FOGLIO DI COLLEGAMENTO INTERNO
DEL COMITATO PAUL ROUGEAU
Numero 164 - Ottobre 2008
SOMMARIO:
1) Giornata mondiale contro la pena di morte: petizione al Giappone
2) Di nuovo fissata, e poi ancora sospesa, l’esecuzione di Troy Davis
3) Richard Cooey ‘giustiziato’ in Ohio tra sadici commenti
4) Il Texas uccide cinque uomini, due si dichiarano innocenti
5) Perché dichiararsi innocente in punto di morte?
6) Cellulari nel braccio, lo scandalo tocca un senatore e sono guai
7) Ricorsi rottamati in serie dalle corti statunitensi
8) Lapidata per adulterio in Somalia
9) Criticato sindaco texano per il suo tour abolizionista
10) Notiziario: Globale, Iran, Maryland, Usa
1) GIORNATA MONDIALE CONTRO LA PENA DI MORTE: PETIZIONE AL GIAPPONE
In occasione della Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte, il 10 ottobre il Comitato Paul Rougeau ha inviato un’articolata petizione sottoscritta da 315 persone alle autorità e al popolo giapponesi.
Il 10 ottobre si è celebrata, con un incremento dell’impegno abolizionista, la sesta Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte, come ogni anno a partire dal 10 ottobre 2003.
Quest’anno la Coalizione Mondiale Contro la Pena di Morte ha deciso di proporre ai cittadini, alle istituzioni internazionali e alle organizzazioni non governative di tutto il mondo di concentrare la loro azione sul continente asiatico. In Asia infatti la pena di morte trova attualmente la sua più intensa applicazione con circa il 90% della esecuzioni mondiali, anche se non mancano paesi che si stanno avviando verso l’abolizione della pena capitale.
Si valutano nell’ordine delle centinaia le iniziative svoltesi in più di 70 paesi, non solo il 10 ottobre ma anche nelle settimane intorno a questa data. Si è trattato per lo più di petizioni, dibattiti, dimostrazioni, concerti, conferenze stampa, attività educative e culturali. Ci si è rivolti soprattutto a sei paesi: India, Giappone, Pakistan, Corea del Sud, Taiwan e Vietnam (la Cina è stata oggetto della campagna dello scorso anno).
Il Comitato Paul Rougeau, che è membro della Coalizione mondiale, ha scelto di occuparsi del Giappone, un grande paese basato sullo stato di diritto che tra gli anni Ottanta e Novanta sembrava avviarsi sulla strada dell’abolizione ma che poi ha incrementato il ritmo delle esecuzioni capitali, portandone a termine ben 15 fino ad ora nel 2008 quasi a sfidare la Risoluzione per la moratoria approvata alle Nazioni Unite il 18 dicembre scorso.
Basandoci su un accurato studio preliminare della situazione del Giappone, abbiamo preparato una articolata petizione alle autorità e al popolo giapponesi che formula le seguenti richieste (1):
- introdurre da subito una moratoria delle esecuzioni capitali, come richiesto da un gruppo di parlamentari giapponesi, promuovendo una legge apposita o almeno per decisione del potere esecutivo;
- considerare l'abolizione della pena di morte come un passo indispensabile da intraprendersi entro breve tempo nell'ambito del progresso etico e civile della nazione;
- arrivare alla ratifica del Secondo Protocollo Opzionale del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che chiede l'abolizione del pena di morte.
In aggiunta alla richiesta del compimento dei suddetti passi, si è chiesto di porre immediatamente in atto i provvedimenti necessari per:
- rimuovere il residuo manto di segretezza che ancora avvolge l'uso della pena di morte in Giappone;
- introdurre la prassi di informare con un congruo anticipo il condannato e i suoi familiari della data di esecuzione;
- evitare l'esecuzione di ritardati e di malati mentali;
- assicurare la presenza di un avvocato difensore già dalle prime fasi di interrogatorio di un sospetto da parte della polizia;
- vietare alla polizia l'uso di metodi coercitivi per ottenere ammissioni di colpevolezza;
- riesaminare le condizioni di detenzione dei condannati a morte e prendere provvedimenti affinché le medesime vengano rese rispettose della dignità e della salute fisica e mentale dei prigionieri.
La petizione è stata notificata all’Ambasciatore del Giappone in Italia Yuji Nakamura nella medesima giornata del 10 ottobre e poi consegnata a mano all’Ambasciata Giapponese il 17 ottobre corredata da 315 sottoscrizioni di cittadini italiani, tra cui molti soci e simpatizzanti del Comitato. Nello stesso giorno è stata spedita per posta al Primo Ministro Taro Aso e al Ministro della Giustizia Eisuke Mori, oltre che a tre importanti quotidiani nipponici: l’Asahi Shimbun, il Japan Times e lo Yomiuri Shimbun.
Un caldo ringraziamento va ai lettori che si sono dati da fare per promuovere la petizione, in particolare a Lorenza, Luciana, Pino e Terry.
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(1) V. http://www.paulrougeau.altervista.org/ita%20ultimissime.htm
2) DI NUOVO FISSATA, E POI ANCORA SOSPESA, L’ESECUZIONE DI TROY DAVIS
Negli Stati Uniti molti condannati a morte sono sottoposti ad una estenuante tortura costituita dal ripetersi di un crudele meccanismo: l’avvio del rituale dell’esecuzione e l’interruzione della procedura all’ultimo momento. Fino alla volta in cui l’agognata sospensione non arriva e il condannato viene ucciso. Ciò accade soprattutto ai probabili innocenti. Speriamo che non si concluda in tal modo la storia di Troy Davis per il quale è stata disposta in Georgia una nuova data di esecuzione per il 27 ottobre, poi sospesa. Si è trattato per lui della terza sospensione.
Fruire in extremis di una sospensione dell’esecuzione, quando si è compiuta pressoché per intero la propria ‘via crucis’, per poi vedersi di nuovo programmare la morte di stato, costituisce un’efferata tortura.
Tra i tanti amici che abbiamo seguito in questi anni, ve ne sono diversi che hanno subito molte volte questo trattamento.
Per esempio Gary Graham – probabile innocente - fu ucciso in Texas dopo la fissazione di sei date di esecuzione; cinque delle quali sospese, a volte all’ultimo momento (1)
Anche Philip Workman fu ucciso in Tennessee nel 2007 dopo cinque sospensioni (v. n. 150). Già dopo la quarta sospensione, intervenuta a 43 minuti dal momento stabilito per l’iniezione letale, Philip era crollato e aveva detto che non ce l’avrebbe più fatta a sopportare un’esperienza simile.
Negli Stati Uniti i condannati a morte che più degli altri hanno titolo a salvarsi dall’esecuzione – in primo luogo i probabili innocenti – hanno la maggiore probabilità di subire tale trattamento inumano.
Speriamo che non finisca con l’iniezione letale anche la storia di Troy Davis, probabile innocente, che ha già fruito di tre sospensioni dell’esecuzione negli ultimi 15 mesi.
Davis è ancora vivo per miracolo, nonostante il fatto che la normativa vigente, l’atteggiamento delle corti e dello stato della Georgia gli siano tutti concordemente avversi. La sua sopravvivenza è dovuta in primo luogo alla bravura e alla dedizione dei suoi avvocati ed anche all’enorme mobilitazione suscitata in suo favore da Amnesty International USA.
Come abbiamo riferito nel numero precedente, l’esecuzione di Davis era stata programmata, la seconda volta, per il 23 settembre nonostante rimanessero gravi dubbi sulla sua colpevolezza. Dopo il rifiuto delle corti di intervenire e della Commissione per le Grazie di concedere clemenza, in extremis la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva ordinato, con solo due ore di anticipo sul momento fissato per la sua morte, di sospendere il procedimento di esecuzione.
