PROFESSIONALITÀ
Dopo aver diretto, con garbo e grande professionalità, la squadra di esecuzione del Texas per 140 volte, Charles O’Reilly se ne va in pensione, non particolarmente felice ma senza alcun rincrescimento.
Charles O’Reilly, compiuti sessant’anni, va in pensione dopo aver lavorato nelle carceri del Texas per 33 anni. Negli ultimi 6 ha svolto il suo servizio presso la casa della morte di Huntsville, e in questo periodo ha presieduto all’esecuzione di 139 uomini e una donna, un terzo delle 463 persone ammazzate da quando il Texas ha ripreso le esecuzioni nel 1982.
Il 2 di settembre parla senza alcun rincrescimento del suo operato in un’intervista del quotidiano inglese Daily Mail. Una foto nel giornale lo mostra bianco, tetro, precocemente invecchiato, abbandonato per l’ultima volta sullo schienale della sua poltrona d’ufficio.
Descrive la sua attività come un qualsiasi lavoro svolto con cura e scrupolo. E soprattutto con un elevatissimo grado di ‘professionalità’. Dice che quando un condannato arrivava a Huntsville, nel primo pomeriggio del giorno stesso in cui avviene l’esecuzione, costui poteva essere arrabbiato, oppure molto agitato, o nervoso. O’Reilly, in un colloquio che aveva subito con lui, cercava di prevedere il comportamento che avrebbe tenuto durante l’intera procedura. Gli spiegava che desiderava offrirgli tutta la dignità possibile. Lo informava che sarebbe tornato verso le 18 e gli avrebbe solo detto “È ora”.
Racconta che pochi condannati recalcitrano in quel momento, al massimo alcuni rifiutano di camminare e occorre portarli di peso, ma la maggioranza va all’esecuzione con le proprie gambe.
Il garbato comportamento di O’Reilly raggiungeva il suo punto più alto al momento della dichiarazione finale del condannato. Gli aveva spiegato in precedenza che poteva dire quel che voleva a patto che parlasse in inglese e che non proferisse oscenità o bestemmie. “Se iniziano le imprecazioni, inizia immediatamente anche l’iniezione letale,” ammonisce O’Reilly. “In tal caso ha circa 15 secondi per parlar male, poi è tutto finito. Sono le sue ultime parole, quindi ciò che dice ha una certa importanza”.
Alla fine, con tutti i testimoni che osservavano la scena, mentre il cappellano teneva una mano sulla gamba del prigioniero per confortarlo, giunto l’ultimo OK dal direttore del carcere, O’Reilly si chinava vicino al viso del condannato. “Gli dicevo: ‘Desideri rilasciare una dichiarazione?’ Tralasciavo di usare le parole ‘finale’ o ‘ultima’, penso fosse meglio così, cercavo di tener fuori questo concetto”.
Edward Smith, una guardia carceraria che ha lavorato con Charles O’Reilly, lo definisce “un leader naturale”. Una persona di spiccata capacità organizzativa, in grado di mettere tutti a loro agio, anche e soprattutto le guardie coinvolte nella procedura dell’esecuzione.
Nonostante la tendenza a non provare rimorsi, O’Reilly afferma di preferire il ricordo di altre attività nella sua carriera di lavoro, piuttosto che delle esecuzioni.
Questa intervista mi fa venire i brividi, perché dimostra ancora una volta come una persona qualunque, una volta inserita in una procedura legalizzata che abbia come obiettivo finale l’uccisione di esseri umani, riesca a vivere questo tipo di esperienza, non una ma decine o centinaia di volte, con freddezza totale, abituandosi all’attività omicida come fosse un qualsiasi lavoro da svolgere con professionalità e calma.
E’ interessante notare che il carattere del signor O’Reilly ha aspetti simili a quelli di altri famosi boia, operanti anche in epoche e culture completamente diverse da quella degli Stati Uniti di oggi: garbo, orgoglio professionale, assenza di rimorsi o di rimpianti (v. ad. esempio n. 105, Notiziario, e “Storia di un carnefice” e nel nostro sito: http://www.paulrougeau.org/ita%20ultimissime.htm ).
D’altronde si sa che il contesto e la pressione dell’autorità riescono a neutralizzare anche i più elementari principi etici degli individui (v. ad es. n. 136). Come non ricordare, a questo proposito, il famoso ‘esperimento di Milgram’ in cui ‘cittadini qualsiasi’ venivano indotti, all’interno di un protocollo ben strutturato, a infliggere torture di intensità crescente e – alla fine - potenzialmente letali, ad un soggetto legato ad una specie di sedia elettrica (*) (Grazia)
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(*). Le scariche elettriche somministrate, come le sofferenze del soggetto, erano ovviamente simulate, v. ad esempio: http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_Milgram
8) SULL’IMMUNITÀ DALLE ACCUSE DI TORTURA, OBAMA COME BUSH
L’amministrazione Obama si è opposta con successo ad una richiesta di risarcimento di cinque stranieri per essere stati rapiti e sottoposti a tortura nel clima della ‘guerra al terrore’ sotto la presidenza Bush
Nessun risarcimento verrà corrisposto a cinque prigionieri vittime della extraordinary rendition praticata nell’ambito della cosiddetta ‘guerra al terrore’ dichiarata dal presidente Bush (v. ad es. nn. 134, 160). Costoro hanno denunciato di essere stati torturati dalla CIA in una prigione segreta in Afghanistan e/o di essere stati torturati in Marocco o in Egitto, dopo essere stati ‘prestati’ dagli Americani agli aguzzini locali.
