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FOGLIO  DI COLLEGAMENTO  INTERNO

 

DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

 

Numero 193 - Ottobre 2011

Autunno arabo

SOMMARIO:

 

1) Videogioco con morti veri: l’uccisione mirata di Awlaki         

2) Più grave del previsto il rapporto sulle torture in Afghanistan

3) Giustizia tribale in Afghanistan                                     

4) Il massacro di Gheddafi rispecchia il vero volto della guerra

5) C’è chi pensa che il linciaggio di Gheddafi sia stata cosa ottima

6) Ergastolo ad Alfredo Astiz per crimini contro l’umanità

7) Giurie impaurite dall’accusa chiedono la pena di morte di Fernando E.            Caro

8) Attività del Comitato in occasione della Giornata mondiale

9) Richiesta di corrispondenza, preferibilmente in spagnolo

10) Notiziario: Arabia Saudita, Egitto, Florida, Pakistan, Russia, Texas

 

 

1) VIDEOGIOCO CON MORTI VERI: L’UCCISIONE MIRATA DI AWLAKI

 

In luogo di dedicarsi alla cattura di ‘sospetti terroristi’ da spedire a Guantanamo, l’amministrazione Obama preferisce ucciderli sul posto. All’uopo ha incrementato l’uso di aerei senza pilota che possono essere azionati da 10 mila chilometri di distanza, come in un videogioco. Tale prassi, che viola gravemente i diritti umani, è tacitamente accettata negli USA ma ha subito qualche critica quando ad essere ucciso nello Yemen è stato un cittadino americano, il predicatore Anwar al-Awlaki.

 

George W. Bush alimentava l’idea folle di una “guerra globale al terrore” indeterminata ed infinita, mentre il suo governo si dedicava al difficile compito di catturare in ogni dove ‘sospetti terroristi’, di interrogarli sotto tortura in luoghi segreti e infine scaricarli a Guantanamo per poi magari processarne qualcuno.

Barack Obama ha invece concluso che è molto più semplice risolvere il problema alla radice, uccidendoli lì dove sono, i ‘sospetti terroristi’.

Da tre anni a questa parte molte centinaia di persone vengono uccise ogni anno in almeno quattro paesi asiatici o africani in una specie di immenso videogioco. Si tratta di uomini, condannati a morte in segreto dall’Esecutivo USA senza neanche un processo, centrati da missili Hellfire (Hellfire = fuoco d’inferno) lanciati da aerei senza pilota (droni). (1)

E’ da ritenere che vengano uccisi immediatamente molti ‘combattenti’, designati come tali ad esempio per il semplice fatto che si muovono in gruppo e armati. Ma per alcune egregie personalità l’inizio del videogioco richiede complesse fasi preliminari che possono durare anni: l’inclusione delle persone da uccidere nell’apposita lista, la mobilitazione di spie, la ricerca e la localizzazione delle persone da uccidere, il controllo passo passo di ciascuna persona da uccidere che è stata individuata.

Una volta iniziato, il videogioco si svolge rapidamente. Gli operatori, seduti comodamente in poltrona, si trovano anche a più di 10 mila chilometri di distanza dall’obiettivo. Si alzano i droni, da un aeroporto remoto. Gli operatori, tramite i droni, inquadrano visivamente l’obiettivo. Tipicamente l’obiettivo diviene bersaglio mentre si sta spostando all’aperto. Un operatore alla consolle del videogioco fa partire dai droni uno o più razzi Hellfire. E’ facile che muoiano altre persone oltre all’obiettivo designato. Può darsi che venga inquadrato ed ucciso per errore qualche ‘alleato’.

Questa pratica gravemente lesiva dei diritti umani fondamentali, in crescendo sotto l’amministrazione Obama, ha scarso rilievo nei media americani.

Un’eccezione è stata fatta il 1° ottobre quando i giornali USA hanno riportato in prima pagina l’assassinio mirato del 40-enne Anwar al-Awlaki.

Il 30 settembre droni decollati da una nuova base segreta della CIA nella penisola araba, hanno attaccato un veicolo su cui si trovava Awlaki in viaggio tra le province di Marib e Jawf nello Yemen del nord, massacrando con lui altre tre persone. Awlaki, probabilmente denunciato da un prigioniero torturato dagli Yemeniti, era sorvegliato da settimane (2).

La notizia ha avuto un particolare risalto – e suscitato qualche dissenso – solo perché questa volta, e per la prima volta sotto la presidenza Obama, ad essere preso di mira è stato un cittadino statunitense. Infatti Awlaki era nato negli Stati Uniti in un’agiata famiglia yemenita. Aveva  compiuto gli studi universitari di ingegneria in Colorado, aveva poi soggiornato i diversi stati USA fino al 2002, continuando a studiare discipline umanistiche e dedicandosi alla propaganda islamista.

Secondo l’amministrazione Obama, Anwar al-Awlaki meritava la morte perché, trasferitosi a Londra e infine rientrato nello Yemen nel 2004, si era “alleato con il nemico” in “tempo di guerra”.

Barack Obama ha commentato con soddisfazione l’uccisione di Awlaki definendo quest’ultimo addirittura “il leader delle operazioni estere” del ramo yemenita di al-Qaeda. In realtà sembra che Awlaki, ancorché parlasse molto, in un ottimo inglese, contro gli Stati Uniti, avesse più il ruolo del propagandista che quello del dirigente di al-Qaeda nello Yemen. A suo tempo aveva anche condannato gli attacchi dell’11 settembre 2001 sul suolo americano.

Con Awlaki è rimasto ucciso un altro americano, Samir Khan, di famiglia pakistana. Anche costui, dopo aver predicato contro gli USA in Internet, si era trasferito nello Yemen. Khan non era nella lista delle persone da eliminare ma la sua morte è stata salutata con soddisfazione. E’ stata definita un ‘bonus extra’ da Michael McCaul, deputato texano membro del Comitato della Camera dei Rappresentanti per la Sicurezza Nazionale. “E’ stato uno splendido colpo!” ha commentato McCaul.