L’ordine precisava che la sospensione sarebbe decaduta automaticamente qualora la corte avesse deciso di non esaminare il ricorso presentato da Davis.
Il fatto stesso che la massima corte fosse intervenuta, lasciava sperare che ci fossero almeno quattro giudici su nove favorevoli a riesaminare il caso di Davis e che quindi si procedesse al riesame lasciando in sospeso per parecchio tempo l’esecuzione (anche se i precedenti della corte e la normativa vigente a livello federale di per sé non consentivano un grande ottimismo sull’esito finale di tale discussione, v. n. 163).
Invece si è verificata la peggiore delle ipotesi: dopo molti giorni di incertezza e dopo essersi presumibilmente consultati più volte, i massimi giudici hanno deciso di non esaminare il ricorso, lasciando le cose esattamente come le avevano trovate il 23 settembre! Hanno fatto sapere il loro diniego il 14 ottobre e lo stato della Georgia ha chiesto immediatamente la fissazione di una nuova data di esecuzione per Troy Davis, la terza nel giro di un anno. Si è stabilito che Davis dovesse morire alle ore 19 del 27 ottobre.
Ancorché rassegnarsi, Amnesty International USA innescava un’ulteriore frenetica mobilitazione, per altro senza poter individuare chiari e plausibili obiettivi della stessa, dato che la Commissione per le Grazie all’unanimità si era ripetutamente rifiutata di concedere clemenza e le corti - che peraltro non dovrebbero essere sensibili alle pressioni esterne - si erano anch’esse già tutte rifiutate di cambiare il destino infausto del condannato.
Visto che centinaia di migliaia di messaggi alle autorità della Georgia non avevano avuto effetto, si è deciso di aumentare la visibilità esterna della mobilitazione e il 23 ottobre sono state programmate dimostrazioni di piazza in numerose città degli Stati Uniti e all’estero. Si è appreso in particolare di manifestazioni ad Atlanta, Seattle, New York, Montreal, Parigi, Londra, Bruxelles e Milano.
In Italia, soprattutto per merito di Roberto Decio, membro del Coordinamento Pena di Morte della Sezione Italiana di Amnesty International, si è potuto organizzare nel pomeriggio di quel giorno un significativo presidio davanti al Consolato USA di Milano. Iniziativa citata in diversi articoli e comunicati apparsi in America.
Amnesty ha fatto sapere che a quella data più di 300 mila persone avevano chiesto clemenza per Troy Davis. Avevano preso una posizione netta a favore di Davis il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa. L’Unione Europea si era espressa in modo reciso, quasi tagliente: “… L’Unione Europea sottolinea che la situazione di Troy Davis ha suscitato una intensa emozione e una mobilitazione su larga scala della stampa, della pubblica opinione, dei gruppi della società civile e di eminenti figure negli Stati Uniti e nel mondo. Nessuna di queste richieste di clemenza, alle quali L’Unione Europea si è associata in diverse occasioni, ha ricevuto fino ad ora attenzione. L’Unione Europea chiede con forza alle autorità competenti di rispondere positivamente.”
Nel contempo gli avvocati di Troy Davis facevano un ultimo disperato tentativo presso la Corte federale d’Appello dell’Undicesimo Circuito chiedendo il permesso di inoltrare una nuova serie di appelli a livello federale basati sull’innocenza del condannato. Tale permesso è infatti richiesto dal famigerato Atto Antiterrorismo e per il Rafforzamento dell’Efficacia della Pena di Morte del 1996 (AEDPA) che ha limitato drasticamente rispetto al passato le possibilità di ricorrere contro le sentenze di morte.
Il giorno dopo, venerdì 24 ottobre, è arrivato l’ordine di sospendere l’esecuzione di Troy Davis da parte della Corte dell’Undicesimo Circuito! L’insperata apertura ha lasciato quasi increduli il condannato e i suoi sostenitori, presi da una gioia incontenibile, a cominciare dalla sorella di Troy, Martina Correia.
Lo stesso ordine però richiama esplicitamente le “stringenti condizioni” che devono sussistere in base all’AEDPA per mantenere la sospensione in attesa che venga presentato un secondo ricorso di habeas corpus federale (2). Agli avvocati difensori vengono concessi 15 giorni per preparare un documento scritto che dimostri l’esistenza delle seguenti condizioni; all’accusa viene concesso un successivo periodo di 10 giorni per avanzare le proprie contro-deduzioni.
Gli avvocati difensori devono dunque mostrare alla corte che:
-
Troy Davis non ha sollevato precedentemente la questione dell’innocenza in una petizione di habeas corpus federale;
-
i difensori del condannato non avrebbero potuto scoprire in precedenza la questione dell’innocenza per rivendicarla, pur esercitando la dovuta diligenza; (3)
-
Troy Davis può dimostrare che i fatti che sostanziano l’innocenza “se provati e guardati nel loro insieme, sarebbero sufficienti a stabilire con chiara e convincente evidenza che […] nessun ragionevole esaminatore dei fatti potrebbe aver trovato [Davis] colpevole del delitto.”
Evidentemente, almeno il terzo punto è di una difficoltà pazzesca e la vita del condannato rimane in bilico.
Speriamo che gli avvocati di Troy Davis riescano a svolgere egregiamente il difficilissimo tema che è stato loro assegnato e che, alla fine, sia possibile trovare nelle pieghe di una normativa sfavorevole il filo che porti all’unica soluzione di giustizia: l’annullamento del processo originale di Troy Davis. Ricordiamo infatti che egli fu condannato a morte nel 1991 sulla base di 9 testimonianze. Sette delle quali sono state poi ritrattate o modificate. Una delle rimanenti testimonianze è quella fornita dall’uomo che alcuni accusano di essere il vero assassino dell’agente di polizia Mark Allen MacPhail. Il poliziotto fu ammazzato con tre colpi di pistola nel 1989, dopo essere intervenuto per bloccare i responsabili di una rissa scoppiata in un parcheggio dove lavorava come guardiano mentre era fuori servizio (v. nn. 151; 152, Notiziario; 154, Notiziario; 158; 163).
In tutto questo, sia i familiari del bianco Mark MacPhail, sia lo stato, sia l’opinione pubblica della Georgia, hanno espresso la loro cocente delusione per l’ulteriore slittamento dell’esecuzione del nero Troy Davis, pienamente convinti della sua colpevolezza e più ancora di essere in diritto di pretendere la sua vita, quasi fosse per loro un risarcimento da lungo tempo dovuto.
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(1) V .“Muoio assassinato questa notte”, a cura del Comitato Paul Rougeau, Multimage, 2004, pag. 155
(2) Troy Davis in passato ha già presentato senza avere successo il suo ricorso di habeas corpus federale. L’AEDPA, salvo casi eccezionali, vieta ai condannati a morte di presentare più di un ricorso di habeas corpus federale.
(3) La Corte ha anche chiesto alle parti di fornire argomenti per consentirle di sentenziare in modo costituzionalmente corretto nell’ipotesi che si verifichino la condizioni 1 e 3 ma non la condizione 2.
3) RICHARD COOEY ‘GIUSTIZIATO’ IN OHIO TRA SADICI COMMENTI
E’ stato ‘giustiziato’ in Ohio, dopo una lunga attesa, Richard Wade Cooey. Le corti avevano respinto il suo ultimo ricorso, che contestava il metodo di esecuzione previsto nello stato a causa dell’obesità del condannato e della conseguente difficoltà a trovare le vene adatte all’iniezione letale.
Il Beacon Journal, un quotidiano dell’Ohio, descrive con toni sprezzanti l’esecuzione Richard Wade Cooey.