I cinque - rapiti in Svezia, Pakistan, Giordania e Gambia – furono prelevati in strada nel paese di residenza o mentre erano in viaggio di affari all’estero, bendati, legati, spogliati e trasportati nei ‘buchi neri’ della CIA. Denunciano di essere stati picchiati, affamati, tormentati con l’elettricità ai genitali, tenuti per mesi di seguito al buio…
Uno dei cinque sfortunati ricorrenti che hanno appena perso una causa nei riguardi dell’Amministrazione USA, è Binyam Mohamed, un etiope legalmente residente in Inghilterra. Egli afferma di essere rimasto imprigionato in Marocco per 18 mesi dove fu sottoposto ad un ampio ventaglio di torture: ad esempio gli fu tagliuzzato il pene e successivamente sulle ferite fu fatto colare un liquido bollente e urticante. Ritornato in mano della CIA, egli fu portato in una prigione segreta in Afghanistan dove venne tenuto al buio, semidigiuno e sottoposto a rumori assordanti simili alle urla di donne e bambini 24 ore al giorno. Dall’Afghanistan passò a Guantanamo – dove rimase cinque anni temendo di essere processato e condannato a morte (v. n. 160). Nel 2009 gli fu consentito di uscire e ritornare in Inghilterra. Come niente fosse.
La causa era stata intentata dall’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili), nell’interesse delle cinque vittime, contro la società Jeppesen Dataplan Inc., un’associata della Boeing, accusata di organizzare voli segreti della CIA per trasferire in vari parti del mondo stranieri rapiti all’estero da imprigionare e interrogare.
L’8 settembre la Corte federale d’Appello del Nono Circuito ha respinto – per superiori ragioni di segretezza e di sicurezza – la richiesta di risarcimento dei cinque stranieri per le torture subite sotto l’amministrazione Bush. La corte, al completo dei suoi 11 membri, con la maggioranza risicata di 6 giudici contro 5, ha legittimato in tal modo la posizione dell’amministrazione Obama, identica a quella della precedente amministrazione: niente causa civile perché da essa potrebbe emergere qualche informazione segreta (1).
La sentenza dell’8 settembre rovescia – su ricorso dell’amministrazione Obama - una precedente sentenza adottata da un panel di tre giudici della medesima Corte del Nono Circuito. Ad aprile del 2009, il panel aveva affermato che il segreto di stato non poteva essere invocato dall’Esecutivo per evitare le cause di risarcimento danni ma solo per proteggere particolari informazioni da tenere riservate.
L’avvocato dell’ACLU Ben Wizner, che difende gli interessi dei cinque torturati, rivelando il proposito di ricorrere alla Corte Suprema, ha dichiarato: “Fino ad oggi non una sola vittima del programma di tortura dell’Amministrazione Bush ha avuto un solo giorno davanti ad una corte.”
Un certo scetticismo è più che giustificato, a questo punto, riguardo al fatto che la Corte Suprema – recentemente rinforzata in senso favorevole all’Amministrazione con l’ingresso della giudice Elena Kagan (v. n. 179, 180, ) - voglia entrare nel merito della questione e riformare la sentenza della Corte del Nono Circuito.
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(1) Come ricorda un articolo del New York Times dell’8 settembre, Obama “ha anche autorizzato la CIA ad uccidere cittadini americani sospetti di avere legami col terrorismo, ha bloccato i tentativi dei detenuti in Afghanistan di avanzare ricorsi di habeas corpus che contestino il motivo della loro detenzione senza processo, ha proseguito il programma delle extraordinary rendition […]” (v. nn. 165, nel secondo art. “La guerra globale al terrore”, 167, 169, 174, 179, 180, Notiziario).