Il governo dello Yemen, avallando l’operazione contro Anwar al-Awlaki, non sembra aver fatto i propri interessi anche perché il defunto predicatore non aveva un ruolo particolare nel tentativo in atto di creare un contropotere di al-Qaeda nello Yemen. “Uccidere lui non ha inflitto una grossa perdita [ad al-Qaeda] nello Yemen” ha dichiarato Saeed Ali Obaid Jamhi esperto della militanza islamica nella regione. “Egli non era poi così coinvolto nella battaglia yemenita. Era una figura internazionale. Un ispiratore spirituale per i militanti. La sua morte aumenterà l’odio per il governo yemenita che permette agli aerei e ai droni USA di prendere di mira la gente nello Yemen.”

In ambienti militari USA si afferma che l’operazione Awlaki ha avuto più che altro un fine terroristico. “E’ stata di estrema importanza,” ha dichiarato un ufficiale che si occupa dello Yemen. “Il colpo istilla un timore ferale negli altri. Colpire Awlaki, dotato di un elevato apparato di sicurezza personale, aumenta il senso di paura negli altri. Per loro diventa difficile attaccare se devono proteggersi il didietro”.

Charlie Savage, giornalista del New York Times, ha appreso di un memorandum segreto in possesso dell’amministrazione Obama dal 2010 in cui esperti legali, forzando ed estrapolando la giurisprudenza USA, arrivano ad affermare la legalità dell’uccisione di Awlaki, pur se cittadino americano, nell’impossibilità di catturarlo. Il documento legale che consente la violazione dei diritti di Awlaki ricorda i famosi memorandum che si fece preparare il presidente George W. Bush per dare una parvenza di legalità a molteplici violazioni dei diritti umani, compreso l’uso della tortura, nell’ambito della “guerra globale al terrore.” (3)

La decisione di uccidere Awlaki appare basata su tre postulati che l’Esecutivo chiede di prendere per buoni senza fornire prove. Primo: Awlaki costituiva un “immediato pericolo per la vita degli Americani” dal momento che avrebbe avuto un ruolo negli attentati contro un volo di linea diretto a Detroit nel 2009 e contro due aerei cargo l’anno scorso (attentati tutti falliti). Secondo: Awlaki si era alleato con il nemico nella guerra tra gli Stati Uniti ed al-Qaeda. Terzo: nella cotica situazione yemenita non vi era una via praticabile per arrivare alla sua cattura.

Barack Obama, come George W. Bush, tende sempre più a considerare il mondo intero in uno stato di guerra indeterminata e infinita nella quale chiunque, in ogni dove, può essere da lui qualificato un combattente contro gli USA nell’atto di uccidere e, in quanto tale, una persona da sopprimere.

L’adrenalinico videogioco con i droni, può subire qualche limitazione e qualche critica solo in conseguenza delle garanzie costituzionali di cui godono i cittadini americani: “Come abbiamo visto oggi, si tratta di un programma secondo il quale cittadini americani lontani da ogni campo di battaglia possono essere messi a morte dal loro governo senza processo e in base a criteri e a prove che rimangono segrete non solo al pubblico ma anche alle corti di giustizia.” Ha denunciato Jameel Jaffer vice direttore legale dell’ACLU (Unione Americana per le Libertà Civili).

Nessuno si interroga sulla legittimità delle oltre 600  esecuzioni mirate di cittadini non americani portate a termine, secondo il governo USA, nell’ultimo anno con i droni. Eppure i Diritti Umani, con la Dichiarazione Universale nel 1948, sono divenuti un patrimonio di tutti gli esseri umani e non più soltanto - come nei secoli precedenti - un privilegio che ciascuno stato assicurava ai propri cittadini.

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(1) Vedi n. 191, Notiziario.

(2) Awlaki era scampato a due precedenti attacchi (uno dei quali, in maggio, effettuato con i droni).

(3) V. ad es. nn. 159, 168 e nn. ivi citati.

 

 

2) PIÙ GRAVE DEL PREVISTO IL RAPPORTO SULLE TORTURE IN AFGHANISTAN

 

Dell’ottimo rapporto delle Nazioni Unite sulle carceri afgane uscito in ottobre si può dire che costituisce un vasto repertorio per gli studiosi della tortura. Su noi Italiani ricade il disonore di combattere una guerra al fianco di un governo responsabile di crimini e violazioni dei diritti umani.

 

Nel numero precedente abbiamo dato notizia della decisione presa da diverse missioni militari occidentali in Afghanistan di sospendere l’invio di prigionieri in numerose prigioni alla vigilia dell’uscita di un rapporto delle Nazioni Unite sull’esteso uso della tortura nelle carceri afgane (v. n. 192, Notiziario). In seguito abbiamo potuto consultare il rapporto datato ottobre 2011 che in un’ottantina di pagine descrive una situazione nelle prigioni del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (NDS) e della Polizia Nazionale Afgana (ANP) che va al di là delle più pessimistiche previsioni (1)

Il rapporto intitolato “Trattamento dei detenuti in relazione al conflitto in Afghanistan” costituisce un vasto repertorio per gli studiosi della tortura. Non vengono risparmiati neanche i minorenni da un infame sistema di detenzione che appare perfettamente collegato ad un altrettanto infame sistema processuale, dedito a infliggere condanne più che ad assicurare giustizia.    

Ci sentiamo perciò in dovere di ritornare sull’argomento riportando due brani del rapporto.

L’ottimo Rapporto firmato dall’UNAMA (Missione di Assistenza all’Afghanistan delle Nazioni Unite) e dall’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani evita di attribuire direttamente al governo afgano – di cui registra le imbarazzate contro deduzioni - la responsabilità della situazione rilevata ma appaiono indiscutibili non solo la consapevolezza ma anche la complicità governativa in un tale stato di cose.    

E’ ovvio, come osserva il Rapporto, che “la tortura, il maltrattamento e la detenzione arbitraria da parte dell’NDS e dell’ANP non sono soltanto gravi violazioni dei diritti umani e crimini, essi introducono ostacoli al processo di riconciliazione e reintegrazione tendente a por fine al conflitto armato in Afghanistan.”