Già il titolo fa capire come la pensi l’autore del reportage: “Finalmente si conclude la lunga attesa per l’esecuzione di Cooey”. Il giornalista parla del giorno dell’esecuzione, contando meticolosamente il tempo intercorso dal momento in cui Cooey prese parte all’aggressione, allo stupro e all’omicidio di due ragazze, Dawn McCreery e Wendy Offredo: 8.079 giorni. Si tratta di oltre 22 anni.
L’esecuzione di Cooey ha suscitato molte polemiche, quasi tutte contro il condannato, per il modo in cui i suoi avvocati hanno cercato di prolungare la sua vita dopo il termine degli usuali appelli.
Richard Cooey, che inizialmente pesava 86 chili, in carcere era diventato obeso, e i suoi legali hanno contestato l’uso dell’iniezione letale per il fatto che la sua mole avrebbe impedito di trovare facilmente le vene in cui iniettare le sostanze destinate ad ucciderlo, rendendo in tal modo la sua esecuzione una punizione crudele e inusuale e quindi anticostituzionale. L’attuale condizione fisica del condannato, secondo i legali, è causata dalla scadente alimentazione fornita dal carcere e alla mancanza della possibilità di fare adeguato esercizio fisico.
La Corte Suprema dell’Ohio aveva ribadito che non c’erano motivi sufficienti per concedere una sospensione dell’esecuzione, mentre un giudice federale aveva sentenziato che il reclamo di Cooey era stato avanzato troppo tardi. Successivi ricorsi fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti avevano parimenti fallito.
L’articolo descrive minuziosamente e con un velo di cinica ironia le varie fasi dell’esecuzione, alla quale hanno assistito i familiari di una delle due ragazze assassinate. Riportiamo qualche passo dell’articolo: “Per i suoi sostenitori, la sua morte per aver commesso uno dei crimini più odiosi nella storia della città di Akron è arrivata troppo presto. Per la famiglia di una delle vittime, attendere per 22 anni i suoi ultimi 17 passi è stata troppo, troppo lungo. “Sta per succedere. Sta per succedere. Sta per succedere”, ha detto Mary Ann Hackenberg, la madre di Dawn McCreery, entrando nella casa della morte con altri cinque parenti. […] Anche se Cooey aveva protestato dicendo di essere troppo grasso per essere giustiziato, sono bastati appena 5 minuti alla squadra di esecuzione per rintracciare le vene nelle braccia dell’uomo, che pesava 122 chili.”
“Appena cinque minuti” ?… immaginiamo che cosa può provare un uomo mentre gli frugano per ben 5 minuti con un ago nelle braccia, sapendo per di più che la ricerca viene fatta per poterlo poi ammazzare comodamente!
Cooey durante questo lasso di tempo si è agitato ed ha richiesto a gran voce di parlare con un suo avvocato difensore, richiesta che ovviamente è stata ignorata. Quando finalmente gli aghi sono stati impiantati nelle vene, e i collegamenti sono stati fissati con nastro adesivo alle sue braccia, il condannato ha dovuto ancora percorrere alcuni metri fino al lettino di esecuzione, al quale è stato poi legato saldamente dal personale.
Alla richiesta di un’ultima dichiarazione, Cooey ha dato sfogo al suo dolore e alla sua infelicità dicendo: “Perché dovrei [dichiarare qualcosa] adesso? Non avete prestato alcuna attenzione a ciò che avevo da dire nei 22 anni passati. Perché adesso prestate attenzione a ciò che ho da dire?” Dopo queste parole i tre liquidi letali sono stati iniettati. Nella sala dei testimoni si è fatto silenzio: si udivano solo lo scivolare delle penne dei giornalisti che prendevano appunti e il gorgoglio degli stomaci di alcuni astanti.
Otto minuti più tardi Richard Cooey è stato dichiarato morto.
I familiari della vittima presenti si sono detti spiaciuti che Cooey non avesse dimostrato rimorso neppure alla fine.
Richard Cooey aveva 19 anni quando con un altro ragazzo, Clint Dickens, allora 17enne, gettò sassi da un cavalcavia sulla statale. Quando colpirono un’auto bloccandola, i due derubarono le due passeggere, le stuprarono e le uccisero a botte. Essendo minorenne, Dickens sta scontando l’ergastolo, mentre Cooey fu condannato a morte, pur avendo sempre sostenuto che fu l’altro ragazzo a uccidere le donne.
La signora Dana Cole, docente di giurisprudenza, nonché uno dei difensori di Cooey, afferma che egli era molto cambiato dall’epoca del crimine. E’ la sola che ha rilasciato una dichiarazione profondamente vera, ragionevole ed etica: “I crimini che Rick ha commesso, li commise da diciannovenne immaturo, sotto l’influsso della droga e dell’alcol. Ci piace fingere di essere in qualche modo migliori di Rick. Ma ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un’uccisione che è stata pianificata e finanziata per oltre 22 anni. L’uomo che è stato ucciso non era lo stesso uomo che commise quei crimini”.
Se il desiderio di vendetta dei familiari delle vittime del crimine può essere compreso (anche se non è condivisibile), invece le dichiarazioni rilasciate dai lettori non direttamente coinvolti, sui vari blog in calce agli articoli relativi a questa esecuzione, manifestano semplicemente tendenze sadiche: in molti avevano proposto di lasciar morire di fame l’obeso Cooey, se non si poteva ammazzarlo con l’iniezione letale, oppure, commentando il suo ultimo pasto (il cui menu è stato, ovviamente, minuziosamente descritto dai giornali), altri hanno detto che avrebbero dovuto servirgli al massimo una lattina di cibo per cani.
Un sondaggio informale allegato ad un articolo dell’Associated Press, al quale hanno risposto oltre 148 mila persone, poneva la domanda: “Che cosa pensate del reclamo di Cooey di essere troppo grasso per l’esecuzione?” Il 97% ha risposto scegliendo l’alternativa: “E’ ridicolo” (mentre ‘solo’ l’83% dei partecipanti si è dichiarato in favore della pena di morte).
Tutto ciò dà fondamento alla riflessione dell’avvocatessa Cole: “Ci piace FINGERE di essere in qualche modo migliori di Rick.” (Grazia)
4) IL TEXAS UCCIDE CINQUE UOMINI, DUE SI DICHIARANO INNOCENTI
In Texas la furia di mettere a morte un gran numero di condannati non è pari alla preoccupazione di evitare che tra di essi vi siano degli innocenti. Alvin Kelly e Gregory Wright, due dei cinque prigionieri che sono stati ‘giustiziati’ in ottobre, si sono proclamati innocenti in punto di morte. Alcuni, soprattutto tra i loro parenti e sostenitori e tra gli avvocati difensori, gli hanno creduto.
Mettendo in calendario la metà di tutte le esecuzioni statunitensi del 2008, il Texas ha dato una impressionante accelerazione alla macchina della morte: nel mese di ottobre ha compiuto cinque esecuzioni, in media più di una alla settimana, con un intervallo minimo di due giorni tra un’esecuzione e la successiva.
Dei cinque ‘giustiziati’, Eric Nenno ha rinunciato a rilasciare un’ultima dichiarazione. Kevin Watts e Joseph Ries hanno ammesso la loro colpevolezza chiedendo perdono.
Gli altri due hanno riaffermato con vigore la propria innocenza sul lettino dell’esecuzione.
Alvin Kelly ha sempre ammesso di aver compiuto diversi gravi crimini, di cui negli ultimi anni si diceva profondamente pentito.
In particolare Kelly riconosceva la sua responsabilità nell’omicidio di John T. Ford per il quale aveva ricevuto una condanna a 30 anni di reclusione. Era già in carcere quando gli contestarono un triplice omicidio avvenuto 6 anni prima, nel 1984. Fu accusato di aver ucciso due coniugi e il loro figlioletto di 22 mesi. Fu condannato a morte per l’omicidio del bambino.