9) TORTURA NEL DEMOCRATICO STATO DI ISRAELE
La tortura, proibita senza eccezioni dai trattati internazionali riguardanti i diritti umani, è ancora routine in molti regimi dittatoriali o autoritari, ed è presente nei paesi democratici. Ricorrenti notizie di tortura affiorano nel nostro Paese. Come abbiamo denunciato da queste pagine, nel clima della ‘guerra al terrorismo’ l’uso della tortura si è intensificato da parte degli Stati Uniti d’America. Da molti decenni ‘tecniche coercitive’ equivalenti a tortura vengono utilizzate dallo stato di Israele nei riguardi dei resistenti palestinesi. A titolo di esempio di ciò che avviene in Palestina, riportiamo, in estrema sintesi, una scheda (*) realizzata dall’organizzazione “Addameer”, che ha sede a Gerusalemme Est e difende i diritti dei prigionieri palestinesi. La scheda – inviataci da “Medici contro la Tortura’ - riguarda il sedicenne Mohammad Mahmoud Dawoud Halabiyeh, detenuto in un carcere per adulti. In fondo alla scheda trovate i recapiti di Addameer. (Traduzione dall’inglese di Anna Maria Esposito)
MOHAMMAD MAHMOUD DAWOUD HALABIYEH
Data di nascita: 22 Ottobre 1993 (età: 16 anni)
Residenza: Abu Dis, Gerusalemme Est occupata
Occupazione : studente
Data di arresto : 6 Febbraio 2010
Luogo di detenzione : Prigione Ofer
Indirizzo postale:
Ofer Prison
Givat Zeev, P.O. Box 3007
ISRAELE
[…]
La sera del 6 Febbraio 2010, Mohammad Mahmoud Dawoud Halabiyeh stava camminando con i suoi amici Anas e Ayyad nella loro città di Abu Dis, un quartiere tagliato fuori da Gerusalemme dal Muro dell’Annessione. Appena oltrepassarono il campo militare israeliano vicino alla loro città, furono sorpresi da una pattuglia della Polizia di Confine Israeliana sbucata da dietro una fila di alberi di ulivo. I soldati tennero le loro armi puntate minacciosamente verso i ragazzi mentre avanzavano verso Mohammad e i suoi amici. Quando raggiunsero i ragazzi, i soldati prima afferrarono Anas che alzò le braccia in segno di resa. Terrorizzato da quella vista, Mohammad cominciò a correre verso casa sua. Così facendo, saltò giù da una casa in costruzione e precipitò in un fosso profondo circa quattro-cinque metri, fratturandosi la tibia e il perone della gamba sinistra, proprio al di sopra della caviglia. […]
I soldati allora costrinsero Mohammad ad alzarsi, ma poiché egli zoppicava visibilmente, due soldati acconsentirono a trasportare Mohammad ferito. Arrivati alla base militare di Israele, i soldati abbandonarono Mohammad a terra e cominciarono a scuotere la sua gamba mentre lo interrogavano sulla sua famiglia e i suoi amici. Poi tornarono a colpire il ragazzo, lo costrinsero a sedersi sul pavimento, lo bendarono e lo ammanettarono in avanti con manette di plastica che strinsero fino a provocargli dolore. […]
Nel corso di 40 minuti di viaggio, un soldato continuò a colpire Mohammad sul viso e a dar calci alla sua gamba rotta. L’occhio destro di Mohammad si gonfiò per i pugni.
L’abuso da parte dei soldati continuò, dopo l’arrivo all’ospedale dove i soldati israeliani accompagnarono Mohammad, durante ogni fase degli esami medici. Quando Mohammad disse ai soldati che avrebbe riferito tutto ciò che era accaduto e gridò per avere un medico, i soldati gli chiusero la bocca con nastro adesivo e lo ammanettarono ad entrambi i lati del letto.
Mohammad ricorda che “per lunghe ore durante la notte, i soldati mi chiesero che cosa avrei detto all’inquisitore, se avrei raccontato ciò che mi avevano fatto. Io ho risposto che avrei detto a tutti ciò che avevano fatto. I colpi si intensificarono per tutta la notte […]”
Il mattino seguente, il 7 febbraio 2010, Mohammed soffriva terribilmente, in particolare gli doleva la gamba sinistra ferita e il lato sinistro del mento dove era stato colpito ripetutamente nella notte. […]
Mohammed fu poi trasferito su di un veicolo militare israeliano dove i soldati gli legarono le mani e gli coprirono gli occhi e il volto con un cappuccio. […] Quando arrivarono alla stazione di polizia Ma’ale Adumim nel primo pomeriggio, Mohammad fu interrogato per parecchie ore da un inquisitore israeliano. L’inquisitore accusò Mohammad di aver lanciato bottiglie Molotov contro pattuglie di soldati israeliani e gli disse che il suo amico Anas aveva già confessato. […] Mohammad negò le accuse dell’inquisitore.
L’inquisitore, allora, cominciò a metter giù una falsa dichiarazione, scrivendo che Mohammad diceva di aver lanciato bottiglie Molotov, e cercò di costringere Mohammad a firmarla. Mohammad si rifiutò di firmare. L’ufficiale israeliano prese a minacciarlo di colpirlo e di ucciderlo. Poi disse a Mohammad che avrebbe fatto sesso con lui e che “ gli piaceva far sesso con ragazzi giovani”. […]
Alle 20 e 30, quella sera, dopo più di un giorno con poco cibo e senza sonno, Mohammad firmò una confessione in cui dichiarava di aver lanciato bottiglie Molotov. […]
In seguito, due agenti della Nahshon [unità militare speciale israeliana], presero Mohammad per trasferirlo alla prigione Ofer, nella base Militare Ofer vicino Ramallah.
Mohammad a questo punto fu ammanettato e, privo di bastone, saltellava penosamente sulla gamba buona. Mohammad arrivò a Ofer intorno alle 19 ma dovette aspettare nel veicolo della Nahshon fino a mezzanotte prima che lo trasferissero nel reparto. […]
Il […] 9 di Febbraio, Mohammad fu rinchiuso in uno spazio circondato da una rete metallica, chiamato “gabbia”. Sul tardi di quel giorno, Mohammad incontrò un medico della prigione che gli promise di portargli un bastone. Quella sera, le guardie carcerarie portarono a Mohammad un paio di stampelle che usò per due giorni prima di ottenerne un paio usate precedentemente da un amico di Abu Dis di nome Wael Younis detenuto anch’egli a Ofer.