Rileviamo, di nuovo, il disonore che ricade su noi Italiani dall’essere alleati, in una guerra ormai decennale, con un governo corrotto che dimostra ripetutamente di non sapere dove siano di casa i diritti umani. E ricordiamo, di nuovo, che proprio all’Italia era stato affidato dai ‘liberatori’ che invasero l’Afghanistan nel 2001 il compito di riformare il sistema giudiziario di quel paese martoriato.

[… Le guardie dell’NDS] mi legarono le mani e le attaccarono, in alto sopra la mia testa, alle sbarre di metallo della finestra. Usarono una catena e delle manette per fissare così le mie mani. Non riuscivo a toccare il pavimento con i piedi. Mi liberarono solo poco prima del tramonto. Ogni ora veniva qualcuno e mi chiedeva se ero pronto a confessare, pronto a riconoscere il mio crimine [presunta adesione ad un’organizzazione terroristica]. Poi se ne andavano e chiudevano la porta a chiave… La notte successiva mi portarono fuori dalla cella. Erano circa le tre e mezza del mattino. Stavo molto male quando mi svegliarono. Mi riportarono nella stanza degli interrogatori… dal primo “responsabile”, l’uomo dell’NDS che avevo visto la prima sera. Lui mi mostrò un cavo e mi disse: “Ti darò delle scosse elettriche.” E poi mi inflisse le scosse [l’intervistato mostra tracce evidenti delle scosse subite]. Dopo questo, non capii più nulla, né dove mi trovassi né chi fossi. Quando mi ripresi, mi ritrovai nella mia cella, ma scoprii che c’era dell’inchiostro su entrambi i pollici. Non lo sapevo, ma mi avevano preso le impronte digitali [come prova di una confessione].

Detenuto n. 82, prigioniero in un carcere dell’NDS a Khost, aprile 2011

[…] Nel periodo tra ottobre 2010 e agosto 2011 l’UNAMA intervistò 273 persone [scelte a caso] detenute dall’NDS in carceri distribuite su 24 province. Dei 273 prigionieri intervistati, 125 (pari al 45 per cento) dichiararono di essere stati torturati durante la detenzione nelle mani dell’NDS. Le forme di maltrattamento più utilizzate erano la sospensione (restare appesi per lunghi periodi, per i polsi, con catene attaccate al muro, a sbarre d’acciaio o ad altri sostegni) e percosse, in particolare con tubi di gomma, cavi elettrici o bastoni di legno, e soprattutto sulle piante dei piedi. Altre forme di tortura riferite includevano scosse elettriche, torsione del pene e trazione violenta dei testicoli, strappo delle unghie dei piedi e costrizione a restare in posizione eretta per lunghi periodi di tempo. I detenuti riferirono anche di essere stati tenuti bendati e incappucciati. A detta dei prigionieri queste torture venivano quasi sempre effettuate durante gli interrogatori e avevano lo scopo di estorcere una confessione. Solo il due per cento dei detenuti che riferirono di essere stati torturati dall’NDS dissero che tali torture ebbero luogo durante l’arresto o in qualsiasi altro momento. L’UNAMA documentò la tortura sistematica da parte delle guardie dell’NDS in cinque strutture: le carceri provinciali di Herat, Kandahar, Khost e Laghman, e il carcere nazionale del Dipartimento Anti-Terrorismo 90/124 dell’NDS sito a Kabul. In altre due prigioni dell’NDS l’UNAMA ottenne numerose attendibili dichiarazioni di torture subite: nelle carceri provinciali di Paktya e Uruzgan. […] [pag. 16 del Rapporto, trad. di Grazia Guaschino]

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(1)http://unama.unmissions.org/Portals/UNAMA/Documents/October10_%202011_UNAMA_Detention_Full-Report_ENG.pdf

 

 

3) GIUSTIZIA TRIBALE IN AFGHANISTAN (*)

 

A 10 anni dall’invasione internazionale dell’Afghanistan, che doveva portare rapidamente legalità e giustizia, in vaste regioni del paese tuttora in guerra, le pene, inclusa la pena di morte, vengono irrogate in modo sommario da chierici e delinquenti locali in base alle tradizioni e alle usanze tribali.

 

Da un articolo di Nick Paton Walsh e Moni Basu, diffuso dal sito della CNN l’8 ottobre:

“Nawroz prega, in ginocchio. E’ un condannato a morte che sta per essere ucciso in modo brutale.

Il suo reato: ha ucciso il marito della sua amante.

Il giudice: un signore della guerra, di Kand, in Afghanistan.

Il boia: il padre della vittima.

Un cellulare cattura la scena raccapricciante.

Si sono radunati in molti per assistere a questo evento, stanno seduti sul terreno polveroso, in una zona ombrosa con macchie soleggiate qua e là.

Nawroz, avvolto in uno scialle bianco, si alza dal tappetino per la preghiera. Il padre della vittima viene accompagnato da un altro uomo davanti a Nawroz. “Tieni bene la pistola,” dice l’altro uomo al padre.

Bang.

Nawroz cade a terra.

Vengono esplosi altri due colpi.

“Smetti di sparare, somaro,” dicono alcuni spettatori.

“E’ ancora vivo,” dice uno.

Ma non resterà vivo a lungo.

Questo non è un video girato prima del 2001, nei giorni in cui i Talebani erano al governo e lo stadio di Kabul, anziché alle partite di calcio, era riservato alle pubbliche esecuzioni.

Un decennio è trascorso dalla guerra guidata dagli Americani per sconfiggere l’estremismo in Afghanistan, eppure la giustizia feudale esiste ancora. […]

Human Rights Watch ha dichiarato che in vaste regioni afgane non vige alcun sistema giudiziario e vengono praticate soltanto forme di giustizia tradizione o tribale.

Una relazione caustica, rilasciata l’anno scorso dall’International Crisis Group, descrive l’Afghanistan come una nazione “in catastrofico sfacelo”.

“Una maggioranza crescente di Afgani è stata costretta ad accettare la giustizia sommaria dei Talebani e di grossi delinquenti in zone del paese che si trovano fuori dal controllo del governo.”

(Trad. di Grazia Guaschino)

N. B. Secondo un testimone, i mullah avevano chiesto invano al padre della vittima di perdonare Nawroz in cambio di una parte delle terre e delle mogli della famiglia del reo.