Nell’ultima intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, Alvin Kelly si è detto rassegnato e sereno: “I miei amici e la mia famiglia sono addolorati ma io sono contento. Non morirò. Avrò la vita eterna.”
Pur accettando di essere ucciso, il condannato ha ripetuto di esser innocente del delitto per il quale aveva ricevuto la pena di morte: “Se fossi colpevole [del triplice omicidio] lo direi. Non posso presentarmi davanti a Dio con una menzogna.”
Il 14 ottobre Alvin Kelly sul lettino dell’esecuzione ha chiamato Dio, giusto giudice, a testimone della sua dichiarazione di innocenza:
“Desidero ringraziare Dio per la mia salvezza e per tutto quello che ha operato nella mia vita. Ringrazio la mia famiglia, coloro che ho amato e i miei amici. […] Ti amo Mary Taylor con tutto il cuore, sempre. Sei la mia ragazza. Ti voglio bene Michelle, sei il mio cucciolo. Kevin, ora tu sei responsabile di tutto, sei il mio ragazzo. Sylvia, sorella mia, tieni gli occhi fissi a Cristo, sempre. Tutto si metterà per il meglio. Angela Christine, guarda fisso al premio finale e a nient’altro. Vi amo tutti, Dio è stato buono.
Desidero rivolgermi alla famiglia [delle tre persone uccise nel 1984]. Vi offro la mia sofferenza e il mio cuore va a tutti voi. So che cercate di trovare una chiusura del vostro dolore stasera. Sto davanti a Dio oggi, il vero giudice, [e affermo che] non ho niente a che fare con la morte dei vostri familiari. Chiedo a Dio di sostenere questa affermazione.
Desidero rivolgermi alla famiglia di John T. Ford: vi chiedo perdono, dal momento che sono colpevole di essere coinvolto [nella sua uccisione].”
Dopo di che il condannato si è messo a cantare sommessamente: “Grazie Signore Gesù di essere venuto nella mia vita, di essere venuto da me attraverso la prigione. Grazie Signore Gesù perché tu sei morto per me. Grazie Signore Gesù per esserti ricordato di me…
Dodici minuti dopo, Alvin Kelly è stato dichiarato morto.
A proposito dell’innocenza rivendicata da Alvin Kelly, occorre aggiungere che l’accusa, ritenendo di non avere prove sufficienti ad assicurarsi la sua condanna in un processo, tentò ripetutamente di patteggiare con lui una pena detentiva, purché si dichiarasse colpevole degli omicidi del 1984. Ma egli rifiutò fermamente la proposta che gli avrebbe salvato la vita.
Lori Kubecka, una parente delle tre persone che furono uccise nel 1984, ha assistito all’esecuzione di Alvin Kelly in rappresentanza di tutta la sua famiglia. Prima dell’esecuzione ha dichiarato alla stampa: “In relazione a ciò che lui ha fatto alla nostra famiglia, penso che meriti questo. Ma è stata un’attesa troppo lunga. E’ stato dietro alle sbarre per troppo tempo fino ad ora.”
Dopo l’esecuzione la Kubecka non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Ci domandiamo se nel frattempo le sia sopraggiunto qualche dubbio sulla colpevolezza di Kelly.
E veniamo al condannato messo a morte il 30 ottobre. Si tratta di Gregory Wright, uno dei due barboni che furono accusati di aver derubato e ucciso nel 1997 Donna Duncan Vick, una benefattrice che portava a Wright cibo e vestiti. Sia Wright che John Adams, l’altro barbone, sono stati condannati a morte in due separati processi.
Adams, che accusò Wright dell’omicido, quest’anno ha ritrattato l’accusa ma, nel corso di un’udienza tenutasi in extremis, ha poi di nuovo implicato il suo ex compagno di sventura.
Gregory Wright, a sua volta, ha sempre accusato John Adams dell’uccisione della Vick. Sosteneva di non essere stato presente quando Adams uccise la donna e di aver tentato invano di soccorrerla. Lo ha ripetuto con forza e serenità sul lettino dell’esecuzione:
“Sì, voglio parlare. So che tutti voi cercate una chiusura del vostro dolore. Donna ha conservato intatto il suo cristianesimo quando morì. Ella non si avvicinò mai alla casa della droga. Adams ha mentito. Andò dalla polizia e inventò una storia. Mercanteggiò menzogne per non andare in prigione. […]. John Adams è colui che uccise Donna Vick. Mi sono sottoposto alla macchina della verità e ho passato il test. John Adams non ha mai voluto sottoporvisi. Ho fatto tutto ciò che potevo per provare la mia innocenza.
Donna Vick mi aiutò; mi tolse dalla strada. Ero un autista di camion con la patente ancora attiva. Donna mi dette tutto ciò di cui avevo bisogno. Io l’aiutavo in giardino. L’aiutavo in casa. Ella mi chiese se c’era qualcun altro che potesse aiutarla. Sono un cristiano anch’io e così le dissi di John Adms. Lo avevo trovato in una casa per drogati. Non sapevo che fosse un criminale di carriera. [...] Stavo nella stanza da bagno quando egli l’assalì. […] Corsi nella camera da letto. Cercai di aiutarla prestandole un pronto soccorso, ma era troppo tardi. Le vene del suo collo erano tagliate. Lui l’aveva accoltellata al cuore, e questa è stata la causa della sua morte. […] Due o tre giorni dopo mi accusò. Ho fatto di tutto per provare la mia innocenza. Davanti a voi c’è un uomo innocente.
Amo la mia famiglia. Vi aspetterò tutti.
Ho finito di parlare.”
Nove minuti dopo Wright è stato dichiarato morto.
Come gli abolizionisti del Texas, l’avvocatessa Meg Penrose ha sostenuto la sua innocenza biasimando il sistema giudiziario per non aver consentito un’adeguata revisione del caso. “Abbiamo avuto furia di mettere un innocente sul lettino dell’esecuzione e lo abbiamo ucciso”, ha dichiarato la Penrose dopo l’esecuzione.
5) PERCHÉ DICHIARARSI INNOCENTE IN PUNTO DI MORTE?
Non è facile comprendere perché un discreto numero di condannati alla pena capitale si proclamino innocenti anche in punto di morte, a meno che non lo siano realmente.
Un gran numero di prigionieri del braccio della morte si proclama innocente per avere un tornaconto sul piano giudiziario. Se non lo si è, è comprensibile che si dica di essere innocenti finché si può sperare in un proscioglimento, in una commutazione della sentenza o in un provvedimento di grazia.
Senza contare che molti detenuti si dicono innocenti semplicemente per avere un sostegno più forte dai loro sostenitori, portati a credergli senza alcuna riserva. Non si sognerebbero di dire la stessa cosa agli altri detenuti o ai propri avvocati difensori.
Un numero molto minore di condannati insiste sulla propria innocenza anche in punto di morte (1), ma forse coloro che sono nei fatti innocenti sono ancora di meno.
Perché dichiararsi innocenti quando non c’è più nulla da guadagnare in una vita giunta al termine?
Sarebbe interessante fare una ricerca in proposito. Tuttavia in base ad una lunga esperienza possiamo azzardare che, tolti coloro che sono realmente innocenti, alcuni si sentano soggettivamente non colpevoli o vittime di errori giudiziari che hanno esagerato la loro colpevolezza ed altri, incapaci di convivere con memorie tormentose, abbiano finito per modificare i propri ricordi per renderli tollerabili.
Possiamo anche pensare che una percentuale dei morituri con un tale atteggiamento intenda rifiutare di collaborare con l’iniquo sistema di giustizia che si esprime nella pena di morte, che alcuni non vogliano dare soddisfazione ai parenti delle loro vittime e al pubblico assetati di vendetta, e infine che pochissimi trovino nella menzogna estrema il piacere amaro di reiterare un atto ostile nei riguardi della società.