Capi d’accusa e processo
Il 16 Febbraio 2010, i pubblici ministeri militari israeliani formalizzarono le accuse contro Mohammad in base alla normativa militare israeliana che vige nei territori palestinesi occupati. Mohammad è accusato di cinque reati riguardanti il lancio di bottiglie Molotov in Abu Dis in più occasioni tra il novembre 2009 e la data del suo arresto a febbraio. […]
Informazioni familiari e personali
Mohammad è uno di nove figli. Durante i primi quattro mesi che seguirono l’arresto, egli non ricevette alcuna visita dai familiari. La situazione non è insolita, dato che le autorità israeliane cercano di isolare i prigionieri durante il periodo iniziale della detenzione e, per questo motivo, di norma non rilasciano permessi di visita. Poiché anche l’uso del telefono non è permesso ai Palestinesi detenuti in carceri di massima sicurezza, Mohammad non ha avuto virtualmente alcun contatto col mondo esterno a parte gli incontri col suo avvocato. Gli fu possibile vedere i suoi genitori soltanto nel corso delle udienze giudiziarie, ma non di parlare con loro, dato che le autorità israeliane vietano ogni forma di contatto tra il detenuto e la sua famiglia all’interno del tribunale. […]
Dichiarazione di Addameer
Addameer condanna la tortura e il maltrattamento di Mohammad da parte delle autorità israeliane quale violazione dell’assoluta proibizione di queste pratiche da parte della legge internazionale, violazioni particolarmente gravi a causa della giovane età di Mohammad. […]
Quindi Addameer chiede che le accuse contro Mohammad siano immediatamente lasciate cadere e che i responsabili della sua tortura e del maltrattamento siano indagati e perseguiti. Addameer chiede anche alla comunità internazionale […] di far pressione su Israele perché conduca una indagine approfondita e imparziale sulla condotta dei soldati che torturarono e abusarono di Mohammad Halabiyeh, e porti i responsabili di fronte alla giustizia. […]
Per avere maggiori informazioni sull’operato di Addameer per fermare la tortura e il maltrattamento dei prigionieri palestinesi detenuti in Israele, visitate il sito http://addameer.info o contattate noi direttamente:
Addameer – Prisoner Support and Human Rights Association
Tel: + 972 (0) 2 296 0446/297 0136
Fax: +972 (0) 2 296 0447
Email: info@addameer.ps
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(*) La scheda originale di 7 pagine di trova all’indirizzo: http://addameer.info/?p=1782#more-1782
10) PARTECIPA ALLA RACCOLTA FONDI IN FAVORE DI LARRY SWEARINGEN!
Come sanno gli iscritti alla nostra lista e-mail, il Comitato Paul Rougeau ha lanciato una terza raccolta fondi per la difesa legale di Larry Swearingen, condannato a morte in Texas.
Nonostante gli alti e bassi dell’iter giudiziario di Larry, continuiamo a nutrire fondate speranze che la sua vita possa essere salvata. Il caso di Larry è un caso FORTE: negli ultimi anni sono emerse robuste prove forensi che dimostrano come la presunta vittima di Larry fu uccisa DOPO che Larry era stato già arrestato con un pretesto e trattenuto in prigione.
La necessità di finanziare investigazioni che portino alla luce un probabile complotto ai danni di Larry, messa in luce dal valoroso avvocato difensore James Rytting, ci porta a chiedere a te, e a tutti gli altri nostri lettori, di partecipare ad una terza raccolta fondi pro Larry.
Le due precedenti raccolte fondi da noi portate a termine negli anni passati (con un ricavato complessivo di 6.000 dollari) sono state molto utili per la difesa di Larry e la prima di esse ha contribuito sostanzialmente alla sospensione della sua esecuzione, disposta in extremis il 26 gennaio 2009, con sole 24 ore di anticipo sul momento fissato (v. n. 168).
Larry Swearingen, lo ricordiamo, è accusato di aver ucciso una ragazza di 19 anni, Melissa Trotter, nel dicembre 1998, dopo averla rapita. Ma, oltre a un test del DNA, numerose perizie sui reperti prelevati dal cadavere della ragazza confermano l’innocenza di Larry. Larry fu infatti arrestato con una scusa tre giorni dopo la scomparsa della ragazza. Il corpo della povera Melissa fu ritrovato in un bosco tre settimane dopo la scomparsa e oggi le perizie sono tutte concordi nell’attestare che la sua morte era avvenuta solo da qualche giorno, al più una settimana prima del ritrovamento. Anche la dottoressa Joye Carter, che eseguì l’autopsia nel 1999, ha modificato, rendendola favorevole al condannato, la testimonianza che rese al processo.