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(*)http://articles.cnn.com/2011-10-08/asia/world_asia_afghanistan-tribal-justice_1_afghan-government-taliban-president-hamid-karzai?_s=PM:ASIA   - Vedi anche n. 181, Notiziario, n. 182, “Amore e morte in Afghanistan”.

4) IL MASSACRO DI GHEDDAFI RISPECCHIA IL VERO VOLTO DELLA GUERRA

 

All’orrendo massacro dello spodestato leader Muammar Gheddafi, sono conseguite dichiarazioni soddisfatte per l’esito della guerra in Libia che hanno superato di molto le proteste per un crimine che costituisce, da qualunque punto di vista lo si consideri, una grave violazione dei diritti umani, e mostra il vero volto di una guerra spacciata da una della parti contendenti per guerra umanitaria.

 

A partire dal 20 ottobre notizie confuse ed immagini eloquenti della cattura di Muammar Gheddafi, delle torture inflittegli, della sua salma violata, hanno fatto il giro del mondo (1). Da ogni dove si sono levate dichiarazioni soddisfatte per l’uccisione che ha posto fine alla guerra in Libia. Tali dichiarazioni hanno superato di molto le proteste per il crimine orrendo compito dai miliziani del CNT (2), nell’immediato ed anche nei giorni seguenti, durante il prolungato dileggio della salma semidecomposta del ‘colonnello’ offerta al pubblico nella città di Misurata. Pochi hanno notato che lo stesso destino di Muammar Gheddafi è stato riservato a suo figlio Mutassim e all’aiutante militare Abu Bakr Yunis, con lui al momento dell’attacco aereo della NATO che ha fermato il convoglio in cui gli sconfitti stavano fuggendo da Sirte, loro ultimo rifugio. Soltanto dopo quattro giorni dalla morte i corpi degli uccisi hanno trovato requie, seppelliti in un luogo segreto.

L’uccisione di Gheddafi, illegale da qualsiasi punto di vista, è stata solo una delle ultime in una guerra orrenda durata otto mesi con moltissime vittime. Sono probabilmente migliaia le uccisioni tra i sette milioni di libici e di stranieri immigrati.

A chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere, la fine di Gheddafi svela il vero volto di questa ennesima ‘guerra umanitaria’ combattuta dall’Italia.

La guerra in Libia è stata definita giusta e necessaria dai leader europei che l’hanno promossa, a cominciare dal presidente francese Nicolas Sarkozy. In seguito il presidente Obama, in primo tempo riluttante, ha apportato, nella maniera più discreta possibile, un possente contributo degli Stati Uniti.

L’intervento internazionale era stato autorizzato dalla risoluzione 1973 del 17 marzo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con il dichiarato intento di proteggere i civili dalla repressione operata da Gheddafi nei confronti dei ribelli. La risoluzione avrebbe dovuto funzionare soprattutto attraverso l’interdizione al sorvolo della Libia ma conferiva un mandato assai ampio ai paesi ‘volenterosi’ cui veniva consentita “ogni azione necessaria” per raggiungere lo scopo (3).

L’Italia ha finito col partecipare alla guerra in Libia, nell’ambito dell’operazione Unified Protector condotta dalla NATO, fornendo la maggior parte delle basi da cui sono partiti 26 mila voli militari, dei quali più di 9.600 di attacco contro le forze di Gheddafi. Sono stati impiegate nell’ambito di Unified Protector navi da guerra, satelliti, velivoli senza pilota di osservazione e di attacco, aerei ed elicotteri da combattimento, migliaia di bombe e missili ed anche, a quanto pare, centinaia di grossi missili da crociera a lunga gittata.

Come tutta questa potenza distruttiva abbia contribuito a ‘proteggere i civili’ è molto difficile immaginare. Di certo però ha dato un aiuto determinante ai ribelli del CNT nel rovesciare il regime di Gheddafi. Se lo scopo reale era quello di rovesciare il regime libico e non quello di proteggere i civili ha ragione il Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, che ha parlato di “una delle operazioni di maggior successo nella storia della NATO”.

E’ molto difficile destreggiarsi tra le notizie frammentate, lacunose, confuse, incerte, contraddittorie, spesso esagerate, trapelate nel corso della guerra libica. Ma si può affermare senza ombra di dubbio che sono state compiute massicce violazioni dei diritti umani ai danni di civili, di militari, di prigionieri, anche in spregio alle norme umanitarie internazionali che avrebbero lo scopo di rendere meno immorali le guerre. Si può dire che i diritti umani siano stati violati da tutte le parti in conflitto in ogni fase della guerra e particolarmente alla fine, durante l’assedio di Sirte, città in cui Gheddafi si era asserragliato tentando la sua ultima disperata resistenza.

I giornalisti di quando in quando hanno registrato efferati episodi di violenza gratuita – come il massacro di prigionieri inermi - che esulavano da una qualsiasi strategia bellica.

Serie inchieste, che probabilmente non verranno mai fatte, metterebbero in stato d’accusa numerosi soggetti per crimini di guerra e contro l’umanità, non solo Gheddafi e i suoi figli, come si è limitato a fare Luis Moreno Ocampo, Procuratore della Corte Penale Internazionale, per il quale, evidentemente, risulta più agevole perseguire i perdenti piuttosto che i vincitori.

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(1) Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=75YhFScM5sU&feature=share&skipcontrinter=1

(2) Consiglio Nazionale di Transizione, il nuovo governo transitorio dei ‘ribelli’

(3) Una traduzione italiana della risoluzione si può trovare all’indirizzo:

http://albertocacopardo.blogspot.com/2011/03/risoluzione-1973-2011-del-consiglio-di.html

 

 

5) C’È CHI PENSA CHE IL LINCIAGGIO DI GHEDDAFI SIA STATA COSA OTTIMA

 

Lo scrittore inglese Simon Sebag Montefiore sostiene, in un articolo ispirato dal linciaggio di Muammar Gheddafi apparso sul New York Times, che “i dittatori hanno la morte che meritano” e che quando un tiranno viene messo a morte mentre chiede pietà piangendo nella polvere, questa è una conseguenza della natura del potere e della reazione di un popolo oppresso.