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(1) V. ad es. le ultime dichiarazioni dei condannati a morte nel sito dell’Amministrazione carceraria del Texas: http://www.tdcj.state.tx.us/stat/executedoffenders.htm
6) CELLULARI NEL BRACCIO, LO SCANDALO TOCCA UN SENATORE E SONO GUAI
Nel mese di ottobre, per la temerarietà di un detenuto, lo scandalo dei telefoni cellulari che entrano di contrabbando nel braccio della morte del Texas ha toccato il senatore John Whitmire, presidente del comitato senatoriale che supervisiona le carceri. L’episodio ha avuto pesantissime conseguenze su tutti i detenuti delle prigioni texane e in particole per gli ospiti del braccio della morte.
Lo sapevano tutti, perfino alcuni corrispondenti italiani dei detenuti, che nel braccio della morte del Texas entravano di contrabbando telefoni cellulari, usati in proprio o affittati ai compagni di prigionia. Fuori dal braccio parenti ed amici dei prigionieri pagavano le ricariche.
I funzionari dell’Amministrazione carceraria del Texas ammettevano senza reticenze il fenomeno, comune peraltro al centinaio al carceri ‘normali’ dello stato nelle quali sono cominciati tre mesi fa i costosi lavori per installare un complesso impianto di telefoni a pagamento ad uso dei prigionieri, che dovrebbe risolvere almeno in parte il problema del contrabbando dei cellulari.
Solo nel 2008, si ammette, sono stati sequestrati più di 670 cellulari nelle carceri texane, 19 dei quali nel braccio della morte. Si afferma che il fenomeno è letteralmente esploso lo scorso anno dando adito a più di 800 indagini.
Il contrabbando dei cellulari era evidentemente considerato una malattia cronica di bassa intensità, una disfunzione forse contenibile, forse riducibile, ma ineliminabile. Anche perché il traffico coinvolgeva le guardie, che lo consideravano probabilmente come un modo accettabile di integrare la paga grama ricevuta per svolgere un mestiere ingrato.
Ma il comportamento ingenuo e spavaldo di Richard Lee Tabler, un ospite recente del braccio della morte, ha scatenato una tempesta che si è abbattuta con furia sui condannati alla pena capitale e, in una certa misura, su tutti i 155 mila detenuti texani. E che non mancherà di fare qualche ‘vittima’ anche tra le guardie e i funzionari delle prigioni del Texas
Premettiamo che Tabler, con una famiglia benestante alle spalle, disponeva di un cellulare che veniva ricaricato in continuazione dall’esterno e che lavorava a pieno ritmo sia per Tabler che per altri 9 detenuti ai quali egli evidentemente lo affittava. Quattro di tali detenuti apparterrebbero a pericolose gang. Le autorità asseriscono che nell’ultimo mese il telefonino abbia fatto addirittura 2.800 chiamate. Ma fin qui tutto nella norma, se così si può dire.
Però Tabler ha avuto l’idea di chiamare dei giornalisti, soprattutto dell’Austin American-Statesman, per denunciare i soprusi subiti dai condannati a morte. Il 7 ottobre cominciò a telefonare perfino al senatore John Whitmire, presidente del Comitato senatoriale che supervisiona il sistema carcerario. Gli chiese di aiutarlo a trovare un nuovo avvocato e gli parlò diffusamente del proprio caso giudiziario.
“Mi chiamò parecchie volte nelle ultime due settimane. Mi disse ad un certo punto che eravamo compagni e che i compagni si aiutano l’un l’altro,” ha detto Whitmire. “Non so in che modo mi potesse aiutare, ma lui mi chiese aiuto per ottenere una visita speciale da parte di sua nonna.”
Dopo un po’ l’interlocutore disse anche di chiamarsi Tabler. In precedenza aveva ricattato psicologicamente il senatore facendogli capire che sapeva molto su di lui e sulla sua famiglia (usando dati trovati in Internet da parenti o conoscenti).
“Francamente, tutto ciò mi ha spaventato in maniera maledetta” ha dichiarato il senatore.
Whitmire ha sporto denuncia ma si è mostrato amico del suo interlocutore per non insospettirlo. Tabler gli ha anche confidato che il telefonino gli era costato 2.100 dollari in bustarelle. Dopo di ciò gli investigatori hanno potuto tracciare il cellulare galeotto individuando il negozio di Waco in cui era stato acquistato dalla madre di Tabler un anno fa.
Appreso tramite Whitmire che la madre di Richard Tabler era in arrivo in aereo da Atlanta in Georgia per visitare il figlio, la polizia si è recata il 20 ottobre all’aeroporto di Austin: alle 9 del mattino Lorraine Tabler era già ammanettata.
Richard Tabler è stato ‘arrestato’ nella sua cella alle 10 e 30 dello stesso giorno mentre usava il suo telefonino di contrabbando.
Dopo la madre, anche la sorella di Richard Tabler è stata incriminata per aver acquistato ricariche per il telefonino di Richard.
Finita la pacchia, Richard Tabler non se la deve essere passata bene, forse anche per la reazione dei compagni di prigionia, che hanno subito tutti pesantissime e sproporzionate conseguenze dell’accaduto.
Fatto sta che il personale del braccio della morte ha giudicato Tabler a rischio immediato di suicidio e lo ha trasferito il 22 ottobre nell’unità psichiatrica del carcere dove è stato posto sotto stretta osservazione.
Il senatore John Whitmire ha convocato una riunione di emergenza del Comitato senatoriale per la supervisione delle carceri da lui presieduta e il governatore del Texas, Rick Perry, ha ordinato immediatamente un ‘lockdown’ in TUTTE le carceri del Texas e non solo nel braccio della morte.
Il motivo ufficiale del lockdown – perquisizione a tappeto con i detenuti tenuti chiusi giorno e notte nelle loro celle - è di consentire un’accurata ricerca dei cellulari nelle prigioni. Tuttavia è più che fondato il sospetto che sia trattato anche e soprattutto di una vendetta indiscriminata contro tutti i detenuti per un comportamento illegale di alcuni di loro (v. ad es. n. 84). Si tratta di un comportamento forse pericoloso per la società ma certamente bruciante per la mentalità del cittadino medio del Texas, forcaiolo, crudele e vendicativo.
Lo dimostra anche il fatto che a fine mese il lockdown è stato revocato solo in un terzo delle carceri texane. Comunque è già durato molto di più dei pochi giorni necessari per fare una perquisizione capillare delle prigioni e dei detenuti (nonché delle guardie e dei visitatori, come è stato ordinato).
Già gli ordinari lockdown, che avvengono periodicamente, comportano grandi disagi per i prigionieri tenuti chiusi nelle loro piccolissime celle per 24 ore al giorno, anche più giorni di seguito, e alimentati con razioni di emergenza. Senza poter ricevere visite, usufruire della ricreazione, delle docce e degli acquisti allo spaccio del carcere, subendo uno o due ‘shakedown’ al giorno, cioè perquisizioni umilianti che mettono completamente a soqquadro tutte le cose che si trovano nella cella, carte legali comprese.
Nelle ultime settimane sembra che gli shakedown nel braccio della morte del Texas siano stati anche quattro al giorno con danneggiamento o distruzione di beni permessi, come macchine per scrivere, radio, carte legali e foto dei propri cari. Sarebbero stati negati anche cibo a sufficienza, coperte e altri oggetti essenziali. E soprattutto l’allucinante segregazione si è prolungata per settimane senza che ne venisse comunicato un termine!
Sono stati inflitti a tutti i detenuti, nonché ai loro parenti e conoscenti, una sofferenza enorme e un trattamento che si situa ben al disotto degli standard minimi previsti a livello internazionale per i carcerari. Per di più tutti hanno sofferto per una violazione commessa all’incirca dal 3% dei detenuti.