Nonostante ciò, la situazione di Larry rimane ad alto rischio e una nuova data di esecuzione potrebbe essere fissata tra non molti mesi. Infatti la giurisprudenza consolidata negli USA rende molto difficile rovesciare una condanna a morte una volta che sia stata pronunciata e Larry ha subito alcune gravi sconfitte giudiziarie a partire dal novembre scorso (v. nn. 174, 177).
Per capovolgere il caso di Larry, l’avvocato Rytting propone ulteriori investigazioni che chiariscano il reale andamento dei fatti accaduti tra il 1998 e il 1999. Le investigazioni COSTANO. Preghiamo pertanto, personalmente, ogni lettore che non lo abbia già fatto di fare un’offerta, anche piccola, per la difesa legale di Larry Swearingen e/o di raccogliere fondi! Ogni aiuto, anche il più piccolo, può essere determinante per impedire che Larry venga ucciso.
Per fortuna i due messaggi e-mail che abbiamo mandato a soci e simpatizzanti nel mese di settembre ci hanno permesso di raccogliere una buona parte della somma che ci siamo prefissi d’accordo con l’avvocato James Rytting (3.000 dollari). Con le offerte prodotte dalla presente richiesta contiamo di completare detta somma. Quindi: coraggio, se non hai già partecipato, partecipa!
11) CAMPAGNA DELLA COALIZIONE MONDIALE: DEDICATA AGLI STATI UNITI
Come ogni anno a partire dal 2003, le oltre 100 associazioni grandi e piccole che formano la Coalizione Mondiale Contro la Pena di Morte si mobilitano nel periodo intorno alla ‘giornata mondiale’ del 10 ottobre proponendo ai cittadini di tutto il mondo, ai governi, alle istituzioni nazionali ed internazionali, alle organizzazioni non governative… un particolare obiettivo abolizionista.
La mobilitazione poi si prolunga nell’arco di un anno fino al 10 ottobre successivo.
Quest’anno la World Coalition si impegna per rafforzare il trend abolizionista negli Stati Uniti d’America, opponendosi apertamente al permanere negli USA della pena di morte – punizione crudele, inumana e degradante - e sostenendo i cittadini e i gruppi statunitensi che lottano per l’abolizione della pena capitale (1).
La World Coalition propone a tutti, anche ai singoli, 10 modi di mobilitarsi, intorno al 10/10/10 e nel periodo successivo, tra i quali:
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Preparare un evento pubblico nella propria città;
-
‘Insegnare’ l’abolizione ad amici e conoscenti;
-
Cominciare una corrispondenza con un condannato a morte negli USA;
-
Aderire ad un’organizzazione abolizionista;
-
Interessare i media alla questione della pena di morte negli USA;
-
Partecipare alla manifestazione “Città per la vita” organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio il 30 novembre 2010.
Perché dedicarsi in particolare agli Stati Uniti?
Il continente in cui è più usata la pena di morte è l’Asia, il paese in cui si compiono più esecuzioni è la Cina, e la Coalizione Mondiale si è mobilitata sull’Asia e sulla Cina due anni fa. Ma nella strategia abolizionista l’obiettivo prioritario è un cambiamento della situazione negli Stati Uniti, l’unica democrazia occidentale che utilizza ancora la pena di morte.
Come abbiamo sottolineato più volte (v. ad es. n. 182) la tendenza complessiva del mondo verso l’abolizione della pena di morte appare chiara, costante e inarrestabile. Anche se insopportabilmente lenta per noi abolizionisti, frenata dalla resistenza di una minoranza di paesi, che non soltanto continuano a praticare la pena di morte ma la sostengono concettualmente.
Gli Stati Uniti costituiscono un bastione essenziale per il mantenimento della pena di morte nel mondo anche se compiono meno dell’1% delle esecuzioni che compie la Cina. L’eventuale crollo della pena di morte negli USA potrebbe causare un effetto valanga, con la rapida abolizione della pena capitale in numerosi paesi che ancora la applicano (o che la prevedono per eventualità straordinarie, come ad. es. Israele che la mantiene per i criminali nazisti), mettendo nell’angolo i residui paesi mantenitori nelle sedi sovranazionali, soprattutto nell’ambito delle Nazioni Unite, la cui Assemblea Generale ha già approvato due volte una risoluzione per la ‘moratoria universale della pena di morte’ in vista della sua abolizione.
Cambiando la posizione degli USA, diverrebbe arduo per chiunque continuare a sostenere che la pena capitale non è una questione che riguarda i diritti umani. I più resistenti mantenitori rimarrebbero alcuni paesi islamici. E oltre a questi la Cina, ma solo per un certo periodo. Infatti, a proposito della Cina, è interessante notare che in questo paese un numero crescente di studiosi, ed anche i massimi dirigenti politici, parlino apertamente di un futuro senza pena di morte (pur insistendo che i tempi per l’abolizione non sono maturi).
Per quando si può prevedere l’abolizione della pena capitale negli Stati Uniti d’America? Dipenderà anche dalla bravura e dall’impegno degli abolizionisti, ma a nostro avviso non peccano di eccessivo ottimismo coloro che parlano di una sopravvivenza massima della pena di morte per qualche decennio.