 

Sul New York Times il 26 ottobre Simon Sebag Montefiore sostiene, in un articolo sorprendente, che “i dittatori hanno la morte che meritano” (1).

Secondo il noto scrittore inglese, “se un tiranno muore pacificamente nel suo letto nel pieno splendore del suo potere, la sua morte è una rappresentazione di tale potere; quando un tiranno viene messo a morte mentre chiede pietà piangendo nella polvere, anche questa è una conseguenza della natura del potere e della reazione di un popolo oppresso.

“Ciò non è stato mai così vero come per la morte del Colonnello Muammar Gheddafi l’altra settimana. La sola differenza tra la sua morte e quella di molti altri tiranni nella storia è il fatto che egli è stato ripreso con i telefonini, una possibilità che non c’era, ad esempio, all’epoca dell’imperatore Caligola. […]

“Leader occidentali ed intellettuali trovano il linciaggio del Colonnello Gheddafi disgustoso - Bernard-Henri Lévy teme che ciò “sporchi la moralità essenziale di un’insurrezione – ma ci sono solide ragioni politiche per la pubblica eliminazione di colui che si era proclamato re dei re. […]   

Solo la morte può cancellare sia il periodo di fascinazione che la prerogativa di dominare – e a volte neanche la morte spegne tali poteri. […] I romani erano così terrorizzati dall’imperatore [Caligola] che non fu abbastanza ammazzarlo. Lo volevano vedere morto […] La fila lunga un miglio di Libici felici di vedere il cadavere di Gheddafi in un refrigeratore da supermercato significa esattamente questo.”

Non siamo assolutamente d’accordo. Né con Bernard-Henri Lévy perché il linciaggio di Gheddafi non ha sporcato un’insurrezione: l’insurrezione era già divenuta assai sporca e il linciaggio ha solo mostrato il vero volto dell’insurrezione. E dissentiamo in toto con Simon Sebag Montefiore perché, nell’epoca dei diritti umani, non vi può essere alcuna ragione politica per qualsiasi linciaggio e tanto meno per un linciaggio bestiale come quello consumatosi ai danni di Gheddafi.

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(1) Vedi:

http://www.nytimes.com/2011/10/27/opinion/qaddafi-and-the-lives-of-tyrants.html?_r=1&nl=todaysheadlines&emc=tha212

 

 

6) ERGASTOLO AD ALFREDO ASTIZ PER CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ

 

Sedici pesanti condanne, di cui 12 all’ergastolo, che giungono ad oltre trent’anni dai fatti, ci dicono quanto sia stata forte l’omertà nei riguardi di coloro che si macchiarono di orrendi crimini durante la dittatura militare che si protrasse in Argentina dal 1976 al 1983 ma anche quanto rimanga forte la determinazione di fare chiarezza e giustizia nel paese dei desaparecidos e delle Madri di Plaza de Mayo.

 

Il 26 ottobre in Argentina, al termine di un processo durato due anni, ad oltre 30 anni dai fatti, è stato inflitto l’ergastolo all’ex ufficiale di marina Alfredo Astiz riconosciuto colpevole di tortura, omicidio e sparizione forzata, crimini compiuti durante la dittatura militare protrattosi in Argentina dal 1976 al 1983.

Il lugubre regime militare argentino si dissolse - anche in seguito alla sconfitta delle Falkland - quando, con enorme ritardo, l’opinione pubblica mondiale cominciò a conoscere e ad esecrare gli orrendi crimini compiuti dai militari, crimini avvenuti in precedenza nel silenzio assordante di chi sapeva sia all’estero che in patria, a cominciare dalla gerarchia cattolica argentina.

Ricordiamo che i militari ossessionati dal pericolo del “comunismo” in sei anni riuscirono a fare migliaia di vittime (forse 36.000, almeno 9.000 secondo la Commissione nazionale d’inchiesta nel 1983). Per lo più le persone venivano fatte sparire lasciando le rispettive famiglie nell’angoscia e nell’incertezza. Alcuni desaparecidos dopo essere stati torturati incontravano il plotone d’esecuzione, altri finivano in pasto ai pesci, anestetizzati e gettati dagli aerei in mare o nel Rio della Plata.

Dopo l’avvento della democrazia gli sforzi di processare i militari che godevano di appoggi nell’establishment argentino incontrano formidabili ostacoli.

Le prime condanne, solo 5, vengono inflitte alla fine del 1985. Nonostante le resistenze si arriva a processare circa 400 persone ma in seguito a pronunciamenti militari la grandissima maggioranza dei condannati viene esonerata nel 1987 in applicazione della nuova legge ‘dell’obbedienza dovuta’; anche Alfredo Astiz viene posto in libertà. Alcuni personaggi sono stati in seguito processati e condannati in contumacia in Francia e in Italia. A marzo del 2007 Alfredo Astiz e altri 4 ex ufficiali, riconosciuti colpevoli della sparizione di tre cittadini italiani, sono stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Roma (v. n. 148).

Nel frattempo, a fare chiarezza e giustizia se non altro nelle coscienze, ha molto contribuito un libro intitolato “El vuelo” (Il volo) uscito nel 1995, tradotto e letto in tutto il mondo. Il libro è firmato dal giornalista Horacio Verbitsky il quale raccolse la testimonianza di Adolfo Scilingo, un ex capitano di corvetta che, un po’ pentito per ciò che aveva fatto, un po’ risentito per la scarsa considerazione ricevuta dai suoi superiori nel corso della carriera, rivelò dettagliatamente al giornalista ciò che avveniva nel centro di tortura e di sterminio situato nella Scuola di Meccanica della Marina di Buenos Aires (ESMA). Qui spadroneggiava il 25-enne Alfredo Astiz, soprannominato l’“angelo della morte”, e qui operavano anche altri 15 ufficiali che sono stati condannati insieme a lui il 26 ottobre per crimini contro l’umanità: 11 all’ergastolo e gli altri a 4 pene comprese tra i 18 e 25 anni di carcere. Tra i crimini addebitati ad Astiz vi è l’omicidio di tre fondatrici del movimento delle Madri di Plaza de Mayo, movimento che egli infiltrò sotto falso nome fingendosi fratello di un desaparecido.