Come non ricordare, a questo proposito, la vendetta ordinata nel 1998 contro tutti i condannati alla pena capitale da George W. Bush, allora governatore del Texas, in occasione del tentativo di evasione di sei detenuti dal braccio della morte situato nella vecchia Ellis One Unit. Tentativo che si concluse con la fuga del solo Martin Gurule, il quale, ferito da un colpo di fucile, morì a poca distanza dal carcere affogando in un corso d’acqua. Alcuni mesi dopo cominciò il trasferimento del braccio della morte in una moderna unità di massima sicurezza, la Terrell Unit (in seguito chiamata “Polunsky Unit”). Lì furono introdotte per i detenuti diverse restrizioni permanenti, come il divieto di guardare la televisione.
La punizione più sadica e pesante, sia pure temporanea, fu però quella della sospensione per tutti dell’ammissione alle attività lavorative, status fino ad allora accordato a circa una metà dei detenuti, di comportamento irreprensibile. Costoro, lavorando gratis, per esempio a cucire le divise per le guardie, potevano usufruire durante il giorno della liberazione dall’isolamento. Per rimanendo tuttora in vigore, secondo le regole vigenti per il braccio della morte, l’ammissione alle attività lavorative risulta ancora ‘sospesa’ dopo un decennio dall’evasione di Gurule (avvenuta il 26 novembre 1998)!
Tra le molte possibilità di rappresaglia contro gli ospiti del braccio della morte per lo scandalo dei telefonini sono state ventilate restrizioni nei pochi generi di conforto acquistabili allo spaccio del carcere e una drastica riduzione dei fondi depositabili dall’esterno sui conti dei detenuti presso l’Amministrazione carceraria (con la scusa che questi soldi possono essere utilizzati per corrompere le guardie).
A fine ottobre, come abbiamo detto, il lockdown era stato revocato solo in un terzo delle 112 prigioni statali. Si è detto ufficialmente che in tali prigioni si è conclusa la perquisizione. L’Amministrazione carceraria ha fatto un bilancio dei cellulari confiscati: 71 di cui 5 nel braccio della morte, più 65 trasformatori per la ricarica degli stessi, ed ha fatto sapere che è allo studio l’istallazione di un impianto di controllo che possa localizzare con precisione la presenza di telefoni cellulari nelle prigioni.
Nel frattempo continua l’interminabile lockdown mentre crescono la sofferenza dei detenuti e l’ansia e le proteste dei loro parenti e corrispondenti.
7) RICORSI ROTTAMATI IN SERIE DALLE CORTI STATUNITENSI
Negli Stati Uniti d’America, specialmente nei casi capitali, una normativa formalmente garantista lascia ai condannati la possibilità di presentare numerosi appelli. Molte volte gli appelli risultano però inefficaci a correggere gli errori giudiziari per la scarsa professionalità di chi li prepara o per l’atteggiamento delle corti, le quali respingono i ricorsi senza prenderli in adeguata considerazione.
E’ vero, come rileva Claudio Giusti, che il mastodontico sistema penale americano si regge soltanto “perché non fa i processi, non fa gli appelli e non motiva le sentenze”, patteggiando le pene e saltando a piè pari le costose corti di giustizia. (1)
Ma ciò avviene nei casi criminali meno importanti, che rappresentano peraltro la grande maggioranza. Quando i delitti sono gravi e le condanne pesanti, le corti, sia a livello statale che federale, ricevono numerosi appelli. Il numero degli appelli è notevole nei casi capitali.
E’ scandalosa però la leggerezza con cui alcune corti, tristemente famose, respingono gli appelli, per pregiudizio di colpevolezza o per negligenza. Tanto che i meschini ospiti del braccio della morte usano dire che i loro appelli, da cui dipende la vita o la morte, vengono ‘rubber stamped’, cioè respinti con la semplice apposizione di un timbro.
Difficilmente, e solo per circostanze fortuite, si riesce di tanto in tanto a fornire le prove della mancanza di attenzione delle corti nei riguardi degli appelli.
Ciò avvenne nel caso della corte distrettuale texana che nel 1993 respinse un appello cruciale di Gary Graham (il nostro amico condannato a morte nel 1981 e ‘giustiziato’ dalla stato del Texas nel 2000 pur essendo con tutta probabilità innocente del delitto che gli venne contestato). La superficialità del giudice che doveva esaminare il ricorso poté essere documentata soltanto perché questi, rispondendo ad una richiesta della difesa, dimostrò di non aver ancora preso in mano il ricorso e subito dopo lo esaminò in pubblico, in un lasso di tempo di una ridicola brevità, per giunta mentre stava compiendo un altro delicato lavoro: la selezione della giuria per un processo capitale.
Si legge a questo proposito in un successivo ricorso dell’avvocato difensore Dick Burr (2): “il Giudice Shipley ebbe approssimativamente un’ora per leggere e risolvere le molte complesse problematiche legali e di fatto presentate in 258 pagine di argomentazioni […]. Anche se avesse letto in anticipo la domanda di habeas corpus […], avrebbe avuto un’ora per leggere le 137 pagine di argomentazioni [che gli erano state appena inoltrate], assimilarle e prenderle in considerazione […]. Se ha esaminato queste carte nello stesso tempo in cui stava presiedendo alla selezione della giuria per un caso capitale, non ha potuto dedicare alla loro lettura l’attenzione che meritavano.” (3)
Purtroppo a incentivare la superficialità criminosa delle corti – per ulteriore disgrazia dei condannati a morte – concorre il fatto che molti dei ricorsi presentati dagli avvocati d’ufficio sono sciatti, poveri e male argomentati, a malapena bastevoli per ritardare il momento dell’esecuzione nell’attesa che le corti li respingano.
Accade spesso che un medesimo ricorso venga riciclato, con poche modifiche, per condannati che hanno casi completamente differenti. Per esempio nel 2006 si scoprì che i brevi ricorsi preparati dall’avvocatessa Leslie Ribnik, ad un anno e mezzo di distanza, per due diversi condannati a morte, erano pressoché sovrapponibili. Angel Maturino Resendiz, un serial killer reo di nove omicidi e Robert Gene Will, ladro di automobili accusato dell’uccisione di un poliziotto, non avevano nulla in comune all’infuori dell’indirizzo: braccio della morte del Texas. Eppure i rispettivi ricorsi - il primo di 20 e il secondo di 28 pagine - erano pressoché identici nelle prime venti pagine, con lo stesso errore di ortografia a pag. 17. Basati su una questione di tecnica procedurale, i ricorsi omettevano di sollevare argomenti specifici atti a evitare l’esecuzione dei condannati, non facevano cenno ai processi subiti dai due ed evitavano per pagine e pagine di menzionare i nomi dei ricorrenti. Entrambi riportavano in maniera errata la data della condanna. Per di più la Ribnik lasciò scadere il termine per avviare gli appelli a livello federale consentendo la rapidissima fissazione di una data di esecuzione per Rosendiz.
Tornando a parlare del comportamento delle corti, vogliamo accennare al caso tragico e stupefacente della Corte d’Appello della Louisiana. Il caso, riportato in ottobre con un certo rilievo dalla stampa locale, fu sollevato da un ricorso presentato alla Corte Suprema della Louisiana in giugno. Si originò da una confessione scritta lasciata da Jerrold Peterson, un cancelliere che si uccise nei locali della Corte d’Appello a maggio del 2007 rivelando che circa 2.500 ricorsi di prigionieri sono stati respinti nell’arco di 13 anni senza essere nemmeno letti!