Dopotutto la pena di morte negli Stati Unti è stata già abolita! Ciò è avvenuto, in pratica, tra gli anni Sessanta e Settanta, quando una moratoria delle esecuzioni si prolungò per un decennio e la Corte Suprema federale, nel 1972, dichiarò incostituzionale la pena di morte per come la si applicava, svuotando tutti i bracci della morte. Allora anche l’opinione pubblica era diventata, in maggioranza, abolizionista. Poi - per un complesso di cause sociali e politiche - la pena di morte fu di nuovo sdoganata nel 1976 (2).
La pena di morte, che non è una caratteristica essenziale e ineliminabile degli USA, crea una contraddizione nel mondo occidentale tra paesi culturalmente omogenei, nonché alleati a livello politico, economico, strategico. Una contraddizione che gli alleati occidentali degli Stati Uniti, convintamente e stabilmente abolizionisti, possono e devono aiutare a rimuovere.
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(1) Il Comitato Paul Rougeau, che fa parte della Coalizione Mondiale, si è proposto di partecipare ad alcuni eventi pubblici a Roma nella settimana successiva 10 ottobre e, soprattutto, di compiere, nell’arco di un anno, un’approfondita analisi e una forte denuncia delle inumane condizioni di detenzione in uno o più bracci della morte degli USA. Luoghi nei quali l’imposizione di una ‘non vita’ ai prigionieri è anticipazione e metafora dell’esecuzione.
(2) Nel 1972 la Corte Suprema degli Stati Uniti, nella sentenza Furman v. Georgia, dichiarò incostituzionale la pena di morte per il modo ‘capriccioso ed arbitrario’ con cui veniva amministrata. Nel 1976, la medesima corte consentì la ripresa della pena capitale a certe condizioni, con la famosa sentenza Gregg v. Georgia.
12) XENOFOBIA IN EUROPA: L’ITALIA IN GARA CON LA FRANCIA
In un clima di diffusa xenofobia, la Francia ‘sgombera’ ed espelle i Rom nell’Est europeo, suscitando invidia ed emulazione nel nostro Ministro degli Interni Maroni e nel Sindaco di Milano Letizia Moratti.
In tutto il modo occidentale, soprattutto nei paesi più sviluppati, è in atto una preoccupante ondata di razzismo e di xenofobia. Il feroce contrasto all’immigrazione operato degli stati USA, specie ai confini con il Messico, è debolmente censurato dal governo federale e dal potere giudiziario, sostanzialmente consenzienti. In Europa il fenomeno è altrettanto grave, se non di più: nei paesi del nord guadagnano voti i politici e i partiti più intolleranti, mentre minoranze etniche vengono ‘sgomberate’ all’interno dei paesi o espulse verso paesi più poveri (1). In Slovacchia vige addirittura la segregazione scolastica dei Rom… La Francia e l’Italia fanno a gara nel far seguire i fatti a dichiarazioni aberranti nei riguardi dei Rom e degli stranieri.
A luglio il presidente francese Nicolas Sarkozy dichiara di voler “mettere fine al caotico impianto di campi Rom” chiamando questi campi ‘sorgenti di crimine’ e ad agosto comincia l’espulsione dei Rom dalla Francia verso la Romania e la Bulgaria, suscitando scalpore, ed allarme nell’Unione Europea.
Il 10 settembre un’indagine giornalistica scopre che una circolare inviata segretamente il 5 agosto dal Ministero dell’Interno francese ai governatori dei dipartimenti precisava: “Trecento campi o siti illegali devono essere evacuati in tre mesi, e prioritariamente quelli dei Rom.”
La Commissione Europea accusa la Francia di discriminazione su base etnica, la vice presidente Viviane Reding, si esprime con inusuale durezza: “Non c’è posto in Europa per la discriminazione basata sulle origini etniche o di razza. E’ incompatibile con i valori su cui si fonda l’Unione Europea. Le autorità nazionali che discriminano gruppi etnici violano anche la Carta europea dei diritti fondamentali, che tutti gli Stati membri, compresa la Francia, hanno firmato”.
Un aspro scontro coinvolge anche il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso. La Francia esige delle scuse e viene gettata acqua sul fuoco. Poi la Francia cambia qualche parola della circolare incriminata, ma non la sostanza, e la Commissione Europea si limita ad aprire nei suoi confronti una procedura di infrazione per violazione del norme di libera circolazione nell’Unione Europea.
Il 15 settembre Silvio Berlusconi manifesta la solidarietà dell’Italia alla Francia di Sarkozy (il quale si vanta di 55mila ‘sgomberi’) e dice che spetta all’Europa farsi carico del problema dei Rom e dell’immigrazione.
Il nostro Ministro dell’Interno Maroni non si fa sfuggire l’occasione di cavalcare in senso xenofobo i fatti francesi. Prima rivendica con orgoglio che l’Italia sia stata una pioniera nell’espulsione dei Rom, poi assicura che egli intende andare molto più avanti della Francia: doterà il nostro paese di norme che consentano l’espulsione finanche di cittadini comunitari.
“Nel 2007, proprio con i Rom, usò questa strada pure il sindaco di Roma […] Walter Veltroni,” dichiara Maroni il giorno 21. Secondo lui la Francia non sta “facendo altro che copiare l’Italia”. Ed è arrivato il momento di andare oltre, per arrivare “alla possibilità di espellere anche i cittadini comunitari […] come […] i clandestini […].”