 

 

7) GIURIE IMPAURITE DALL’ACCUSA CHIEDONO LA PENA DI MORTE

 

Fernando Eros Caro, nostro corrispondente dal braccio della morte della California, ci ha inviato il 24 ottobre un articolo che parla delle paure indotte dall’accusa nelle giurie dei processi capitali.

 

Perché molti cittadini americani sono favorevoli alla pena di morte?

Alcuni studi mostrano che spesso le giurie preferirebbero condannare un imputato all’ergastolo senza possibilità di uscita sulla parola se venisse loro garantito che l’imputato non uscirà mai, non verrà mai liberato.

Gli avvocati dell’accusa sanno che le persone selezionate nelle giurie dei processi capitali possono essere indotte ad una scelta piuttosto che ad un’altra semplicemente manipolando le loro paure inconsce. Se l’accusa inonda i membri della giuria con la descrizione più atroce e sconvolgente del caso e dell’imputato, li può convincere a decidere per la condanna a morte piuttosto che per l’ergastolo. Anche se i fatti presentati dall’accusa sono gonfiati, distorti e stravolti, alle giurie è lasciata la convinzione che il mondo sarà un luogo migliore se l’imputato verrà ucciso. Inoltre, negli USA, se la vittima o le vittime sono di razza bianca e l’imputato non lo è, allora, beh, “deve” essere messo a morte!

Alla difesa, dall’altro lato, è lasciato l’arduo compito di convincere la giuria a permettere che l’imputato viva il resto dei suoi giorni in carcere.

I potenziali giurati vengono esaminati e interrogati diffusamente prima che sia loro concesso di far parte di una giuria in un processo capitale. I giurati dei casi capitali devono essere di mentalità aperta e non essere favorevoli alla pena di morte in partenza. Sfortunatamente, questo processo di analisi non è infallibile!

La mentalità dei giurati americani sarà sempre un’incognita. In un paese come l’America, che fu creato assassinando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a rendere una giuria infallibile? Un paese che permette l’incremento dei senza tetto, l’abbandono nelle strade dei malati di mente, che sottrae il denaro dall’educazione scolastica per investirlo nel prolungamento delle guerre. Guerre che uccidono migliaia di uomini, donne e bambini innocenti!

No, al termine di un processo, i giurati che dovrebbero essere equi e senza pregiudizi, sono ben lontani dall’esserlo! Le loro paure sono state alimentate al punto che temono di stare nella stessa aula di tribunale insieme all’imputato! Anche se preferirebbero chiedere la condanna all’ergastolo senza possibilità di uscita sulla parola, non riescono a lasciar vivere l’imputato!

E’ giusto tutto ciò? O non è piuttosto il risultato che l’America ha generato e fomentato?    Persone che basano le loro decisioni sulla paura, anziché sulla compassione e sull’intelligenza? Un paese che considera la cortesia e l’amore un segno di debolezza.

Davvero l’esecuzione di un uomo procura una sensazione di sicurezza? In Cina le esecuzioni procurano organi per i trapianti! No, le esecuzioni, indipendentemente dal luogo in cui vengono realizzate, sono solo un prodotto del male. (Fernando E. Caro)

 

 

8) ATTIVITÀ DEL COMITATO IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE

 

Il Comitato Paul Rougeau ha contribuito alla mobilitazione in occasione della Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte soprattutto partecipando a due manifestazioni, a Torino e a Roma.

 

Le oltre 120 associazioni grandi (come Amnesty International) o piccole (come il Comitato Paul Rougeau) che formano la Coalizione Mondiale Contro la Pena di Morte si sono mobilitate, come ogni anno a partire dal 2003, nella settimana che comprende il 10 ottobre, Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte.

Si sono svolte in molte decine di paesi iniziative - come conferenze, convegni, dichiarazioni pubbliche, interventi nei media - per indurre i cittadini di tutto il mondo, i governi, le istituzioni nazionali ed internazionali, le organizzazioni non governative… a battersi per l’abolizione della pena capitale facendo leva sul tema individuato di comune accordo. Il tema concordato quest’anno è stato l’ “Inumanità della pena di morte”. Il nostro Comitato si è mobilitato in particolare a Torino, il 10 ottobre, e a Roma, il 13 ottobre.

Il 10 ottobre nella splendida Aula Capitolare della sede dell’Arciconfraternita di S. Giovanni Battista Decollato, detta “della Misericordia”, Grazia Guaschino, che fa parte del Consiglio Direttivo del Comitato, ha tenuto – come unica relatrice - una conferenza sul tema “Giustizia e pena di morte”. Grazia si è soffermata in particolare su questi  argomenti: Pena di morte e Sacre Scritture. La pena di morte e la politica. La pena di morte e i familiari delle vittime e dei condannati. Metodi di esecuzione: sofferenze giuste? La pena di morte e il cammino dell’abolizionismo.

Non solo dagli argomenti trattati ma anche dall’ambiente in cui si è tenuta la conferenza, è emersa chiaramente l’’inumanità della pena di morte’. Infatti l’Arciconfraternita venne costituita, nel 1578, su concessione del duca Emanuele Filiberto di Savoia che autorizzò alcuni supplicanti di potersi congregare al fine di “sollevare le condizioni dei carcerati e di accompagnare al supplizio i condannati”.  All’interno della chiesa sono tuttora conservati alcuni oggetti di quei tempi tristi: una corda usata per le impiccagioni, il crocifisso che San Giuseppe Cafasso utilizzava quando accompagnava i condannati al patibolo, un minuscolo bicchiere con cui al condannato veniva fatto bere il suo ultimo “pasto”: un brodo di pollo. A sinistra dell’altare del crocifisso venivano sepolti i giustiziati, gettati da una botola in una voragine profonda più di 12 metri e larga circa 2 metri.

L’attenzione degli ascoltatori è stata notevole, alla relazione è seguito un animato dibattito che ha dato a Grazia l’opportunità di approfondire alcuni aspetti degli argomenti trattati e di constatare l’interesse suscitato.