Anche se ogni petizione penale doveva essere esaminata da tre giudici, il cancelliere Peterson fu incaricato di separare dagli altri i ricorsi presentati “in proprio” da condannati privi di avvocato difensore e prepararli per il loro automatico rigetto. Il 3 ottobre la Corte d’Appello sotto accusa ha disposto che centinaia di tali petizioni vengano esaminate da giudici non coinvolti nelle indebite reiezioni. (4) Un rimedio che non dà adeguata garanzia di risolvere il problema dal momento che tutti i giudici della corte sono in qualche misura corresponsabili. Tutti infatti, pur conoscendo, almeno per 17 mesi dopo il suicidio del cancelliere Peterson, la vergognosa prassi, si sono ben guardati dall’intervenire.
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(1) V. n. 150, “Efficienza americana” di Claudio Giusti
(2) Ricorso alla Corte Criminale d’Appello del Texas del 1998.
(3) V.“Muoio assassinato questa notte”, a cura del Comitato Paul Rougeau, Multimage, 2004, pag. 84
(4) V. www.nola.com/timespic/stories/index.ssf?/base/news-0/1223616107256210.xml&coll=1&thispage=1
N. B. La corte statale qui nominata non va confusa con la più famosa ed altrettanto discussa Corte federale d’Appello del Quinto Circuito.
8) LAPIDATA PER ADULTERIO IN SOMALIA
Se non fosse per la serietà delle fonti, ci sarebbe da dubitare di una notizia arrivata dalla Somalia. Vorremmo che qualcuno dei particolari riferiti sulla vicenda dell’‘adultera’ Aisho Ibrahim Dhuhulow, lapidata il 27 ottobre nella città di Kisimayo, siano inesatti. Riportiamo ciò che abbiamo appreso incapaci di aggiungere qualsiasi commento.
Il 27 ottobre una brevissima nota dell’Agence France Presse riferiva che Aisho Ibrahim Dhuhulow era stata appena lapidata nella città di Kisimayo in Somalia – ora sotto il controllo delle cosiddette “Corti Islamiche.”
Secondo l’AFP, un esponente politico locale, Sheikh Hayakallah, ha dichiarato che la donna aveva confessato di essere colpevole di adulterio e che in seguito “le fu chiesto diverse volte di rivedere la propria confessione ma lei ha affermato con forza che la legge della Sharia e la punizione meritata dovevano essere applicate.” La lapidazione sarebbe avvenuta in una delle strade principali della città davanti ‘a migliaia di persone’ con la donna sepolta fino al collo.
Un comunicato apparso nel sito del Segretariato Internazionale di Amnesty International il 31 ottobre, dopo un indagine compiuta sul posto da membri di tale organizzazione (1), afferma che:
- la donna, di 23 anni secondo la stampa somala, aveva in realtà solo 13 anni;
- l’ ‘adulterio’ da lei attribuito consisteva nel fatto di essere stata stuprata da tre uomini;
- andata a denunciare lo stupro alle autorità è stata arrestata ed accusata di adulterio;
- nessuno dei tre individui che l’hanno violentata è stato perseguito;
- secondo alcuni testimoni, durante la prigionia durata non più di tre mesi, la ragazza sotto stress avrebbe manifestato instabilità mentale;
- la condannata è stata trascinata a forza sul luogo dell’esecuzione vincendo la sua resistenza;
- la lapidazione è stata effettuata da un gruppo di 50 uomini all’interno di uno stadio di fronte a circa mille spettatori;
- le guardie hanno aperto il fuoco contro alcuni spettatori che avevano tentato di opporsi alla lapidazione, un ragazzo è stato ucciso (2);
- ad un certo punto è stato ordinato ad alcune infermiere di controllare se la ragazza era ancora viva;
- Aisho Ibrahim Dhuhulow è stata estratta dalla buca in cui era sepolta e trovata in vita;
- la ragazza è stata di nuovo sepolta e la lapidazione è continuata.
Amnesty International osserva che l’episodio può essere interpretato come un atto di intimidazione delle Corti Islamiche nei riguardi della popolazione.
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(1) V. www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/somalia-girl-stoned-was-child-13-20081031
(2) Le autorità hanno affermato in seguito che la guardia che ha ucciso il ragazzo sarebbe stata punita
9) CRITICATO SINDACO TEXANO PER IL SUO TOUR ABOLIZIONISTA
Il giornale di El Paso ha parlato più volte del sindaco John Cook, che ha preso parte ad un tour musicale in varie città del Texas per promuovere l’abolizione della pena di morte. Alla fine del tour, in un editoriale, l’El Paso Times non ha potuto fare a meno di criticare l’asserita imprudenza del primo cittadino.
John Cook, sindaco di El Paso, città texana al confine con il Messico, è un ottimo chitarrista e canta bene. E’ stato l’unico sindaco del Texas che ha accettato l’invito di una nota cantautrice di Austin, Sara Hickman, di prendere parte al “Music for Life Tour”, promosso dalla Coalizione Texana per l’Abolizione della Pena di Morte. (1) Cantando accompagnato dalla sua chitarra, il sindaco Cook si è esibito a Dallas, Arlington, Fort Worth, Waco ed Austin.
La convinta missione in difesa della vita di Cook ha origine dal peso che egli si porta dietro fin dal tempo dalla guerra del Vietnam durante la quale gli capitò di uccidere un ragazzo in battaglia.
L’exploit del sindaco, svoltosi nell’arco di più di sei mesi, non poteva essere ignorato dal principale quotidiano della sua città, l’El Paso Times, che ne ha parlato in modo vivace, dettagliato e piuttosto meravigliato. Con una larvata ammirazione per Cook, il giornale osserva che il sindaco, in corsa per essere rieletto nelle prossime votazioni, manifestando i propri profondi convincimenti rischia di perdere voti in una città in cui quasi tutti gli elettori sono a favore della pena capitale.
Ma il 10 ottobre, alla fine del Tour, forse dopo una tirata d’orecchi subita dal suo direttore, il giornale non ha potuto fare a meno di criticare in un editoriale il comportamento del primo cittadino giudicato gravemente imprudente e incompatibile con la sua carica: “Il sindaco John Cook afferma di non essere un ipocrita e che questa è la ragione per cui ha cantato in numerose grandi città texane promuovendo l’abolizione della pena di morte. […] Cook è il sindaco di El Paso, grande città che necessita di moltissime attenzioni […] [egli] dovrebbe indossare sul bavero della giacca i distintivi simboli dei problemi di El Paso, non quelli delle sue personali missioni nella vita.”
Pur riconoscendo a Cook il merito di essere una brava persona e di svolgere sinceramente attività umanitarie, come offrire il pranzo a tanti poveri ogni anno nel giorno del Ringraziamento, od organizzare eventi musicali in favore delle vittime dei terremoti, il quotidiano afferma che il problema della pena di morte è così scottante e dibattuto, come quello dell’aborto, che nessun politico dovrebbe farsene portavoce in un senso o nell’altro per non deludere una metà delle persone che rappresenta.
Qualche giorno dopo, il 14 ottobre, la bella e popolarissima Sara Hickman ha scritto una lunga e appassionata lettera al giornale per difendere la scelta del sindaco, lettera che è stata integralmente pubblicata. La Hickman si chiede, fra l’altro, se per caso i concittadini non preferissero avere come sindaco un politico come tanti altri, di quelli che professano idee in cui non credono badando all’interesse politico e al tornaconto personale, unica cosa in cui veramente credono.
In effetti la presa di posizione dell’El Paso Times non è condivisibile, perché ciascuna persona ha il diritto (anzi il dovere morale) di manifestare il suo credo nei valori fondamentali, a cominciare dai diritti umani, senza contare che ogni politico è anche un essere umano e come tale libero di manifestare le proprie idee nel tempo libero svestendosi della sua carica.