Frattanto in Italia prosegue incessante la tanto vantata persecuzione xenofoba degli Zingari.
Come abbiamo denunciato più volte (2), questa persecuzione si realizza in tutta Italia per lo più nel silenzio. Ma evidentemente c’è bisogno di momenti spettacolari, anche per ragioni propagandistiche. D’accordo con il Comune guidato da Letizia Moratti, viene scelta Milano come modello di una soluzione (più o meno ‘finale’) della cosiddetta ‘emergenza nomadi’, da esibire ai media ammantata con alcuni tratti di perbenismo. Vengono stanziati fondi per un organico ‘piano Maroni per l’emergenza Rom’ e vengono cooptate nell’impresa associazioni che operano nel sociale.
Passaggio cruciale e paradigmatico della prassi milanese è lo sgombero del grande campo Rom di via Triboniano, abitato ancora da oltre un centinaio di famiglie, che si dovrà completare entro il 31 dicembre, data in cui terminerà l’incarico del Commissario straordinario governativo per ‘l’emergenza Rom’ a Milano, prefetto Gian Valerio Lombardi. Evidentemente Milano vuol surclassare Roma dove un mega “piano nomadi” stenta ad avanzare!
Per circa un quinto delle famiglie Rom da ‘sgomberare’ da Triboniano - le più disastrate - si era prospettata, d’accordo con le associazioni, la sistemazione in una ventina di case abbandonate di proprietà comunale, che potevano essere sistemate ed assegnate. Sennonché (probabilmente per il clima preelettorale venutosi a creare) il ministro Maroni e il sindaco Moratti hanno colto al volo l’occasione per mostrasi ‘duri’ ed hanno annunciato spettacolarmente in conferenza stampa: “niente alloggi del Comune ai Rom”.
Dopo una riunione in Prefettura, il 27 settembre Letizia Moratti e Roberto Maroni si sono presentati ai giornalisti in una bella sala dominata da un Crocifisso (espressione non certo della religione ‘padana’ di Maroni, né della religione formale della Moratti, semmai del calvario dei Rom).
“Nessuna delle famiglie che saranno allontanate dai campi nomadi regolari di Milano e che hanno i titoli per restare in città, saranno ospitate in alloggi popolari, come originariamente previsto nel piano per l’emergenza rom,” ha annunciato il ministro al termine di un vertice in Prefettura. “Il campo rom di Triboniano verrà chiuso - ha affermato - e chi stava dentro e ha i titoli per restare in città avrà una sistemazione, escludendo l’utilizzo di case Aler [di edilizia residenziale pubblica] o nella disponibilità del patrimonio immobiliare del Comune”. Esclusa da Maroni anche la possibilità che le famiglie vengano sistemate in immobili confiscati alla mafia perché “sono immobili passati al Comune” (3).
Maroni ricorda i risultati “molto importanti ottenuti da Milano nel settore della sicurezza e della gestione delle aree occupate da Rom”. Una leadership riconosciuta dal ministro che definisce “il modello Milano come un modello utilizzabile in tutti i Paesi europei”. Dal canto suo Letizia Moratti dichiara: “Il mio obiettivo è azzerare con tutti gli strumenti messi a disposizione dal governo la presenza di clandestini in città e alleggerire i campi nomadi. Ho già chiesto al governo di inasprire le normative sul reato di clandestinità per rendere più facili gli allontanamenti e le espulsioni”. La Moratti e il Comune di Milano precisano che sono stati già effettuati oltre 3.000 ‘sgomberi’ riguardanti oltre 7.000 soggetti!
Nella mente di Maroni evidentemente il pensiero passa immediatamente dai Rom ai Romeni, se nella stessa conferenza stampa - dopo aver ricordato che dal prossimo anno paesi “come la Romania” sono destinati ad entrare nell’area Schenghen - egli tiene ad aggiungere: “Serve una innovazione legislativa che ho in animo di prendere”. Il Viminale intende ottenere strumenti legislativi efficaci per allontanare tutti i cittadini comunitari che non hanno i requisiti economici e sociali per vivere dignitosamente nel nostro paese: reddito minimo, dimora adeguata e non essere a carico del sistema sociale del Paese (cosa che non riuscì a Maroni nel 2009 quando fu approvato il ‘pacchetto sicurezza’).
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(1) A questo proposito ricordiamo che il 28 settembre, in occasione del lancio di un nuovo rapporto intitolato “Benvenuti da nessuna parte: stop ai rimpatri forzati dei Rom in Kosovo”, Amnesty International ha chiesto ai paesi dell’Unione Europea di sospendere il rimpatrio forzato dei Rom e di altre minoranze etniche in Kosovo.