Il 13 ottobre il nostro presidente Giuseppe Lodoli, nell’ambito della manifestazione “Premio Italia Diritti Umani 2011” organizzata dalla Free Lance International Press presso il Palazzo della Provincia di Roma, ha svolto una relazione dal titolo: “Crudeltà della pena di morte”. Dopo aver ricordato che i documenti e i trattati internazionali riguardanti i Diritti Umani si oppongono in maniera sempre più stringente alla pena di morte per due ragioni: in primo luogo perché la pena di morte costituisce una violazione del diritto alla vita, in secondo luogo perché la pena di morte costituisce una pena crudele, inumana e degradante - Giuseppe ha rilevato che il tema scelto dalla Coalizione Mondiale quest’anno riguarda direttamente la seconda di tali ragioni. Il tema è stato così articolato dalla stessa Coalizione: “Le spaventose condizioni di detenzione nel braccio della morte infliggono una estrema sofferenza psicologica e poi l’esecuzione costituisce un’aggressione fisica e mentale. Nel mondo i condannati a morte sono tenuti in condizioni terrificanti […] La situazione fisica in cui si trovano i detenuti ha caratteristiche crudeli e inusuali e la loro psiche è gravemente influenzata da tale situazione. Molti condannati a morte soffrono di malattie mentali.” Nei limiti di tempo disponili il relatore ha accennato alle orripilanti modalità con cui ancor oggi si svolgono le esecuzioni capitali nel mondo e si è soffermato sul rapporto che vi è tra malattia mentale e pena di morte. Infatti se da una parte i malati di mente trovano facilmente la strada del braccio della morte attraverso i delitti insensati che compiono, dall’altra le inumane condizioni di detenzione dei condannati a morte sono sovente causa di malattia mentale.

9) RICHIESTA DI CORRISPONDENZA, PREFERIBILMENTE IN SPAGNOLO

 

Mi chiamo Felix Rocha, ho 35 anni, sono nel braccio della morte del Texas, privo di libertà dal 1996, e mi piacerebbe corrispondere con qualcuno (amici o amiche), preferibilmente in spagnolo, la mia madre lingua.

Non voglio dipingere una falsa immagine di me per essere accettato come amico. Mi piace essere sincero, sempre, e dire esattamente come sono nella speranza di essere accettato come amico nonostante ciò.

Credo che questa sia una buona maniera di conoscersi, specie in questo caso, con questo unico mezzo che mi è possibile usare (lettere inviate per posta) e stare così in contatto con tutto ciò che esiste là fuori.

Io non dico mai quello che tu vuoi sentirti dire da me, e analogamente non mi piace che tu mi dica quello che voglio sentirmi dire io credendo che questo mi farà star bene. Se creiamo una falsa immagine di noi e diciamo quello che in realtà non sentiamo è ovvio che non ci conosceremo mai. E allora, che senso ha corrispondere con qualcuno che non è sincero? Non credi?      

Scusami per questa lunga disquisizione.         

E’ bene qui avere qualcuno con cui discorrere, è la cosa più piacevole che ci possa essere qui, dovendo stare in una cella tanti anni. Se mi scrivi  voglio che ti senta in libertà di commentare e domandare quello che vuoi, non ho nessun problema nel parlare di qualunque tema.. dicendo sempre quello che sento e penso, rispettosamente.

Forse non ha molto senso quello che vado dicendo… però che cosa ti puoi aspettare da uno che sta tanto tempo solo in questa situazione?

Bene, sono impaziente  di ricevere una lettera con una critica o qualunque cosa.

Sinceramente    Félix Rocha

Ecco il mio indirizzo:

Félix Rocha #999291

Polunsky Unit 12-DR.

3872 FM 350 South

Livingston, Texas, 77351

 

 

10) NOTIZIARIO

 

Arabia Saudita. Sanguinoso venerdì a Riyadh. Otto immigrati dal Bangladesh sono stati decapitati in pubblico nella capitale dell’Arabia Saudita venerdì 7 ottobre. I Bengalesi erano accusati di aver ucciso un Egiziano nel 2007, durante una rissa scaturita da un tentativo di furto di cavi elettrici compiuto da diverse persone in un edifico in costruzione in cui lavoravano. Altri 3 Bengalesi erano stati condannati al carcere e alla fustigazione. Amnesty International ha protestato per le numerose esecuzioni capitali che avvengono nel paese degli sceicchi in seguito a processi lontani da accettabili standard di equità. Nel 2011 le esecuzioni in Arabia Saudita sono state almeno 58; 20 dei ‘giustiziati’ di quest’anno erano stranieri (v. anche n. 192, Notiziario). Si tratta di un numero di esecuzioni maggiore di quello registratosi nel 2010 ma assai inferiore al dato del 2007, anno in cui si sono avute almeno 158 esecuzioni di cui 76 di stranieri

 

Egitto. Delusione per l’allontanamento della condanna a morte di Mubarak. Hosni Mubarak, l’ex presidente egiziano dimessosi l’11 febbraio dopo una sanguinosa rivolta durata 18 giorni, finito sotto processo a furor di popolo in una ‘primavera araba’ assi discutibile, con le accuse di complicità nell’uccisione di 800 dimostranti e di corruzione (v. nn. 188, 189, 191, Notiziario), è comparso in tribunale per una brevissima udienza il 30 ottobre. La corte formata da tre giudici ha sospeso fino al 28 dicembre il processo cominciato il 3 settembre e andato avanti stentatamente. La decisione ha scontentato i ‘ribelli’ che reclamano una sollecita condanna a morte dell’ormai malatissimo e depresso ex presidente. Il rinvio consegue alla richiesta fatta ad un’altra corte di esautorare i tre giudici che hanno condotto fino ad ora il procedimento. Ricordiamo che con Hosni Mubarak vengono processati due suoi figli, l’ex Ministro degli Interni e 6 ex collaboratori per la sicurezza.