Mi viene in mente la sagace risposta che diede il nostro socio Paolo Cifariello alla governatrice del Texas Ann Richards, la quale aveva risposto picche ad una sua richiesta di aiuto economico per la difesa legale di Gary Graham, motivando il suo rifiuto con il fatto che non poteva prendere posizione in quanto figura politica. In quell’occasione Paolo le aveva scritto di essere fortemente deluso perché fino ad allora aveva creduto che una governatrice fosse anche un essere umano e, come tale, quando alla sera spegneva la luce e usciva dal suo ufficio, ridiventasse una persona libera, una sposa e una madre. (2)
Mi chiedo se l’El Paso Times avrebbe giudicato John Cook con tanto rigore se invece si fosse schierato dalla parte opposta, ossia in favore della pena di morte, magari prendendo parte a qualche evento organizzato dall’associazione forcaiola Justice for All. (Grazia)
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(1) “Tour Musica per la vita”, vedi: http://www.tcadp.org/index.php?page=music-for-life
(2) V. “Muoio assassinato questa nottte”, a cura del Comitato Paul Rougeau, Multimage, 2004, pagg. 39-40
10) NOTIZIARIO
Globale. La nuova risoluzione ONU prevederebbe un ‘inviato’ per la moratoria. Come abbiamo annunciato nel numero precedente, durante la 63-esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si sta svolgendo a New York, è in corso il lavoro preparatorio per arrivare all’approvazione di una nuova risoluzione sulla moratoria della pena di morte che rafforzerebbe quella approvata il 18 dicembre dello scorso anno. Oltre a poggiare su una maggioranza di circa 110 paesi a favore, un poco più larga di quella ottenuta nel 2007 (104 voti a favore, 54 contrari), la nuova risoluzione chiederebbe a tutti paesi di rimuovere la segretezza sull’uso della pena capitale e di rendicontare in merito al Segretario Generale delle Nazioni Unite il quale dovrebbe nominare un suo inviato speciale con l’incarico di monitorare con continuità e di promuovere l’applicazione della moratoria.
Iran. Annunciata e poi smentita l’abolizione della pena di morte per i minorenni. Il nefasto e nefando uso della pena di morte in Iran, si caratterizza, oltre che il più alto numero di esecuzione pro capite del mondo, anche per la totale confusione nella normativa e nelle decisioni in materia. Dopo le contraddizioni sulla ‘moratoria delle lapidazioni’ che fu annunciata il 5 agosto scorso, abbiamo assistito ad un altro voltafaccia nel mese di ottobre. Il giorno 16 infatti Hossein Zabhi, vice capo della giustizia penale, aveva annunciato la proibizione della pena di morte per i minorenni, contenuta in una circolare ai giudici dell’Ayatollah Shahroudi, capo del sistema giudiziario. Il provvedimento, che avrebbe reso il paese coerente con due trattati internazionali da esso firmati e ratificati, aveva suscitato un coro di approvazioni da parte delle organizzazioni per i diritti umani preoccupate per il largo uso della pena di morte nei riguardi dei minorenni (v. n. 162). Pur avvertendo che la decisione non era legalmente cogente perché mancava ancora la ratifica del Parlamento, Zabhi aveva addirittura assicurato che, in aggiunta alla commutazione delle sentenze di morte già inflitte, “nei casi di buona condotta con segni di riabilitazione, i delinquenti giovanili possono fruire di un rilascio condizionale secondo le direttive compassionevoli dell’Islam”. In una successiva ‘precisazione’ di due giorni dopo Hossein Zabhi ha rimesso tutto in discussione e raffreddato gli entusiasmi appena suscitati. Egli ha detto infatti che la pena di morte per i minorenni era stata messa in mora per i reati di droga ma sarebbe rimata per gli omicidi, nei casi in cui i parenti delle vittime rifiutano la compensazione in denaro prevista dalla legge islamica. Zabhi ha dichiarato: “Non possiamo negare alle famiglie delle vittime il diritto legale di richiedere la qisas islamica, cioè la vendetta occhio per occhio”. La nuova direttiva – ha notato - non riguarda i [120] condannati che erano minorenni all’epoca del crimine ora richiusi nei bracci della morte. Lo stesso Zabhy ha affermato che la circolare in questione è stata emanata un anno fa ma che è stata resa nota solo ora per motivi che egli non conosce. Insomma, la ‘splendida notizia’ festeggiata da Amnesty e da Human Rights Watch si è rivelata poco più di una bufala.
Maryland. Almeno 53 gli oppositori pacifici classificati come ‘sospetti terroristi’. Si è tenuto l’11 ottobre presso la Chiesa Presbiteriana di Takoma Park il forum sponsorizzato dal Washington Peace Center (Centro per le Pace di Washington) in cui una settantina di attivisti hanno discusso la strategia da adottare per assicurare che i loro nomi siano tolti da qualsiasi schedario statale o federale che traccia i sospetti di terrorismo. Il 7 ottobre si è saputo infatti da fonti statali che almeno 53 gli attivisti pacifici (non solo oppositori alla guerra o abolizionisti come si era appreso in precedenza) furono inseriti in qualità di ‘terroristi’ nei data base statali e federali tra il 2005 e il 2006 dalla polizia di stato del Maryland (v. nn. 162; 163, Notiziario). Tra di essi vi sono due suore cattoliche, un candidato del Partito Democratico al Congresso e una scrittrice di New York che sostiene di non aver mai messo piede in Maryland. Si è ammesso che anche diversi gruppi di opposizione sono stati etichettati come terroristici ma le fonti governative non hanno voluto specificare quali siano. Il Washington Post riporta le dichiarazioni del 10 ottobre dell’attuale portavoce della polizia del Maryland, Greg Shipley, il quale afferma di non sapere in base a quali criteri i comandanti della Divisione per la Sicurezza Nazionale e per l’Intelligence inserissero i nomi nei data base, aggiungendo che l’attuale capo della polizia Terrence B. Sheridan ritiene che l’iniziativa non fu appropriata e che i nomi degli attivisti devono essere tolti dai data base.
Usa. Ampie e precise le false confessioni rese da persone innocenti. Brandon L. Garrett, professore di legge presso l’Università della Virginia, ha condotto una ricerca sulle false confessioni di colpevolezza fatte da 34 persone condannate per stupro ed omicidio che sono state recentemente esonerate per mezzo di test del DNA. La ricerca, pubblicata l’8 ottobre, riguarda il contenuto delle false confessioni (e non le tecniche utilizzate dagli inquirenti per ottenere tali confessioni). E’ risultato che non solo persone innocenti possono essere indotte e confessare crimini mai commessi ma che, in tutti i casi esaminati meno uno, le confessioni rese contenevano informazioni sorprendentemente ricche, dettagliate ed accurate, utilissime all’accusa per ottenere la condanna degli imputati. Siccome tali dettagli non possono avere origine dalle persone che hanno confessato, in quanto innocenti, si deve concludere che sono stati loro comunicati, molto probabilmente nel corso degli interrogatori ai quali sono state sottoposte.
V. http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1280254
Usa. Occorre escludere categoricamente certi tipi di prove nei casi capitali. Dopo due decenni di esonerazioni conseguenti all’uso dei test del DNA, Rory K. Little, professore di criminologia nell’Università della California, un ex accusatore che dice di non essere un abolizionista, ha classificato le sorgenti degli errori giudiziari che possono avere conseguenze particolarmente tragiche nei casi capitali: 1) errori dei testimoni oculari, 2) false confessioni, 3) informatori carcerari e più in generale informatori pregiudicati, 4) prove (pseudo) scientifiche. Il prof. Little propone di escludere ‘categoricamente’ l’uso di determinati tipi di prove nell’istruzione di casi capitali. Egli afferma che nessun procedimento capitale dovrebbe essere avviato dall’accusa se basato primariamente su prove che possono dar luogo ad errori compresi in una delle quattro categorie evidenziate.
Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 ottobre 2008