(2) V. ad es. nn.161, 165, cap. “Il ‘fenomeno sicuritario’ …” nel secondo art.,173, 176, “Family Day”
(3) Se Maroni ha estrinsecato il meglio di sé in fatto di xenofobia per aumentare il consenso nei propri confronti, in questa occasione potrebbe aver sbagliato i suoi calcoli: un sondaggio on-line di Repubblica (per quel che può valere) mostra che la maggioranza dei lettori lo disapprova. La domanda era: “Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha bocciato la decisione del Comune di Milano di assegnare 25 alloggi popolari non agibili, ristrutturati dalla Casa della Carità e da altre associazioni, alle famiglie rom sgomberate che si impegneranno in un percorso di legalità. Siete d’accordo col ministro?” Il 60% dei 1683 votanti ha risposto “No”.
13) NOTIZIARIO
Iran. Cristiani accusati di apostasia a rischio di morte. Il 13 settembre si è appreso da una fonte cristiana che il 28 luglio una dozzina di abitanti di Mashhad in Iran, convertiti al cristianesimo, sono stati arrestati mentre si recavano ad un convegno cristiano nella città di Bojnoord. Agli arrestati è stata poi imposta un’abiura scritta. A tre di essi, Reza, detto Stefano, sua moglie Maria e Ehsan Behrooz, che non hanno abiurato nonostante le pressioni e le torture subite, è stata prospettata la pena di morte. Il codice della Sharia prevede infatti la morte per un musulmano che si converta ad un’altra religione. Il giorno 14 si è inoltre appreso dall’agenzia di opposizione RAHANA che i coniugi cristiani Fatemeh Pasandideh e Yousef Naderkhani, detenuti separatamente nella prigione di Lakan nei pressi di Rasht in Iran, si sono rifiutati di rinnegare la propria fede. L’11 settembre i due sono riusciti a far sapere ai parenti che a Fatemeh è stata prospettata una condanna all’ergastolo e a suo marito la pena di morte.
Uganda. Commutate 167 condanne a morte. Nella prima settimana di settembre si è appreso che le condanne a morte di 167 persone, emesse da più di tre anni in Uganda, sono state commutate in ‘condanna a vita’, una pena che comporta 20 anni di carcere. La commutazione consegue ad una sentenza della Corte Suprema che a gennaio ha affermato che le sentenze capitali devono essere eseguite entro tre anni, altrimenti i condannati subiscono una doppia pena. L’ultima condanna a morte è stata eseguita in Uganda nel 1999. La recente decisione del presidente Museveni di firmare 27 ordini di esecuzioni aveva suscitato una fiera condanna da parte degli abolizionisti ugandesi ed esteri nonché un centinaio di ricorsi alla Corte Costituzionale che definivano la pena di morte una punizione crudele, inumana e degradante. La Corte Costituzionale ha respinto i ricorsi ma conseguenza di tutto ciò è stata la sentenza di gennaio che ha comportato la commutazione di 167 condanne, tra cui vi sono le 27 arrivate molto vicino alla loro tragica conclusione.
USA: Esecuzioni sospese per mancanza di Pentotal. Negli Stati Uniti si stanno verificando numerosi sospensioni e rinvii delle esecuzioni capitali a causa di una delle più impensabili ragioni: l’irreperibilità di Pentotal. I 35 stati che mantengono la pena di morte stanno infatti disperatamente cercando di trovare sul mercato questo barbiturico usato per l’iniezione letale, con scarso successo. L’unica casa farmaceutica che produce il Pentotal in America, la Hospira Inc., ha infatti reso noto di avere dei problemi con i fornitori della materia prima da cui ricavarlo, per cui le consegne del prodotto non saranno possibili prima del prossimo anno. E così le riserve già in possesso degli stati non sono sufficienti a coprire le necessità. Non è neppure possibile rivolgersi ad altre case farmaceutiche perché l’agenzia USA che vigila sull’Alimentazione e i Farmaci ha dichiarato che non ci sono fabbricanti esteri del prodotto da essa approvati. Non si può neppure ottenere il pentotal dagli ospedali, innanzitutto perché è una sostanza sempre meno usata come anestetico e inoltre perché gli ospedali non potrebbero fornire alle carceri alcunché che serva a uccidere esseri umani, per ovvi motivi etici. Nonostante le motivazioni fornite dalla casa farmaceutica, un chirurgo dell’Ohio, abolizionista, ha studiato il problema e sostiene che, dal momento che l’uso del Pentotal è sceso drasticamente per utilizzi diversi dalle esecuzioni, “la società non vuole produrre una sostanza che si utilizza solo per uccidere la gente”. In effetti, già in precedenza la Hospira Inc., che fornisce tutte le sostanze utilizzate per l’iniezione letale, aveva dichiarato a più riprese il suo malessere per essere la fornitrice dei boia americani. La penuria di Pentotal per esempio ha indotto l’Oklahoma a procrastinare un’esecuzione e il governatore del Kentucky a rimandare la firma di due ordini di esecuzione, ha messo l’Arizona e il Missouri in affanno e in California ha contribuito a far rinviare sine die la ripresa delle esecuzioni (dopo una moratoria di cinque anni causata dalle discussioni sulla liceità costituzionale del metodo dell’iniezione letale). In questo stato si è ritenuto inammissibile usare un prodotto farmaceutico sul ‘paziente’ Albert Greenwood Brown anche un solo giorno dopo la sua “data di scadenza”. (Grazia)
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 30 settembre 2010