 

Florida. Schizofrenico si difende da solo in un processo capitale ed è condannato. Estradato da un ospedale psichiatrico del Wisconsin, dove stava scontando un internamento giudiziario di 75 anni per crudeltà nei riguardi degli animali, Bill Marquardt è stato processato nella Contea di Sumter in Florida per aver ucciso senza motivo Margarita Ruiz, di 72 anni, e sua figlia Esperanza Wells, di 42 anni, il 5 marzo del 2000. Nonostante una diagnosi di schizofrenia paranoide, è stato consentito all’imputato di difendersi da solo. Sorridendo parecchio durante le udienze, Marquardt ha svolto la sua arringa difensiva sostenendo di non aver ucciso le due donne e accusando due spacciatori di droga, padre e figlio, che a suo dire volevano incastralo. Secondo Bill Marquardt si tratterebbe delle stesse due persone che avevano ucciso sua madre il 13 marzo 2000, due giorni prima che avvenissero gli omicidi contestatigli. Nonostante ciò la giuria ha impiegato solo due ore il 12 ottobre per dichiarare l’imputato colpevole di reato capitale. Il giudice William “Bud” Hallman non ha subito emesso una sentenza di morte riservandosi di deliberare entro il 30 novembre. Forse ha qualche remora di spedire nella camera della morte un uomo noto per essersi professato un profeta ispirato da Nostradamus.

 

Pakistan. Condanna a morte sospesa per l’assassino del governatore Salman Taseer. Il 1° ottobre la Corte speciale antiterrorismo di Rawalpindi, riunita a porte chiuse in una prigione di massima sicurezza, ha condannato a morte Malik Mumtaz Hussain Qadri per l’uccisione del governatore della provincia del Punjab Salman Taseer avvenuta in strada il 4 gennaio. Qadri, che faceva parte della guardia personale del governatore, uccise Taseer per motivi religiosi. Ai suoi occhi Taseer era meritevole di morte per essersi opposto alla condanna a morte della cristiana Aasia Bibi e per essersi espresso per l’abrogazione della legge che prevede la pena capitale per apostasia (v. nn. 187, 185). La Corte antiterrorismo ha mostrato un notevole coraggio nell’infliggere due condanne a morte più una pena pecuniaria a Qadri, stante l’esasperato clima di intolleranza religiosa nel paese, che ha portato il 2 marzo anche all’uccisione del ministro per le minoranze Shahbaz Bhatti, schieratosi, come Taseer, per Aasia Bibi e contro la legge antiapostasia (v. n. 188). Tuttavia l’11 ottobre l’Alta Corte riunitasi nella capitale Islamabad ha sospeso la condanna di Malik Qadri che è difeso da una poderosa squadra di avvocati. I legali di Qadri sostengono che la Corte antiterrorismo non aveva l’autorità di giudicare il loro cliente che deve essere giudicato da una corte religiosa (Corte federale della Shariat). Si susseguono manifestazioni per la liberazione di Qadri e proteste di autorità religiose, che accusano la Corte antiterrorismo di fare il gioco dell’Occidente.

 

Russia. Per l’assassinio di Anna Politkovskaya ancora nessuna condanna. Cinque anni dopo il brutale assassinio della giornalista Anna Politkovskaya (v. n. 144), nessuno è stato condannato per il delitto. La Politkovskaya, intrepida inviata della Novaya Gazeta, fu uccisa sulla porta di casa a Mosca il 7 ottobre 2006. Aveva denunciato le gravissime violazioni dei diritti umani che avvengono nella Repubblica Cecena, riportata con il pugno di ferro sotto l’egemonia russa da Valdimir Putin. Fallito clamorosamente il processo del 2009 contro sette imputati (v. n. 153, 167), a giugno di quest’anno è stato arrestato un sospetto killer della Politkovskaya e in agosto è stato implicato un funzionario governativo. Nulla è emerso riguardo ai mandanti.

 

Texas. Sconfitta legale per Robert Fratta. Robert Alan Fratta, un condannato a morte del Texas che fu a suo tempo seguito da alcuni soci del Comitato Paul Rougeau, ha perso il suo ultimo appello a livello statale: la Corte Criminale d’Appello del Texas il 4 ottobre ha respinto tutti i 32 punti, riguardanti errori procedurali, avanzati dalla difesa del condannato.  L’ex poliziotto Fratta è accusato di essere il mandante dell’omicidio della moglie Farah avvenuto nel 1994. Anche gli esecutori materiali dell’omicidio - Howard Guidry (il killer) e Joseph Prystash (aiutante di Guidry) - furono condannati a morte. Gli abolizionisti texani, che sostengono Howard Guidry divenuto un attivista nel braccio della morte, propendono per l’innocenza di costui nonostante il fatto che Guidry sia stato condannato a morte in un primo e in un secondo processo (v. n. 143). L’iter processuale di Fratta si trova ancora a livello statale perché egli ottenne l’annullamento del primo processo subito nel 1996 e fu di nuovo condannato alla pena capitale nel 2009.

 

Texas. Liberato dopo 25 anni Michael Morton innocente condannato all’ergastolo. Con l’aiuto determinante dell’Innocence Project, il 4 ottobre è ritornato in libertà ad Austin in Texas Michael Morton riconosciuto innocente  dopo aver scontato 25 anni di una condanna all’ergastolo per l’assassinio della moglie. Morton, che si è sempre dichiarato innocente, fu dichiarato colpevole senza prove ma solo in base ad indizi. L’accusa sostenne che egli aveva ucciso a botte la moglie perché quest’ultima si era rifiutata di avere un rapporto sessuale con lui. L’accusa in seguito nascose delle prove che potevano scagionarlo. Tra gli accusatori di Morton figura John Bradley, lo stesso personaggio che fu nominato dal governatore Rick Perry nella Commissione per le Scienze Forensi del Texas con l’evidente incarico di affossare l’indagine sull’innocenza di Cameron Todd Willingham messo a morte nel 2004 (v. nn. 179, 183, 184, 187, 189, 191). Ora i test del DNA hanno scagionato Morton implicando un altro uomo ricercato in diversi stati. Probabilmente l’errore giudiziario ai danni di Michel Morton non si sarebbe potuto correggere se egli fosse stato condannato alla pena capitale.

 

Questo numero è aggiornato con le informazioni disponibili fino al 31 ottobre 2011

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